L’azione legale avviata lo scorso 20 ottobre dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti contro Google si inserisce in un filone di iniziative che i pubblici poteri in tutto il mondo stanno mettendo in atto per arginare l’enorme potere acquisito dalle Big Tech. Come si è giustamente osservato “the desire to curb big tech has gone global”. Ma le legal actions costituiscono una risposta efficace a un fallimento del mercato che ha raggiunto dimensioni così estese?
Lo scorso 20 ottobre lo U.S. Department of Justice ha avviato un’azione legale contro Google, al termine di un anno di indagini. All’accusa hanno aderito anche 11 Stati. Il cuore della contestazione è costituito dalla violazione della Section 2 dello Sherman act, il quale vieta di “monopolize, or attempt to monopolize, or combine or conspire with any other person or persons, to monopolize any part of the trade or commerce among the several States, or with foreign nations”. Il segmento di mercato considerato è quello della ricerca online e, in modo collaterale, quello della pubblicità online.
Con riferimento ad essi Google viene definito dall’accusa “a monopoly gatekeeper for the internet”. Google, infatti, arriva a coprire più dell’80% del mercato della ricerca online; è talmente dominant che, nel linguaggio comune, è in uso ormai da tempo il verbo to google (“googlare” in italiano) che significa, per l’appunto, effettuare una ricerca sul relativo motore.
Tale posizione dominante, secondo il DoJ, è stata raggiunta attraverso una serie di pratiche anticoncorrenziali, tutte volte a far sì che Google costituisca il default access point all’interno di dispositivi mobili e computer. Ciò che ha ulteriormente alimentato la scale di Big G., incrementando la qualità dell’algoritmo utilizzato dal motore di ricerca a livelli tali che, per essere replicabili, richiederebbero ingenti investimenti finanziari (nella misura di miliardi di dollari).
La parte V dell’accusa descrive, nello specifico, queste pratiche anticoncorrenziali. Esse si sostanziano, in breve, nella conclusione di accordi – c.d. exclusionary agreements – con i produttori e/o distributori di dispositivi mobili, tramite i quali la società ha assicurato la presenza “di default” del proprio motore di ricerca. Ad esempio, in base all’accordo concluso con Apple, quest’ultima ha l’obbligo di configurare Google come motore di ricerca per Safari e per Siri; in cambio di ciò, Big G. corrisponde ogni anno miliardi di dollari derivanti dall’advertising revenue (più specificamente, si verifica una condivisione dei ricavi che Google ottiene ogni anno dalla pubblicità online). I ricavi che Apple ottiene rappresentano circa il 15/20% dei ricavi totali. Simili accordi sono previsti anche con i produttori di dispositivi Android.
Il mercato della ricerca online non è limitato esclusivamente ai dispositivi mobili, ma riguarda, altresì, i browser e quelli che il DoJ definisce “next generation of search distribution channels”, quali smart watch, smart speaker, smart TV. Anche in questi canali Google risulta il soggetto dominante.
Gli effetti distorsivi di tali pratiche sono descritti nella parte VI dell’accusa. Il ruolo di gatekeeper assunto da Big G ha determinato il prodursi di significative (direi inespugnabili) barriere all’ingresso del mercato della ricerca online, escludendo dalla concorrenza sia imprese rivali già presenti (in America sono Bing, Yahoo e DuckDuckGo) che potenziali nascent competitors. L’aspetto senz’altro più rilevante è che tali soggetti non potranno mai acquisire la “scale” propria di Google.
L’assenza di competizione ostacola, inoltre, l’innovazione nel settore, considerata in particolare la mancanza di competitive pressure in capo a Google e, in ultima analisi, produce un danno ai consumatori.
In conclusione, il DoJ chiede alla Corte di accertare la condotta anticoncorrenziale di Google e di porvi rimedio attraverso gli strumenti previsti dalla normativa antitrust.
Il procedimento avviato contro Google è stato definito “the largest antitrust case against a tech company in more than two decades”. Per trovare un caso simile, in effetti, bisogna tornare indietro agli anni Novanta del secolo scorso, precisamente al 1998 quando il governo americano ha intentato l’azione contro Microsoft per abuso di posizione dominante. Non sono mancate le critiche, volte a evidenziare il ritardo del governo nel prendere coscienza dell’enorme potere acquisito dalle Big Tech e nel reagire di conseguenza (“Washington was enamoured with Silicon Valley’s leading companies for too long, anche woke up too late to the dangers of market concentration”, come ha affermato Tim Wu).
In Europa i procedimenti contro le Big Tech sono, invece, stati avviati ben prima. Con riferimento a Google, nel luglio 2018 la Commissione ha inflitto un’ammenda di 4,34 miliardi di euro per pratiche anticoncorrenziali analoghe a quelle contestate dal DoJ, riguardanti i dispositivi mobili Android volte a rafforzare la posizione dominante del motore di ricerca di Google. Altre ammende – anche significativamente elevate – sono state inflitte nel giugno 2017 (2,42 miliardi di euro per aver abusato della sua posizione dominante come motore di ricerca conferendo un vantaggio illegale al proprio servizio di acquisti comparativi) e nel marzo 2019 per pratiche anticoncorrenziali utilizzate nell’ambito dell’attività di intermediazione pubblicitaria.
Simili iniziative, come anche quella del DoJ, vanno guardate con favore in quanto sintomatiche del sempre più marcato interesse dei pubblici poteri nei confronti di un settore che per troppo tempo è stato lasciato deregolamentato. Con molta probabilità, inoltre, esse produrranno un effetto a cascata, con l’avvio di ulteriori indagini e procedimenti per violazione delle regole antitrust.
Bisogna però chiedersi se questa strada sia quella giusta, sia cioè in grado di perseguire efficacemente l’obiettivo di porre un freno al potere dei colossi tecnologici.
La risposta è, almeno in parte, negativa. Come fanno notare alcuni, a meno che governo americano e Google non pervengano a un accordo, il caso impiegherà anni prima di pervenire a una definizione. Inoltre – come si è già sperimentato in Europa – le sanzioni che possono eventualmente essere inflitte non sarebbero sufficientemente afflittive e dissuasive. Non sarebbero, in altri termini, in grado – da sole – di modificare lo status quo, con la conseguenza che le Big Tech manterrebbero intatto il loro monopolio. Inoltre, va considerato che le indagini antitrust impiegano diverso tempo prima di pervenire a una definizione, con la conseguenza che la sanzione o il rimedio troverebbe applicazione molto tempo dopo rispetto alla violazione. A ciò si aggiunga che le decisioni delle autorità antitrust possono essere impugnate dinanzi all’autorità giudiziaria, con la conseguenza di un ulteriore allungamento dei tempi (Google, ad esempio, ha presentato ricorso dinanzi alla Corte di Giustizia UE avverso le delibere della Commissione del 2017 e del 2018, sopra citate; i ricorsi sono ad oggi ancora pendenti).
Tale aspetto, in un mercato soggetto a repentini cambiamenti, con tecnologie sempre più innovative, rende evidente la scarsa incisività di questo tipo di azioni.
Parallelamente, allora, vanno percorse altre strade. Occorre modificare l’approccio alla vigilanza, che deve essere sempre più proattiva (e non solo reattiva) e dotare le autorità pubbliche di nuovi poteri. In questo senso vanno le proposte formulate nel Report sulla concorrenza nel mercato digitale elaborato dalla Sottocommissione Antitrust del Congresso (ne abbiamo parlato qui, qui e qui) e quelle in corso di elaborazione da parte Commissione Europea. Lo scorso 15 dicembre è stato presentato un pacchetto di proposte di riforma, il Digital Services Act e il Digital Markets Act, con cui si intende introdurre una regolazione del mercato digitale. Tra le proposte presentate al Parlamento Europeo, si ricorda qui l’introduzione di regole (e poteri di intervento) ex ante relativi alle piattaforme online che operano quali gatekeepers.
Le proposte della Commissione sono state precedute da un’ampia consultazione pubblica su un nuovo strumento per la tutela della concorrenza, in cui vengono delineate quattro opzioni diverse che hanno in comune l’assenza del preventivo accertamento di un’infrazione (qui una descrizione completa dell’iniziativa).
Un primo passo verso una regolazione più efficace delle Big Tech è stato compiuto. Occorrerà ora attendere la conclusione dell’iter legislativo per vedere se le proposte saranno approvate, eventualità non scontata per alcuni (così il FT), essendo il Parlamento europeo diviso proprio sulle tipologie e sull’ampiezza dell’intervento regolatorio. Sarà, poi, l’attuazione delle nuove norme il momento decisivo, perché – come abbiamo ricordato commentando il Report dell’U.S. Congress – è lì che si testa l’effettività e l’efficacia delle misure proposte.
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