Un rapporto sulla privacy in chiave economica e comportamentale svela le diverse attitudini degli utenti verso la riservatezza online. La differenziazione tra aree geografiche e tra preferenze dei singoli aiutano a comprendere le misure regolatorie e la loro efficacia. Uno sforzo multidisciplinare meritevole di attenzione in contesti “difficili” come Internet potrebbe essere molto utile – senza però dimenticare il lato sociale e generale dei diritti, che sfuggono a criteri assoluti di quantificazione.
Il rapporto del Tech Policy Institute, “How Much is Privacy Worth Around the World and Across Platforms?”, di Jeffrey Prince and Scott Wallsten, del gennaio 2020, getta luce sulle attitudini dei singoli verso il tema della riservatezza online. Tema conosciuto, che spinge i confini della disciplina giuridica in un non-spazio, ormai familiare, di vita quotidiana. Tema ancora irrisolto, nella difficoltà di trovare un assetto giuridico-politico soddisfacente.
Lo studio analizza le diverse attitudini dei singoli in sei Paesi: Argentina, Brasile, Colombia, Germania, Messico, Stato Uniti. Prende in considerazione diversi ambiti di interesse nella vita dei singoli: finanza, dati biometrici, localizzazione, contatti, messaggi, cronologia di navigazione. Li correla, quindi, con le piattaforme e i device maggiormente in uso (connessione fissa, mobile, smartphone, social network). Cerca, in ottica econometrica, di comprenderne il valore, chiedendo a quale prezzo ciascuno sarebbe disposto a cedere i propri dati nei diversi ambiti richiamati. I risultati sulle preferenze sono comparati con i costi della regolazione. Una cost-benefit analysis, dunque, che riserva qualche sorpresa.
Si possono fornire cinque chiavi di lettura. Primo, vi è una grande variabilità negli atteggiamenti riscontrati presso i singoli e sono distinguibili le diverse zone geografiche: mentre in Germania si presta molta attenzione al tema, negli Stati Uniti vi è un minor interesse per la riservatezza. Secondo, da tale diversità deriva l’articolazione delle risposte regolatorie, con l’Unione europea che si pone come un possibile standard di riferimento mondiale, accompagnato – si noti – dalla California, che ha approvato il California Consumer and Privacy Act (CCPA), in vigore da gennaio. Terzo, le donne valutano la privacy in misura maggiore degli uomini. Quarto, i giovani sono disposti a cedere i dati a un prezzo inferiore rispetto alle altre fasce di popolazione di maggiore età. Quinto, al primo posto vi sono i dati relativi alle informazioni finanziarie e ai dati biometrici; la localizzazione, al contrario, è quasi sempre in basso nella graduatoria delle preferenze.
Come indicato nel rapporto, la quantificazione del valore è considerato al fine di disegnare le politiche di risposta. I “costi” della regolazione si rivelano essere più alti laddove vi è un minor valore assegnato dai singoli: caso degli Stati Uniti, fatta eccezione per alcuni Stati (come la California). Al contrario, un Paese europeo come la Germania potrebbe tollerare maggiori costi regolatori, in relazione al maggior valore nella scala delle preferenze.
È un insegnamento da tenere in considerazione nel configurare le politiche. Tuttavia, questo non dovrebbe comportare una assolutizzazione della misurazione: il “costo” dei diritti non è un imperativo assoluto, dovendo al contrario confrontarsi con parametri di valutazione sociale degli stessi; il “diritto di avere diritti” impone una riflessione di più vasta scala, in cui i valori della sfera pubblica siano orientati al benessere collettivo, secondo scale spesso impercettibili agli occhi – peraltro mai esatti – della scienza economica formale.
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