Editoriale uscito nel Giornale di diritto amministrativo (n. 4/2019).
L’articolo in .pdf è disponibile qui.
Il primo giugno 2018, sostenuto da un’inedita maggioranza Movimento cinque stelle-Lega nord/Lega per Salvini premier, ha giurato il governo Conte, il 65° della Repubblica, primo della XVIII Legislatura. Molta enfasi si è posta sull’esser il “governo del cambiamento”, rimarcandone l’alterità rispetto ai precedenti. A un anno dalla sua formazione, può abbozzarsi un primo bilancio (si cfr. S. Cassese, La verità dei numeri, il governo un anno dopo, in Corriere della sera, 19 maggio 2019). L’angolo d’osservazione è suggerito proprio dalla volontà di creare uno iato rispetto a prima. Il cambiamento, a ben vedere, non riveste un implicito valore positivo. È piuttosto una condizione ancipite, che può avere implicazioni positive o meno alla luce di differenti parametri di giudizio. Nelle politiche del 2018, tuttavia, la parte maggioritaria del corpo elettorale ha sostenuto le forze che proponevano una decisa discontinuità. Allora, può avere senso chiedersi quanto ci sia d’innovativo nei primi mesi del nuovo governo. Le osservazioni che seguono combinano profili strutturali (in specie la composizione del governo e degli uffici di staff) e aspetti funzionali (in particolare gli strumenti normativi utilizzati), per poi terminare sui programmi di più ampio respiro relativi al funzionamento della macchina pubblica.
Prendiamo le mosse dagli aspetti strutturali o meglio dagli uomini di governo e da coloro che sono stati chiamati alla diretta collaborazione. I ministri sono 18, di cui 7 della Lega e 9 del M5S; indipendenti, in quanto figure non propriamente di partito, sono 2 ministri (agli Esteri e al Mef) e il Presidente del Consiglio, aspetto singolare per un governo “politico”, non “tecnico”. A questi vanno aggiunti: 3 vice ministri, rispettivamente del M5S e della Lega, e 40 sottosegretari (22 al M5S, 15 alla Lega, 2 indipendenti ed 1 al Movimento associativo italiani all’estero-MAIE i cui 5 parlamentari hanno votato la fiducia). In pochissimi vantano una precedente esperienza di governo. Diminuisce drasticamente l’equilibrio di genere. La prevalenza dei Cinque stelle sulla Lega è la conseguenza della differente consistenza dei rispettivi gruppi parlamentari. I primi hanno 217 deputati e 106 senatori, a fronte dei 125 e 58 dei secondi. La maggioranza, come avrebbe potuto suggerire il ritorno a una formula elettorale prevalentemente proporzionale, non promana da un tradizionale patto di coalizione tra partiti alleati, ma si fonda su un “contratto di governo” tra forze politiche tra loro in competizione. Tale antagonismo ha segnato tutto il primo anno dell’esecutivo gialloverde. Il Premier in quest’assetto funge da “cerniera” tra anime diverse (spesso opposte) della maggioranza tanto che apertamente rivendica la propria indipendenza sia dai “gialli” sia dai “verdi” e i capi dei due partiti al governo sono anche vice presidenti del Consiglio. Si tratta di una novità per le istituzioni repubblicane che se, per un verso ha permesso di uscire dall’impasse creata da un esito elettorale di difficile composizione, per altro verso, può ingenerare conseguenze finanziarie e programmatiche meritevoli d’attenzione.
Alla Presidenza del Consiglio, come fisiologico, vi sono stati avvicendamenti nei fondamentali ruoli di Segretario generale e di Direttore degli affari giuridici e legislativi (Dagl). Due stimati consiglieri parlamentari sono stati sostituiti da altrettanti presidenti di sezione del Consiglio di Stato di cui uno proveniente dalla segreteria generale di una prestigiosa Authority. Inoltre, al Dagl, che della Presidenza del Consiglio è per molti versi il Dipartimento cardine perché snodo dell’attività normativa del governo, sono stati cooptati esperti di elevata professionalità: consiglieri di Stato e della Corte dei Conti, avvocati dello Stato, professori universitari di diritto. A Palazzo Chigi non vi sono stati solo cambiamenti. Nella segreteria del Consiglio dei ministri e nella posizione di vice capo Dagl, ad esempio, sono andate due persone, molto apprezzate, che avevano ricoperto altri importanti ruoli nei governi di centro-sinistra.
Al Ministero dell’economia e delle finanze è stato confermato dal nuovo Ministro il capo di gabinetto, un presidente di sezione del Consiglio di Stato (che lascerà l’incarico a fine dicembre, sostituto da un altro alto magistrato di Palazzo Spada) e due dei tre capi degli uffici legislativi. Anche agli Esteri, Interni e Difesa vi sono state conferme o sono state scelte persone che avevano avuto analoghe responsabilità in precedenza. Al Mise-Mlps è divenuto capo di gabinetto un consigliere parlamentare che in passato aveva avuto lo stesso incarico allo Sviluppo economico; nuovi entranti sono invece i capi dei legislativi. All’Ambiente e alle Infrastrutture e trasporti sono chiamati come capi di gabinetto professori universitari in materie giuridiche. All’Istruzione università e ricerca e all’Agricoltura e turismo capi di gabinetto e di uffici legislativi sono figure di grande esperienza. Ai Beni culturali il magistrato che nel precedente governo era vice è promosso capo di gabinetto.
La segnalata novità costituzionale di un governo di new entrant, sostenuto da forze che formano una maggioranza a “dicotomia asimmetrica”, è in parte bilanciata dall’ordinarietà con cui si sono costruite le fondamentali strutture di staff. Rispetto a queste ultime, dal quadro d’insieme emerge che, a fronte di alcune sostituzioni di consistenza ampiamente fisiologica, i ministri hanno confermato oppure hanno prescelto quali stretti collaboratori figure di consolidata professionalità ed esperienza. In particolare, può notarsi la ri-quotazione dei consiglieri di Stato che occupano nell’attuale governo quasi tutti i ruoli chiave, specie nel pre-consiglio. In questa cruciale riunione, che normalmente precede quella dei ministri, protagonisti sono il capo Dagl, spesso supportato dal Segretario generale della PCM, e i rappresentanti del Mef. Alcuni professori universitari sono stati sostituiti da altri accademici. Costante è la presenza di avvocati dello Stato e consiglieri della Presidenza del Consiglio. In regresso è il peso dei consiglieri parlamentari. Figure di giovane età e di limitata esperienza sono l’eccezione. La regola è, invece, la continuità sovente nelle persone, più spesso nell’attingere i grand commis dai corpi d’élite dello Stato. Il timore che col governo giallo-verde entrassero nelle “stanze dei bottoni” persone aliene al funzionamento – e spesso ai riti – dei corpi burocratici non può dirsi materializzato. Anzi, almeno sotto il profilo strutturale, il governo Conte ha compiuto scelte prudenti. Rispetto alla stagione del “renzismo”, in cui si volle muovere contro gli inamovibili “mandarini” che troppo incidono nelle decisioni, e che portò a guardare meno ai consiglieri di Stato, vi è stato un ritorno alla piena fiducia per i giudici amministrativi.
Volgiamo l’attenzione agli strumenti normativi impiegati per la realizzazione del programma. In un anno e un mese (1.6.2018-1.7.2019) il governo Conte ha adottato 22 decreti-legge, dei quali 20 sono stati convertiti in legge (tra cui: “Milleproroghe” e “Dignità” a luglio, “Genova” e “Sicurezza” a settembre, “Semplificazioni” a dicembre, “Reddito di cittadinanza e quota cento” e “Salva Carige” a gennaio, “Crescita” e “Sblocca cantieri” ad aprile, “Sicurezza bis” a giugno). Le leggi approvate dal Parlamento sono state appena 51: 26 di iniziativa governativa (20 di conversione), 13 di iniziativa parlamentare e 12 di ratifica di accordi internazionali. I decreti legislativi emanati sono 32 di cui 21 di trasposizione nell’ordinamento interno di disposizioni dell’Ue. Poche anche le fonti secondarie: i Decreti del Presidente del Consiglio sono stati 5, 10 i regolamenti adottati con Decreto del Presidente della Repubblica.
Raffrontiamo il governo in carica con il precedente, precisando che il periodo nel quale ha operato il gabinetto Gentiloni è stato un po’ più lungo (dal 12 dicembre 2016 sino al 1° giugno 2018). I decreti-legge sono stati 20, di cui solo 12 convertiti in legge. Le leggi approvate sono state 100 di cui, oltre alle leggi di conversione dei D.L., vi sono state altre 13 leggi di iniziativa governativa e 36 le leggi di ratifica di accordi internazionali. Sicché le leggi di iniziativa parlamentare sono state ben 39. Anche l’attività normativa secondaria è stata notevolmente più intesa: i d.P.R. sono stati 26, 15 i d.P.C.M. Colpisce la differenza tra i decreti-legge e le leggi d’iniziativa parlamentare. Il dato quantitativo può tuttavia condurre a deduzioni esagerate. Tanto il governo Conte, quanto quello Gentiloni si configurano come “comitati direttivi” della maggioranza parlamentare. Sotto questo versante le differenze sono marginali. Secondo una tendenza che viene da più lontano, i decreti-legge in entrambi i gabinetti, forzando non poco la previsione costituzionale, finiscono con l’essere disegni di legge rinforzati a efficacia immediata che segnano il dipanarsi dell’indirizzo politico del governo. Nell’attuale esecutivo i decreti-legge sono più numerosi. Ciò s’inscrive nella competizione tra le due forze politiche al potere. La logica è di rispondere colpo su colpo secondo un andamento in crescendo. Al decreto voluto dai 5S la Lega risponde con uno proprio e viceversa. La circostanza che ai decreti si diano definizioni icastiche, molto spendibili nella comunicazione politica (dignità, Genova, sbloccacantieri, crescita, sicurezza, ecc.), fa capire bene come entrino nella dialettica tra i “soci” di governo. Le numerose leggi d’iniziativa parlamentare durante il precedente esecutivo hanno in larghissima parte riguardato interventi micro-settoriali, utili più alla visibilità politica del proponente e del suo gruppo che ad altro. In generale, può osservarsi come anche nell’attuale legislatura, dando seguito ad una tendenza di lungo periodo, il Parlamento sia relegato ad una posizione gregaria. Ne è una conferma l’approvazione della legge di bilancio per il 2019 nella quale le prerogative delle Camere sono state particolarmente compresse. Esse, di fatto, si sono limitate a ratificare in blocco le scelte dell’esecutivo. Ciò ha ingenerato un conflitto di attribuzione sollevato da parlamentari di opposizione dinanzi alla Corte costituzionale (ord. n. 17/2019). Una differenza si riscontra nell’attenzione per la normazione di esecuzione-attuazione, sintomatica del clima da campagna elettorale permanente che ha spostato il centro sull’effetto annuncio insito nella legislazione piuttosto che sul momento dell’amministrazione. Fa eccezione l’impegno di numerosi ministeri nell’approntare revisioni delle loro discipline di organizzazione e funzionamento. Molti procedimenti non si sono ancora conclusi, per questo sono pochi i decreti pubblicati in G.U. Ad una prima impressione può evincersi come sovente la ratio delle modifiche organizzative può rinvenirsi nel desiderio di intervenire sulle posizioni dirigenziali così forzando i limiti allo spoils system imposti dalla Consulta.
Intensa è stata l’attività del governo sul fronte delle nomine: tra le maggiori se ne contano oltre 40. E non sempre l’esercizio di questo potere ha coinciso con l’individuazione di nuovi titolari d’incarichi cessati. Si pensi alle circostanze che hanno portato a sostituire il Presidente della Consob a pochi mesi dal suo insediamento, che possono sollevare dubbi sulla solidità dei poteri neutrali nel nostro ordinamento.
Anche sulla cruciale questione della tenuta dei conti pubblici si assiste – almeno per il momento – a una sostanziale continuità. I draconiani vincoli di bilancio, imposti dall’adesione al Fiscal Compact e dalla conseguente approvazione della L. cost. n. 1/2012, sono stati diluiti attraverso deroghe e rinvii costantemente negoziati dai governi della XVII Legislatura (di centro-sinistra) con la Commissione europea e il Consiglio. Nonostante toni molto diversi, spesso di aperta sfida nei confronti delle istituzioni e dei partner europei, nei fatti anche il governo giallo-verde ha negoziato flessibilità e tempi più lunghi per raggiungere l’obiettivo del pareggio strutturale di bilancio (magari nell’auspicio di far saltare questo vincolo). La vera differenza tra le due azioni di governo è che la prima ha chiesto “spazi di bilancio” in cambio di riforme strutturali (costituzionali, della pubblica amministrazione, del mercato del lavoro, della scuola, ecc.); la seconda, invece, pretende flessibilità minacciando più o meno velatamente l’exit dell’Italia che per l’Unione europea potrebbe ingenerare una catastrofica dinamica dissolutiva. Tuttavia, alla resa dei conti – la minaccia di apertura di una procedura d’infrazione per debito eccessivo – gli atteggiamenti muscolari hanno saggiamente ceduto il passo alla mediazione. Ne è prova la correzione dei conti operata dalla legge di assestamento di bilancio per il 2019.
Quest’ultimo ordine di riflessioni ne apre una conclusiva. Il governo Conte rispetto ai precedenti presenta punti di forza e di debolezza. Tra i primi va ascritto il fatto che i suoi leader sono abili comunicatori che rapidamente orientano le loro scelte ai desiderata dell’opinione pubblica, rilevati da sondaggi sempre più sofisticati e precisi. Dall’esame dei contenuti delle misure emerge inoltre un’ampia disponibilità a dare ascolto alle proposte che provengono dal mondo degli interessi costituiti in forma organizzata. Ciò accresce globalmente la fiducia nell’esecutivo, nonostante le perduranti difficoltà specie nei versanti della crescita economica, dell’occupazione, del divario Nord-Sud. L’essere un governo di “giustapposizione” anziché di coalizione (la via italiana al contratto di maggioranza) porta a tre inconvenienti maggiori. Il primo è l’impressione di una costante caducità. I soci dell’esecutivo dànno l’idea di essere sempre pronti al “disinvestimento” foriero della crisi. E da tale (anche solo apparente) instabilità non possono che aversi riflessi negativi sul sistema economico nazionale. Il secondo è la latente pressione sulla finanza pubblica. La competizione tra le due parti della maggioranza si riverbera in una concorrenza nella ricerca delle coperture finanziarie per le misure di spesa. Esse sono sempre inferiori a quanto promesso. Per questo la soluzione più facile sembra sempre essere l’incremento delle risorse prese in prestito. La crescita, anche solo paventata, del deficit innesca però una spirale perversa: fa aumentare i timori dei mercati, misurati dallo spread, e ciò determina l’incremento della spesa per la gestione del servizio sul debito con la conseguente contrazione delle risorse da destinare alle varie politiche, specie d’investimento. Il terzo inconveniente si ricollega al punto di forza rischiando di capovolgerlo. Saper interpretare le puntinistiche aspettative della parte maggioritaria dell’elettorato o delle corporazioni più attive ed influenti può indurre ad un disimpegno rispetto alle riforme più complesse, accontentandosi del sostegno confermato dal “popolo”. Rimanendo al solo campo rappresentato da funzioni e servizi pubblici, possono finire in secondo piano le strategie di legislatura di aggiornamento dei programmi e delle strutture di formazione (istruzione e università), di adeguamento in termini di standardizzazione di qualità e costi delle prestazioni sanitarie, di ammodernamento delle pubbliche amministrazioni in alcuni casi da sfrondare, secondo un disegno di semplificazione liberista, in altri da potenziare a imitazione di altri Stati che efficacemente combinano soluzioni alla von Hayek a strategie di matrice colbertista. Le misure contenute nella c.d. legge “concretezza” (L. n. 56/2019), come lo sblocco delle assunzioni o il contrasto all’assenteismo con sistemi tecnologicamente avanzati, rispondono solo in parte ai problemi e alle esigenze.
Su questo terreno l’annunciato cambiamento stenta a mostrarsi. Sempre che le condizioni strutturali di un governo sostenuto da forze rivali, non alleate, consentano politiche di più ampio respiro. Quella su cui si sta discutendo, l’ampliamento dell’autonomia di tre regioni del Nord, solleva più di un dubbio sia in termini di sostenibilità finanziaria sia di mantenimento delle condizioni di unità e indivisibilità (sostanziale) della Repubblica. Sino a oggi le due forze al governo di massima non si sono opposte alle misure proposte dall’altro partner di maggioranza, pur se distanti dalla propria piattaforma programmatica e dalle sensibilità del proprio elettorato. Sulla speciale autonomia regionale questa flessibilità politico-assiologica potrebbe però venire meno. La contrapposizione non si gioca tanto sul piano dei valori quanto dei concreti interessi delle diverse basi elettorali. La difesa di questi interessi, per non perdere consensi, richiede il raggiungimento di una non facile sintesi che potrebbe aprire ad una nuova fase di maggiore coesione programmatica oppure all’acuirsi delle ragioni di instabilità dell’esecutivo.