La storia delle rivoluzioni tecnologiche che hanno sconvolto la società e il mondo del lavoro può guidarci nella comprensione delle trasformazioni che investono il nostro presente. Il corposo volume di Carl Benedict Frey analizza in chiave storica i mutamenti del capitale e delle tecniche di produzione, misurando gli impatti sulle diverse generazioni. La narrazione dipana un filo rosso che parte dalla rivolta luddista e giunge all’erompere dei populismi e della frammentazione che connota il nostro presente. Ancora una volta, le lezioni del passato possono aiutarci a leggere l’attualità e immaginare il futuro.
«The longer you can look back, the farther you can look forward». La citazione di Winston Churchill che compare sin dalle prime battute di The Technology Trap. Capital, Labor, and Power in the Age of Automation (Routledge, 2019), sintetizza la prospettiva con cui l’Autore conduce i propri lettori lungo l’interpretazione della rivoluzione tecnologica attuale.
Carl Benedict Frey studia da più di un decennio il tema del futuro del lavoro umano e del capitale in un mondo e in una società trasformati dalla digitalizzazione e dall’automazione. Nel 2013, un suo rigoroso studio, condotto in collaborazione con il collega Micheal Osborne e pubblicato dall’Università di Oxford, aveva scosso il dibattito pubblico, rivelando come almeno il 47% dei posti di lavoro nel mercato americano rischiasse di sparire entro il 2030 per effetto dell’innovazione tecnologica. The Technology Trap si pone quindi come punto di arrivo (aggiornato) di un lungo percorso di analisi dei mutamenti nel rapporto tra tecnologia, economia e società: Frey vi dipana con ottima capacità narrativa un filo rosso che unisce la rivolta luddista all’erompere dei populismi e della grande divergenza tra classi e individui che connota il nostro presente, percorrendo i secoli che vanno dalla fase preindustriale ai giorni nostri con uno sguardo incentrato sul mondo anglosassone ma una lezione aperta a tutto l’Occidente.
L’intuizione alla base dello studio è arguta e di semplice rappresentazione: l’atteggiamento della società, e in particolare delle classi lavoratrici, nei confronti del progresso tecnologico è strettamente correlato al modo in cui questo influenza gli introiti dei singoli individui.
In questa prospettiva, è possibile distinguere più piani.
In determinate circostanze, e specie laddove la tecnologia diviene parte del capitale produttivo capace di sostituire il lavoro umano, gruppi omogenei di individui a rischio si uniscono per resistere al progresso tecnologico, mossi dal timore della perdita della propria occupazione (e status sociale) o di una (sostanziale) riduzione del proprio reddito attuale e prospettivo. Talvolta, questi timori trovano sponda nelle elite al potere, interessate al mantenimento di un certo status quo o a prevenire forme diffuse di instabilità sociale; talaltra, vengono piuttosto repressi duramente, incanalandosi in un processo di lotta per la supremazia tecno-economica tra le nazioni che sacrifica i meno abbienti nel breve termine.
Il volume di Frey si articola in cinque parti.
Nella prima, intitolata “The Great Stagnation”, si analizza la fase storica preindustriale, riassumendo i principali sviluppi tecnologici succedutisi dall’introduzione dell’agricoltura sedentaria sino all’alba della rivoluzione industriale, e dimostrando come il miglioramento delle condizioni di vita degli uomini è dipeso dallo sviluppo dei commerci e non dal processo schumpteriano di innovazione-creazione-distruzione.
La seconda e la terza parte del volume (“The Great Divergence” e “The Great Leveling”) approfondiscono la rivoluzione industriale, rispettivamente soffermandosi sul contesto britannico e statunitense: qui, Frey mostra l’oscillante atteggiamento delle classi produttrici verso l’evoluzione tecnologica, e i modi in cui la loro resistenza si è lentamente spostata da una rivolta “contro la macchina” a una spinta verso un’ammortizzazione sociale dei costi legati alla transizione verso un sistema di produzione meccanizzato, propellente della grande stagione del welfare State del ventesimo secolo.
Nella quarta sezione, l’analisi si restringe al passato prossimo rappresentato dall’avvento dei computer, tracciando la transizione dalla meccanizzazione all’automazione e definendone i tratti caratterizzanti: l’erosione della classe media, la concentrazione delle nuove occupazioni della skilled population all’interno delle grandi città, la polarizzazione socio-economica e geografica e la progressiva perdita di influenza politica di una larga fetta di individui posti sempre più ai margini, nuovo bacino delle tendenze (e delle sirene) populiste.
L’ultima parte di The Technology Trap è dedicata al futuro: l’Autore si diffonde sui principali sviluppi tecnologici più recenti, dal machine learning ai vari sottocampi dell’intelligenza artificiale, giungendo a ribadire come il conseguente peggioramento delle prospettive occupazionali di un’enorme fetta della classe media non potrà che porre in dubbio il favor verso il progresso tecnologico, imponendo la ricerca di strategie volte a consentire un effettivo adattamento alla nuova realtà.
Scorrendo le pagine nella prospettiva dell’evoluzione del rapporto tra diritto e tecnologia, la riflessione storico-economica di Frey richiama l’attenzione al nodo del ruolo dello Stato e delle democrazie liberali nel XXI secolo, e alla sfida posta agli equilibri di un’era che sembra ormai trascorsa. Non si tratta di un tema nuovo, in quanto molti scritti, negli ultimi anni, si sono soffermati sulla condivisibile diagnosi delle cause socioeconomiche che montano dietro la silenziosa protesta populista.
In questa prospettiva, il volume suggerisce di rivolgere l’attenzione a un elemento di interesse: la vera sfida per le classi incaricate di governare questa nuova era di transizione sta nell’effettiva capacità di leggere gli effetti prospettici dell’impatto delle nuove tecnologie e di distinguere tra opportunità e rischi per gli individui, accompagnando il discorso pubblico verso la valorizzazione delle prime, più che verso la pericolosa enfatizzazione (ma senza alcuna sottovalutazione) dei secondi. Solo un approccio capace di bilanciare i contenuti di questo messaggio collettivo potrà contribuire a ridurre il crescente divario tra individui (e spazi geografici) vincitori e vinti dell’epoca dell’automazione, disinnescando la rabbia degli esclusi e abbassando il volume delle sirene di chi, da secoli, propone soluzioni semplici a problemi complessi.
Come conclude Frey, in effetti, quale che sia il futuro che la tecnologia ci riserva, spetta ancora a noi definirne, per il meglio, gli effettivi impatti economici e sociali.