Cos’è un algoritmo? Benché il termine sia divenuto recentemente di uso comune, la narrazione mediatica e l’interpretazione collettiva del concetto e dell’applicazione degli algoritmi sono ancora confuse e approssimative. Nel loro ultimo libro, Serge Abiteboul e Gilles Dowek abbandonano la visione binaria che separa bene/male (per un verso, gli algoritmi rendono la vita di noi tutti più semplice, oltre a supportare imprese e poteri pubblici; per altro verso gli algoritmi erodono progressivamente la sfera di libertà individuale) e guardano alla complessità del tema. In particolare, si interrogano sugli sviluppi sociali, politici ed economici degli algoritmi.
Pur essendo divenuto di uso comune, non sempre al termine ‘algoritmo’ si attribuisce una definizione univoca. La narrazione mediatica – e, di conseguenza, la percezione collettiva – tendono ad associare agli algoritmi temi e problemi più ampi, finendo per sovrapporre le cause alle conseguenze. Un esempio classico è quello dell’impatto degli algoritmi sul mercato del lavoro. Alcuni – la minoranza – esaltano i benefici dell’automazione per la collettività, arrivando a sostenere l’obsolescenza dell’idea stessa di lavoro individuale. In un futuro prossimo, essi sostengono, l’essere umano avrà più tempo da dedicare ad attività ricreative. Saranno gli algoritmi ad occuparsi di gran parte delle attività di produzione. Altri invece guardano con preoccupazione al fenomeno, sostenendo che l’automazione creerà nuove aree di disoccupazione, cancellando alcune professioni – non solo quelle manuali, anche quelle intellettuali (quelle giornalistica e didattica, ad esempio).
L’ultimo libro di Serge Abiteboul e Gilles Dowek prova ad abbandonare questa visione semplicistica e binaria tra bene e male, offrendo una riflessione più attenta all’impatto che gli algoritmi hanno (e potrebbero avere) sulla società, la politica e l’economia. La prima parte del libro (piuttosto snello: in tutto 150 pagine) è dedicata alla ricostruzione del concetto di algoritmo e al chiarimento di alcuni concetti essenziali che ad esso si legano: automazione, intelligenza artificiale e computazione, per citarne alcuni. La seconda metà del volume è dedicata invece ai temi centrali e più delicati del dibattito in corso sugli algoritmi. Quale impatto hanno sulla produzione industriale? In che modo cambiano la proprietà privata e la sfera dei dati personali? Oppure, in senso più ampio, è possibile sostenere che gli algoritmi sono intelligenti e senzienti, e capaci cioè di provare emozioni come gli esseri umani?
Uno dei passaggi più interessanti del volume riguarda la relazione tra algoritmi e sistemi democratici. Certamente il tema è inflazionato, da tempo oggetto di attenzione da parte di accademici e governi. Abiteboul e Dowek muovono dal presupposto secondo cui l’attività delle pubbliche amministrazioni può essere concepita alla stregua di uno scambio di informazioni. Un amministratore locale o nazionale, spiegano, decide scambiando informazioni e negoziando con altri amministratori e portatori di interesse. Dato per valido questo approccio, possiamo allora provare a quantificare il volume di informazioni prodotto da un sistema democratico. È un dato interessante e, forse, inaspettato. Il volume di informazioni che produce una democrazia contemporanea nell’arco di un anno è sorprendentemente basso, pari a meno di 100 bits – un qualsiasi modem a uso domestico è immensamente più rapido e capiente.
Questo paradosso (quello cioè tra il basso volume di dati rispetto alla complessità delle democrazie) è importante perché aiuta a spiegare l’inadeguatezza (reale e percepita) dei sistemi democratici contemporanei. Le infrastrutture a sostegno dei sistemi decisionali sono state pensate e sviluppate in una fase storica in cui la tecnologia esistente non consentiva lo scambio rapido di informazioni. Questa circostanza impose l’adozione di semplificazioni estreme che regolassero efficacemente lo scambio di informazioni. Il voto, ad esempio. La preferenza espressa da un elettore a favore di un candidato è una semplificazione forzata, ma necessaria. Un sistema che consenta all’elettorato di ponderare ciascun punto del programma di un candidato, esprimendosi favorevolmente o meno rispetto a questi, non è praticabile (o, almeno, non lo è applicando gli strumenti tradizionali di cui si sono servite le democrazie fino a oggi). Con il progresso tecnologico, tuttavia, i problemi generati dalla semplificazione superano i benefici e si misurano in mancanza di capacità della classe dirigente, crisi dei partiti politici e nascita di movimenti populisti. Algoritmi più sofisticati e veloci – concludono gli autori – potrebbero risolvere questi problemi, a condizione che si accompagnino a una riflessione approfondita sul rapporto tra tecnologia e politica.
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