«Le grandi voci lontane»: ideali costituenti e norme costituzionali
In queste pagine introduttive, sono evidenziati alcuni aspetti salienti della lunga fase di preparazione della Costituzione, mettendo in risalto la rilevanza dell’indagine sulle fonti della cultura e sugli ideali costituenti registrati nelle norme costituzionali, oggetto dei contributi pubblicati in questo numero speciale della Rivista.
Il principio di eguaglianza: culture politiche e dibattito costituente
Il principio costituzionale dell’eguaglianza racchiuso nell’articolo 3, comma 1 e 2 della Costituzione deve la propria elaborazione al percorso di maturazione compiutosi in seno alle riflessioni di alcuni dei principali protagonisti del lungo dibattito costituente e in particolare al contributo delle figure di maggiore spicco dell’area socialista, cattolica e comunista. Esso trae altresì ispirazione dal dibattito relativo allo Stato sociale dei primi anni Quaranta del secondo dopoguerra e alla coeva diffusione del Piano Beveridge. Il saggio ripercorre entrambi questi percorsi, facendo luce sulle principali fonti di ispirazione della nuova norma-principio dell’eguaglianza (in specie sostanziale).
La Costituzione scolastica: radici, temi e risultati
Il saggio intende offrire una panoramica del dibattito svoltosi nell’Assemblea Costituente italiana sui temi dell’istruzione, della scuola e dell’insegnamento. In una prima parte vengono descritte le radici politico-culturali del dibattito pedagogico italiano e le posizioni espresse in Assemblea dalle sue componenti politiche e intellettuali più significative. Di questa discussione si evidenzia sia il ruolo centrale svolto dalla risoluzione del problema storico della posizione delle scuole confessionali, sia il condizionamento che questo tema ha giocato sulla possibilità che si affrontassero molti altri aspetti. In una seconda parte del saggio si evidenzia come l’interpretazione degli articoli che la Costituzione ha dedicato all’istruzione sia espressiva di questa originaria debolezza del compromesso costituzionale, in coerenza con il carattere aperto di molte altre parti del testo entrato in vigore nel 1948.
Tra discontinuità e sopravvivenze. I retaggi del corporativismo nella cultura costituente
Il crollo del regime mussoliniano portò con sé il tramonto del modello corporativo, uno dei nuclei essenziali intorno a cui si erano sviluppate la propaganda e la rivoluzione istituzionale fascista. Oggetto di condanna unanime, il corporativismo fu rapidamente espunto dal discorso pubblico, ma non smise di proiettare le proprie ombre nella vita politica e nella riflessione giuridica dell’Italia dei maturi anni Quaranta. Lo fece anzitutto in negativo rappresentando una sorta di antimodello nella definizione dei nuovi assetti democratici, ma alcune delle istanze su cui era sorto continuarono a risuonare nel contesto repubblicano. Di corporativismo si era del resto iniziato a parlare prima dell’avvento del fascismo e furono proprio alcune delle componenti culturali che ne avevano alimentato lo sviluppo (in particolare la cultura cattolica), a dare parziale continuità, pur in piena discontinuità con la stagione fascista, alla riflessione corporativa. L’esame della cornice programmatica di alcune forze politiche (Dc e Msi) e di una parte del dibattito costituente (le proposte di istituzione di una seconda Camera a rappresentanza organica, la formazione del Cnel, la definizione del modello sindacale repubblicano) consente di rintracciare le tracce del discorso corporativo nel secondo dopoguerra.
Leonardo Pompeo D'Alessandro
I consigli di gestione: aspirazioni della Resistenza e norme costituzionali
Il tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese approda all’Assemblea costituente dopo aver conosciuto una rinnovata centralità nel periodo resistenziale, quando, nel tentativo di determinare un nuovo modello di sviluppo economico del Paese, si decise di istituire i Consigli di gestione. Il tema fu al centro del dibattito politico, giuridico ed economico per tutto il periodo della transizione alla democrazia repubblicana, divenendo uno dei nodi irrisolti dell’intenso periodo di rinnovamento istituzionale che caratterizza i primi anni del dopoguerra. Il contributo ricostruisce le modalità in cui il tema è stato elaborato dalle culture politiche e dalle forze sociali del tempo e le tappe che hanno condotto al suo riconoscimento nella Carta costituzionale con la formulazione dell’art. 46.
Liberismo e pianificazione economica nella cultura costituente italiana
Nello studio della cultura costituente in tema di pianificazione economica, l’attenzione al periodo considerato (1943-1948), caratterizzato dalle contingenze di un’economia di guerra e dal recupero della libertà politica, pone il preliminare interrogativo di cogliere, dall’incrocio dei dibattiti, il significato del termine pianificazione di volta in volta impiegato: se si stesse parlando di interventi a sostegno della ricostruzione, di piani pluriennali, o di un principio di sistemazione delle storiche presenze statali nell’economia. Simile problema si pone nel comprendere quale idea di liberismo veniva proposta: liberismo ortodosso, neoliberismo, social-liberismo, liberal-socialismo, terze vie, sistema misto, etc. Possono anticiparsi le seguenti direttrici di sintesi. Dal lato socialcomunista, all’esigenza di far mostra di moderazione, espressa prima di tutto con il riconoscimento della libertà politica quale prius rispetto all’ordine dei rapporti economici, avrebbe fatto seguito — a Costituzione approvata — una critica sempre più serrata alla declinazione borghese della filosofia planista. Dal lato liberal-liberista, gli afflati polemici verso finanche il ricorso al termine piano, una volta licenziato il testo costituzionale, sarebbero scomparsi e questa forma di organizzazione del potere sarebbe stata ammessa senza imbarazzi. In mezzo, la costanza e la solidità del programma della Democrazia cristiana.
Disciplinare il partito: culture costituzionali a confronto
La rilevanza costituzionale del ruolo dei partiti rappresenta certamente una delle novità tipizzanti il secondo Novecento. Lo scopo del saggio è dunque quello di indagare, nel quinquennio 1943-1948, quale idea costituzionale di partito elaborarono i costruttori del nuovo ordine democratico italiano; partendo dalle premesse culturali del dibattito (che affondano le radici nelle riflessioni giuridiche di fine anni Trenta) per giungere infine alle scelte adottate dall’Assemblea costituente. Il percorso, che si dimostrò tortuoso e dall’esito tutt’altro che scontato, venne alimentato da una molteplicità di contributi giuridici e politici, che evidenziarono l’esistenza di culture costituzionali differenti e non sempre armonizzabili.
Le «instabili» fondamenta del bicameralismo costituzionale
Il saggio intende ricostruire come si è affermata la soluzione bicamerale e quali sono le ragioni che ne hanno determinato la scelta, al fine di far luce sulle radici storiche di tale assetto istituzionale. Sono identificate tre fasi: il dibattito precostituente, l’apporto di idee contenuto nei documenti del Ministero per la Costituente sull’assetto delle Camere, ed infine i lavori dell’Assemblea. La soluzione istituzionale di un bicameralismo paritario e perfetto, unica nel panorama costituzionale europeo, risulta poco sistematica e difficoltoso è il tentativo di dare un fondamento razionale al bicameralismo: un parlamento bicamerale, ma funzionalmente unicamerale perché indifferenziato, a cui si è pervenuti per via dei veti incrociati posti dai partiti, a causa del timore della vittoria avversaria e in ragione della divisione tra le forze politiche.
La figura e il ruolo del Capo dello Stato nella discussione pre-repubblicana (1943-1947)
In relazione alla figura del Capo dello Stato, nel presente contributo si analizzano, innanzitutto, le posizioni che sono emerse nella discussione pubblica nel periodo che va dalla caduta del fascismo sino al referendum istituzionale del 1946, in specie tra le forze politiche che intendevano dare vita ad un nuovo ordinamento costituzionale. Successivamente, sono esaminati i più rilevanti contributi offerti dai costituenti che, nell’ambito dell’Assemblea costituzione, si sono maggiormente occupati della tematica presidenziale, al fine di verificare quali opinioni ed opzioni interpretative hanno caratterizzato l’approccio dell’Assemblea costituente alle questioni relative al Capo dello Stato. In senso prospettico, si confronteranno le considerazioni espresse costituenti sul ruolo che avrebbe dovuto assumere il Capo dello Stato nel nuovo assetto istituzionale, con quanto effettivamente si è determinato nel concreto svolgimento della figura presidenziale nell’ordinamento repubblicano.
L’«incubo della dittatura passata» e la fiducia al governo
La fiducia, intesa come istituto che regola i rapporti Parlamento/governo, inizia ad affermarsi nel 1848 e acquista, progressivamente, la connotazione di esigenza costituzionale, pur in assenza di una norma scritta. Il ventennio fascista e la soppressione del Parlamento segnano per l’istituto un arresto, superato, caduto il fascismo, dall’emanazione del decreto legge luogotenenziale n. 98/1946 (seconda Costituzione provvisoria) che, per la prima volta, disciplina la fiducia e le procedure per attivarla. Con i caratteri contenuti nel decreto, la fiducia sarà poi votata dall’Assemblea costituente entrando a fa parte della Costituzione italiana.
Prima e dopo la Costituente: il governo debole
La parola «governo» inteso come istituto nello Statuto albertino non c’è. Appare nel dibattito di fine secolo, che risente dei modelli europei. La guerra mondiale è l’epoca del governo-protagonista. La riforma esalta la Presidenza del consiglio, mentre spinge ai margini il Parlamento. Negli anni pre-costituenti il tema ritorna ma è marginale. Vezio Crisafulli scrive nel 1944 e poi nel 1945 che il regime pre-Costituzione soffre di una difettosa legittimazione, perché esiste un governo senza Parlamento. Giorgio Amendola vede la legittimazione del governo nel CLN. Ma poi questa idea viene accantonata. Tra gli azionisti Calamandrei pensa a un governo forte, ma compensato dalle autonomie. I socialisti oscillano, con l’eccezione di Massimo Severo Giannini, l’unico che guarda anche all’apparato di governi cioè all’amministrazione. I cattolici trascurano per lo più il governo. In Costituente prevalgono due preoccupazioni: evitare l’instabilità governativa ma anche scongiurare il governo tiranno.
Verso l’indipendenza della magistratura (1944-1948)
La lunga storia dell’assetto istituzionale della magistratura, di cui l’ordinamento giudiziario Grandi del 1941 fu l’epilogo, lasciò un’eredità difficile al nuovo Stato democratico nella transizione dal fascismo alla democrazia. La Costituzione italiana è stata, in generale, il frutto della convergenza fra cattolici, comunisti e socialisti, tuttavia per quanto riguarda i temi della giustizia si può parlare di un’importante eccezione. In realtà, in questo campo, fondamentali furono l’apporto di esperti, come Piero Calamandrei con la sua concezione dell’autogoverno elaborata già a partire del 1921, e il ruolo della stessa magistratura al più alto livello che influenzò i lavori della Costituente nelle diverse fasi. Il testo finale riflette il raggiungimento dell’autonomia del corpo giudiziario, pur rinviando al futuro la realizzazione di una piena indipendenza.