Quale rapporto esiste oggi tra democrazia, tecnologia e intrattenimento? Siamo, tutti, sempre più abituati a utilizzare prodotti e servizi digitali estremamente accattivanti, facili e veloci da utilizzare e, soprattutto, belli da vedere. Tuttavia, intuitività, velocità e design hanno un costo, ambientale, politico e soprattutto sociale: legami sempre più forti tra tecnologia ed estetica digitale stanno trasformando le nostre aspettative e non più solo in merito al digitale. Di conseguenza, un divario sempre più ampio separa le nostre aspettative su tutto ciò che riguarda la digitalizzazione – compreso il governo – e la pratica effettiva della governance democratica. I regolatori democratici, incapaci di soddisfare le richieste dei cittadini di rendimenti tangibili, rapidi e gratificanti, stanno vedendo i risultati più scarsi mai registrati in termini di interesse, coinvolgimento e fidelizzazione, nonostante l’utilizzo delle tecnologie più all’avanguardia. Ma allora gli spazi democratici digitali dovrebbero essere riprogettati per ridurre il divario tra le aspettative e i risultati del processo decisionale democratico?
Attraverso un’attenta analisi della relazione tra l’implementazione del rapporto tra la tecnologia, il trattenimento e il design – che permea le nostre vite quotidiane, modificando abitudini non solo private ma anche pubbliche e sociali – e l’impatto che queste tre aree, fino ad oggi rimaste distinte, hanno sulla società, l’economia, la politica e le istituzioni, nel suo libro, G. Sgueo racconta se e come i poteri pubblici democratici possano o meno “salvarsi” dal mercato.
La domanda di fondo è se gli spazi digitali potranno mai rendersi più attraenti, ma anche efficaci, per coinvolgere i cittadini, tenuto conto degli ostacoli strutturali, sociali e culturali che le tecnologie digitali diffuse hanno (op)posto alle democrazie. C’è la consapevolezza che la democrazia digitale subisca effettivi ritardi di implementazione e venga sostanzialmente penalizzata dalle aspettative dei cittadini sempre più elevate nei confronti di prodotti e servizi digitali, perché abituati, da utenti, alla tecnologia e ai tempi del consumo ontologicamente diversi da quelli della democrazia (sia essa analogica o digitalizzata) (in questo Osservatorio, ne abbiamo parlato QUI).
Nel capitolo 1 del libro, laddove l’autore svolge alcune inziali osservazioni introduttive, fondamentalmente si indaga sul momento esatto in cui abbiamo iniziato a preoccuparci dell’estetica digitale. Quale peso dobbiamo attribuire alla progettazione digitale di istituzioni, regole e spazi di interazione democratica? Che peso dobbiamo dare all’estetica nella governance democratica digitale? Si tratta di una domanda metodologica e teorica allo stesso tempo. Da un lato, ci porta a chiederci come il governo digitale, e in particolare gli spazi democratici digitali, dovrebbero essere progettati per aumentare il divario tra le aspettative e i risultati del processo decisionale democratico. Oltre agli aspetti procedurali, ci costringe a considerare se gli approcci estetici al processo decisionale democratico digitale siano funzionali a gestire in modo efficace i problemi di impegno civico esistenti.
Nel capitolo 2, viene analizzata l’estetica della tecnologia di consumo, cercando di capire cosa renda l’elettronica di uso comune (cd. “consumer tech”) così diffusa e ubiqua. Comprendere, infatti, la natura dei servizi e dei prodotti digitali è il primo passo per definire e valutare la dimensione estetica degli spazi democratici digitali in grado di far coincidere le capacità delle strutture e delle procedure democratiche con le aspettative dei cittadini.
Nel capitolo 3 dedicato all’estetica digitale nella sfera pubblica, il compito è quello di esaminare le differenze progettuali fondamentali esistenti tra la tecnologia di consumo e gli spazi democratici digitali, anche se la conclusione, di fatto, è che necessariamente il processo decisionale democratico è antitetico alla tecnologia, per cinque motivi: (i) gli spazi democratici digitali devono necessariamente rimanere inclusivi e la tecnologia di consumo invece può essere – e spesso lo è – esclusiva; (ii) la regolamentazione pubblica è progettata per durare nel tempo, mentre la tecnologia di consumo ne pianifica l’obsolescenza; (iii) con occasionali eccezioni, le norme sono progettate per servire gli interessi di comunità ampi e indifferenziati, piuttosto che per rivolgersi a singoli stakeholder. Ciò implica che il principio di singolarità che permea la tecnologia commerciale non è applicabile ai servizi pubblici digitalizzati; (iv) gli spazi democratici virtuali differiscono dalla tecnologia di consumo in termini di affidabilità. I consumatori possono sempre rinunciare e adottare alternative più economiche: i cittadini non godono dello stesso grado di libertà; (v) i regolatori pubblici e gli operatori di mercato differiscono per quanto riguarda i vantaggi competitivi: i primi, a differenza dei secondi, operano al di fuori delle condizioni di mercato e, per questo motivo, hanno meno incentivi a innovare su scala.
Nel capitolo 4, l’autore indaga il paradosso di quello che definisce come l’“antidemocratico digitale” con particolare attenzione alla retorica del governo digitale come paradigma di una governance democratica efficiente.
Tuttavia, l’ultimo capitolo 5 tenta di concettualizzare l’estetica della democrazia digitale, esaminando i possibili “futuri” della democrazia digitale, del punto di vista estetico.
Contrariamente a chi sostiene che la tecnologia domini l’umanità e non il contrario (fenomeno che Sgueo chiama “argomento fatalista”), l’autore invece difende l’idea che la nozione di diritti partecipativi digitali veloci e facili da godere debba essere abbandonata: il processo decisionale democratico, infatti, non è efficace solo quando fornisce risposte rapide e di successo alle questioni poste, indipendentemente dalla sua complessità.
Per raggiungere tale ultimo obiettivo, occorrono tre soluzioni: (i) una narrazione corretta: definire uno “storytelling” della democrazia digitale che recuperi l’importanza della complessità del governare (in questo Osservatorio, ne abbiamo parlato QUI) a discapito della immediatezza; (ii) incremento dell’impegno civico: progettare spazi pubblici incentrati sulle interazioni, non sui risultati; (iii) incoraggiare approcci creativi, in particolare con incentivi alla progettazione del “game-design” applicato alla governance democratica.
La tesi dell’autore è che il game-design applicato alla governance democratica può offrire ai regolatori pubblici la possibilità di guadagnare la fiducia dei cittadini e quindi di essere percepiti come legittimi; adatta il policy-making alle sfide di bilancio e normative e, soprattutto, può aiutare a creare un’offerta democratica digitale in linea con le esigenze dei cittadini. In effetti, come per ogni innovazione politica, il game-design non è esente da preoccupazioni. La governance democratica “gamificata” presenta una serie di punti deboli, di natura sia pratica sia teorica, perché è intrusiva nei confronti dei dati e le dinamiche di gioco sono progettate e modellate per soddisfare le esigenze e le aspettative di alcune categorie di utenti. Possono finire per favorire l’esclusione piuttosto che l’inclusione. Pertanto, nel promuovere il game-design come soluzione al paradosso dell’antidemocrazia digitale, l’autore prende in considerazione e discute anche i suoi aspetti più controversi e problematici: il consumo di risorse, l’intrusione della privacy e la sostenibilità a lungo termine.
Questo libro racconta, quindi, il processo attualmente incompiuto, della trasformazione in atto della democrazia digitale, alimentata da modelli convergenti e contrapposti di design, tecnologia e intrattenimento, ma che, per fortuna, è ancora in corso e – anche – in corsa verso una nuova identità, un destino di implementazione e miglioramento al passo con i tempi, che non aspetta altro che crescere, trasformato e migliorato, ma pur sempre rispettoso e consapevole dei tempi connaturati alla complessità del processo decisionale democratico.
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