Recensione di G. Sgueo – “Il divario. I servizi pubblici digitali tra aspettative e realtà”, Egea, 2022

L’Amministrazione deve essere liberata dalla retorica del “subito”. “Governare è una questione “complessa…e bellissima!” e devono esserne consapevoli tutti: il legislatore, il Governo, le Istituzioni, la Pubblica Amministrazione, gli operatori economici e, non ultimi, i cittadini, devono tenere questo aspetto nella giusta considerazione, affinché possano colmarsi i divari percettivi maturati dall’ostinazione e dalla continua e spasmodica ricerca della semplificazione. Lo Stato, le istituzioni, il pubblico devono tornare a digerire, praticare e, se occorre, difendere la complessità. Il futuro sarà tecnologico. Ne conseguiranno effetti importanti per aziende, governi e cittadini. La pretesa generale è il varo di norme nuove, la regolamentazione di servizi, pubblici e privati, e dei mercati digitali che vada al passo veloce dell’innovazione creata dall’intelligenza artificiale senza dimenticare peraltro il valore e le protezioni dei dati. Tuttavia, in questa veloce corsa “a ostacoli” verso la “semplicità” del futuro digitale ci si dimentica il vero, grande nodo gordiano del futuro: la complessità. Come correttamente sostiene Sgueo, “scioglierne l’intreccio non significa semplificare”.

 

Viviamo in un contesto storico, politico, sociale e culturale in cui il progresso tecnologico e digitale crea, in ogni settore del vivere, pubblico e privato, l’aspettativa che qualsiasi processo possa essere reso accessibile a tutti, fruibile senza intermediari, intuitivo come uno smartphone, in altre parole, democraticamente “alla portata di un click”.

Tutto si semplifica – o, almeno, dovrebbe – e diventa estremamente veloce, immediato, riducendosi progressivamente in ciascuno, e in ogni settore del vivere sociale e lavorativo, la soglia della sopportazione per qualsiasi tipo di attesa, tipica ormai solo del vecchio e obsoleto “mondo analogico”.

Anche nell’ambito dei servizi pubblici, gli attori protagonisti della rivoluzione tecnologica, che sta trasformando lo Stato in digitale, inseguono letteralmente il tempo con la speranza che i nuovi strumenti tecnico-informatici possano soddisfare “vecchie” e “nuove” esigenze dei fruitori, alla pari di quelli privati. Tuttavia, il sogno felice – ma miope – di uno Stato digitale assai “semplificato” e veloce, si scontra con la realtà della “complessità” delle persone, delle decisioni pubbliche e delle strutture e degli apparati amministrativi.

Nel libro “Il divario. I servizi pubblici digitali tra aspettative e realtà“, edito a fine marzo scorso da Egea, Gianluca Sgueo, docente, ricercatore ed esperto presso il ministero per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, in maniera molto informata e realistica, fotografa la realtà dei tempi moderni e narra un – ormai noto – divario tra servizi pubblici e privati, ricordando, tuttavia, che i tempi del corretto andamento dell’attività della pubblica amministrazione sono necessariamente e ontologicamente differenti da quelli  privatistici e, quindi, conclude con un importante consiglio metodologico, che cambia (finalmente) la prospettiva comune dell’analisi del problema: allo Stato occorre recuperare l’idea di “complessità”, declinando poi su di essa la propria dimensione digitale. Questo assunto di partenza rappresenta, anzitutto, un metodo per affrontare il “reale” stato delle cose e, al tempo stesso, una garanzia per non mutilare l’azione amministrativa che, anche nella sua dimensione “digitale”, deve essere improntata al principio imparzialità e di buon andamento, nel perseguimento dell’Interesse pubblico.

Se ragioniamo da un punto di vista puramente pratico – evidenzia correttamente Sgueo –, dobbiamo riconoscere l’assoluta impossibilità per la pubblica amministrazione di assecondare l’andamento cairologico (che, ormai, soppianta quello cronologico) del tempo digitale, in cui tutto diventa potenzialmente urgente.

Conseguentemente, questa “bulimia” di accelerazione (che gli inglesi chiamerebbero ‘bias by design’) e di semplificazione stringe il nodo del divario. Del resto se lo schema di fondo è quello di brevi e ripetute gratificazioni, la premessa perché questo schema possa funzionare è proprio la velocità di erogazione del servizio. Affinché la PA sia effettivamente “liberata dalla retorica del subito” può essere utile, per prima cosa, un cambio di passo culturale, non tanto degli operatori, quanto degli amministratori pubblici e della politica. Spetta alla narrazione pubblica da parte dei titolari di incarichi pubblici incaricarsi del dovere di illustrare il governo digitale per quello che è: migliore della vita analogica, ma niente affatto semplice.

Partendo dall’assunto di Sgueo, alcune domande da porgere all’autore sorgono, quindi, spontanee.

D: Quali sono, dunque, le soluzioni per affrontare il divario tra pubblico e privato: investimenti e cooperazione? È possibile ritenere che una delle vie (ancora troppo inesplorate, almeno in tutto il suo potenziale) per implementare entrambi questi aspetti possa essere il ricorso a strumenti di Partenariato Pubblico Privato?

R: nella strategia italiana per la transizione digitale i partenariati giocano un ruolo importante. Si pensi ai casi del cloud e della telemedicina. Molti analisti considerano i PPP un salvacondotto per scongiurare alcuni dei mali noti dell’azione pubblica, senza però delegare interamente la gestione di beni pubblici al mercato, rimanendovi esposti senza difese. Uno studio pubblicato pochi mesi fa da McKinsey, dedicato al rilancio dell’innovazione degli ecosistemi imprenditoriale e pubblico europeo mette proprio i partenariati al primo posto tra gli strumenti per garantire innovazione e crescita nel vecchio continente;

D: esiste la necessità di creare norme, nuovi principi, istituti e categorie giuridiche (i.e. un nuovo diritto dei servizi pubblici digitali”), oppure sarebbe più utile osservare con pazienza la realtà fenomenica che ci circonda (secondo un vecchio brocardo “dammi il fatto e ti darò il diritto”) semplicemente ri-adattando e, quindi, re-impiegando principi, norme e diritto già esistenti? 

R: a tal proposito, si rileva che uno studio pubblicato recentemente ha analizzato l’impatto avuto dal Regolamento generale per la protezione dei dati personali 2016/679 (GDPR) in Europa sulle applicazioni mobili messe a disposizione sul Google Play Store. Risultato: tra il 2016 e il 2019, con l’entrata in vigore del nuovo regime UE, circa un terzo delle applicazioni è uscito dallo store digitale di Google, mentre l’ingresso di nuove applicazioni si è ridotto di circa la metà. Questo è un esempio eccellente dei rischi che troppe norme, o norme fuori tempo rispetto ai fenomeni che provano a regolare, possono causare sull’innovazione. Purtroppo però se il legislatore rimanesse immobile perderemmo quel perimetro minimo di tutele che abbiamo oggi rispetto alle tecnologie di uso comune. L’l’impressione è, quindi, quella di trovarsi di fronte ad un problema privo di soluzione, o almeno privo di una soluzione realmente soddisfacente;

D: come si atteggia il fattore complessità con la cybersicurezza? In relazione a tale domanda, c’è il rischio che sorgano temi geopolitici che possano rallentare la co-creazione, nemici della transizione digitale?

R: nel caso della sicurezza cyber la componente più sfidante della complessità è quella della velocità. Qui il livello di sofisticazione delle minacce cyber evolve così rapidamente che è praticamente impossibile approntare difese sempre efficaci. Da qualche tempo i governi hanno iniziato a spostare il baricentro della discussione dalla sicurezza alla resilienza cyber. Il termine ‘resilienza’ è abusato, me ne rendo conto, ma il principio di fondo in questo caso è interessante. Non si tratta necessariamente di respingere l’intrusione, ma di mitigarne gli effetti, contenendo il disagio e riducendo quanto più possibile le ripercussioni.

Diverso (in parte) è il tema della co-creazione. È un’idea percorsa nel libro, di cui se ne parla da qualche tempo, ma siamo ancora in una fase esplorativa. Un coinvolgimento diretto dell’utenza nella creazione del servizio digitale può essere uno strumento adeguato per trasmetterne la complessità. Il tema quindi non è necessariamente geo-politico. È tecnico, anzitutto; ed è nuovamente narrativo. Se la partecipazione alle decisioni pubbliche in formato analogico è tradizionalmente bassa e ristretta a un gruppo ridotto di persone, cosa ci fa pensare che quella in formato digitale non replichi le stesse dinamiche?

 

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