Marta Cartabia recensisce “Potere globale”

Potere globale. Regole e decisioni oltre gli Stati (il Mulino, 2018), di Lorenzo Casini

(recensione pubblicata in Rivista trimestrale di diritto pubblico n. 1/2019)

 

L’agile volume di Lorenzo Casini dedicato alla globalizzazione giuridica è pregevole per molti motivi.

Innanzitutto, è un libro colto, oltre che scientificamente solido. L’analisi dei soggetti, delle procedure, degli atti che compongono il potere globale è punteggiata di pertinenti richiami a grandi nomi: da Einaudi a Musil, da Goethe a Mann, a Pollock. Le piacevoli pagine di questo volume offrono al lettore i frutti della riflessione giuridica nazionale e internazionale sulla globalizzazione, unitamente a una visione ampia, umanistica, del fenomeno oggetto di riflessione.

È un libro anche ironico e leggero — della leggerezza che Italo Calvino elogiava nelle Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1988, postumo), Milano, Mondadori, 2002, 7 ss. — con i suoi riferimenti alle immagini di Lewis Carroll in Alice nel paese delle Meraviglie e di Cervantes nel don Chisciotte. Leggero, ma non per questo poco profondo: la realtà doppia dei mulini-giganti, degli osti-castellani e delle locande-castello è un immaginifico invito a superare i dualismi del pensiero moderno, che tendono a separare nella teoria ciò che nella realtà è unito.

È così che nella modernità giuridica si tende a separare artificiosamente la dimensione del diritto pubblico da quello privato, l’ordinamento nazionale da quello internazionale, che invece, nella realtà globalizzata del nostro tempo si intrecciano e si contaminano.

La solidità dell’analisi affonda le radici in una metodologia ineccepibile. La mossa iniziale di ogni riflessione è innanzitutto una osservazione del dato di realtà, sicché in tutto il libro i fatti prevalgono sempre sulle idee: un pregio di non poco momento, data la facilità con cui il tema della globalizzazione può essere preda di dialettiche ideologiche, che poco hanno a che fare con la realtà così com’è.

Tale metodo è una scelta abbracciata consapevolmente dall’autore che fa proprie le considerazioni di Amartya Sen circa la necessità di abbandonare le ideologie precostituite, perché «la globalizzazione di per sé non è una follia» e occorre solamente «una distribuzione più equa dei suoi frutti» (A. Sen,Globalizzazione e libertà, Milano, Mondadori, 2002, 77 ss.).

Sin dalle prime pagine si può cogliere questa impostazione. L’osserva- zione della globalizzazione è condotta attraverso uno sguardo panoramico sugli acronimi che popolano la realtà globale — le «lettere dell’alfabeto» già evocate da Luigi Einaudi (p. 7 ss.) — che lasciano emergere un fenomeno imponente per la sua dimensione quantitativa e per la varietà dei settori intaccati dal potere globale.

Il volume, tuttavia, va oltre la pura descrizione. Si impegna in uno sforzo di concettualizzazione e di problematizzazione. Offre al lettore alcuni concetti e classificazioni utili a orientarsi nell’altrimenti magmatico universo dei sog- getti del potere globale, distinguendo ad esempio tra organizzazioni intergo- vernamentali, network globali e istituzioni meramente private o pubblico- private (p. 17 ss.).

D’altra parte, soprattutto nel capitolo finale, l’autore non si esime dal cimentarsi con gli aspetti più critici e problematici, specie quelli relativi alla legittimazione, all’accountability e al controllo di questi nuovi centri di potere.

La paziente osservazione del fenomeno in esame conduce l’autore e il lettore a porsi domande, a interrogarsi sulla realtà che va sviluppandosi nell’universo globale.

La tesi centrale del libro, pienamente condivisibile da parte di chi scrive, è che la globalizzazione non soppianta e non è destinata a soppiantare gli stati. Al contrario, lo stato continua ad essere protagonista essenziale della globa- lizzazione: «oggi è lo Stato la figura che campeggia nello spazio giuridico globale e che rappresenta il punto di arrivo “ontologico” dei popoli, a conferma che il diritto ha bisogno del “dove”». E ancora: «La globalizzazione giuridica produce effetti ambivalenti perché, se, da un lato, può indebolire la sovranità nazionale, dall’altro la rafforza. Gli Stati infatti, sono “una parte fondante della globalizzazione. Essi crescono nello spazio globale e allo stesso tempo sono limitati dalle istituzioni ultrastatali”» (pp. 16-17).

La riflessione dell’autore si distanzia da quelle narrazioni che interpre- tano l’attuale ondata di sovranismo e nazionalismo come reazione agli eccessi del potere globale, che avrebbe indebitamente oscurato il ruolo degli Stati.

Lorenzo Casini condivide invece la linea di pensiero — propria anche del Suo maestro, Sabino Cassese — che interpreta la globalizzazione come una trasformazione delle dimensioni del potere che consente agli Stati di ampliare il proprio raggio di azione, attraverso nuove procedure e nuovi ambiti di intervento. La scena globale non è un pianeta distinto dalle istituzioni statali; al contrario, è una arena in cui anche gli Stati esercitano il proprio potere, sia pure con modalità inedite. A suffragare questa tesi, l’autore scrive pagine molto belle, ad esempio, sui siti dichiarati dall’Unesco come patrimonio dell’umanità (pp. 48 ss.), dove è evidente che l’intervento dell’organizzazione internazionale potenzia virtuosamente anche le istituzioni domestiche, invece di comprimerne il ruolo.

Lungi dall’offrire una lettura irenica della globalizzazione, Lorenzo Ca- sini ne sottolinea la natura come fenomeno in formazione, che produce un enorme trasformazione strutturale e ordinamentale, non scevra da frizioni e scosse di assestamento. Nelle parole dell’autore, la trasformazione prodotta dalla globalizzazione è così profonda da richiedere di ripensare non poche categorie giuridiche: innanzitutto il ruolo delle regole e del loro valore. Le regole della globalizzazione non trovano una collocazione certa in una «ge- rarchia delle fonti» o in un ordinato disporsi, in relazione alla intensità della loro forza vincolante. Vi sono la soft law, le by-laws e tanti altri vincoli che non sono riconducibili alle tradizionali categorie della forza e dei valori di legge, rispetto alle quali altre regole si pongono in rapporto di sovra o sotto- ordinazione. Similmente, la natura delle sanzioni da applicarsi a chi infrange tali regole non sono riconducibili alle tradizionali forme di penalizzazione: in un mondo fatto di legami, connessioni, reti, appartenenze, la «slealtà» verso le regole concordate è in sé una sanzione, in quanto mina la credibilità e la reputazione del soggetto che agisce in modo inaffidabile, il quale viene così a trovarsi ai margini della comunità. È quasi una riedizione di antiche pratiche come l’outcasting, riscoperte e splendidamente raccontate da Oona Hathaway e Scott Shapiro, nel loro recente volume The Internationalists (New York, Simon & Shuster, 2017).

Marta Cartabia
Giudice della Corte costituzionale della Repubblica italiana e professore di diritto costituzionale nell’Università di Milano «Bicocca»