Con l’ordinanza del 10 gennaio scorso, n. 240, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione europea cinque questioni pregiudiziali concernenti la disciplina in materia di contratti a tempo indeterminato dei ricercatori universitari.
Le questioni sottoposte riguardano la disciplina nazionale dettata dall’art. 24, comma 3, lett. a), e dall’art. 22, comma 9, della legge n. 240/2010, nonché varie disposizioni dei d.lgs. 81/2015, 75/2017 e 165/2001.
Tali previsioni consentono alle università italiane, tra l’altro, l’utilizzo, senza limiti quantitativi, di contratti di ricercatore a tempo determinato con durata triennale e prorogabili per due anni, senza subordinarne la stipula e la proroga ad una ragione oggettiva connessa ad esigenze temporanee o eccezionali dell’ateneo disponente, con l’apposizione di un unico “tetto” dato dalla previsione di un periodo massimo di collaborazione della durata complessivamente non superiore a dodici anni.
La Sezione rimettente dubita della compatibilità di tale quadro normativo con le disposizioni dell’accordo quadro di cui alla Direttiva n. 1999/70/CE riguardante il lavoro a tempo determinato, e, più in particolare, delle norme ivi previste in materia di prevenzione degli abusi, nonché con i principi di equivalenza, effettività ed effetto utile del diritto europeo.
Nella propria ordinanza, il Consiglio di Stato ha rammentato il noto orientamento della Corte di giustizia secondo cui, sebbene esigenze di bilancio che tendano a negare la tutela conservativa del posto di lavoro possano costituire il fondamento di scelte di politica sociale di uno Stato membro e influenzare natura e portata delle misure da adottare, le stesse non possono costituire di per sé un obiettivo di tale politica; pertanto, non giustificano l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.