Con una fondamentale pronuncia relativa alla riforma della disciplina delle banche popolari a opera del d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2015, n. 33, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del predetto decreto, sollevate dal Consiglio di Stato in riferimento all’articolo 77, comma 2, agli articoli 41, 42 e 117, primo comma, nonché agli articoli 1, 3, 23, 42, 95 e 97 della carta fondamentale.
In relazione alle suddette questioni, la Corte ha sinteticamente osservato quanto segue.
In primo luogo, la Corte ha rilevato che il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto legge, deve essere limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, comma 2, Cost., o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione; nel caso di specie, le ragioni giustificative esposte nel preambolo del d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 e le diffuse considerazioni svolte nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione escludono che si sia in presenza di evidente carenza del requisito della straordinaria necessità e urgenza di provvedere, così come escludono che la valutazione del requisito sia affetta da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà.
Al contempo, anche per quanto riguarda la natura di riforma di sistema della normativa impugnata, che ne impedirebbe l’adozione con decreto-legge, richiamando la precedente pronuncia n. 287 del 2016, la Corte ha evidenziato come la normativa in esame «non presenta una portata così ampia da caratterizzarsi come vera e propria riforma del sistema bancario», poiché, «[p]er quanto essa incida significativamente su un particolare tipo di azienda di credito, resta pur sempre un intervento settoriale e specifico, non assimilabile dunque a un atto definibile come riforma di sistema». Inoltre, la presenza, nella normativa introdotta, di talune disposizioni non auto-applicative, che richiedono per tale motivo norme di attuazione, non fa venir meno l’urgenza di avviare ex lege il processo di trasformazione delle banche popolari di maggiori dimensioni o di stabilire la regola generale sulla possibilità di prevedere limiti al rimborso delle azioni in caso di recesso del socio, con disposizioni destinate quindi a operare immediatamente.
La Corte ha quindi osservato come le regole prudenziali europee non lasciano al legislatore nazionale alcuna facoltà di scelta tra le due (presunte) “opzioni” della limitazione quantitativa del rimborso e del suo rinvio, ma impongono di attribuire all’ente creditizio la «capacità» di adottare sia l’una che l’altra misura come condizione perché le azioni possano essere considerate strumenti del capitale primario di classe 1 (c.d. CET1). Per contro, l’unica “opzione” rimessa dalla normativa europea al legislatore nazionale riguarda la scelta, da operare nell’ambito dell’alternativa prevista dall’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013 (c.d. Regolamento Crr), tra il rifiuto del rimborso delle azioni e la limitazione al rimborso stesso; rispetto a tale opzione, la norma censurata si conforma in effetti, secondo la Corte, al criterio del minimo mezzo – non prevedendo la possibilità del rifiuto e invece – introducendo lo strumento della limitazione del rimborso sulla base della situazione prudenziale della banca.
L’art. 28, comma 2-ter, del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, introdotto dall’art. 1 d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, impone la limitazione del diritto al rimborso delle azioni per assicurare il rispetto dei requisiti prudenziali applicabili alle banche popolari: letta sistematicamente e nella sua interezza, la disposizione prevede sì che il rimborso possa essere limitato dalla banca (alla quale le disposizioni nazionali devono garantire tale facoltà, con l’ampiezza descritta), ma solo se, nella misura e nello stretto tempo in cui ciò sia necessario per soddisfare le esigenze prudenziali; essa impone così agli amministratori il dovere di verificare periodicamente la situazione prudenziale della banca e la permanenza delle condizioni che hanno imposto l’adozione delle misure limitative del rimborso e di provvedere ove esse siano venute meno.
Tale disposizione, peraltro, non attribuisce alla Banca d’Italia la facoltà di adottare una disciplina “sostitutiva” di quella già dettata dalla legge e neppure riconduce all’entrata in vigore della fonte secondaria la contemporanea cessazione di efficacia di disposizioni legislative delegificate; infatti, è piuttosto la legge stessa che comporta l’introduzione di previsioni statutarie che, anche in deroga alle norme del codice civile, accordano agli organi amministrativi la facoltà di limitare il rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale computabili nel capitale primario di classe 1; mentre alla Banca d’Italia è affidato soltanto il compito di definire le condizioni tecniche che consentono alla banca di rispettare i coefficienti patrimoniali minimi stabiliti dalla normativa prudenziale europea. Coerentemente, non sussiste alcuna violazione del principio di legalità sostanziale: nella definizione della disciplina del rimborso delle azioni dei soci recedenti, infatti, alla Banca d’Italia non spetta alcuna valutazione politico-discrezionale sugli interessi in gioco, il cui bilanciamento – in particolare quello fra l’interesse dei soci che intendono recedere e quello della stabilità del sistema bancario – è già definitivamente operato dalla legge.
Infine, lo stesso potere della Banca d’Italia di definire le modalità tecniche di limitazione del rimborso è fortemente circoscritto dalla disciplina sovranazionale, che detta condizioni stringenti per la computabilità degli strumenti di capitale delle banche nel CET1.