Dall’adozione del Codice dell’ambiente, nel 2006, fino a oggi, il numero di processi penali in materia ambientale è più che raddoppiato. Parallelamente, alla tradizionale regolazione amministrativa si è affiancata la previsione di specifici reati in materia ambientale. Il controllo del giudice penale sull’attività amministrativa diretta alla tutela dell’ambiente si è fatto più esteso e penetrante, e la tutela penale da accessoria a quella amministrativa è divenuta progressivamente più autonoma.
Il rapporto tra potere amministrativo e azione penale, declinato nel senso che al primo compete il bilanciamento degli interessi, e alla seconda il compito di sanzionare le violazioni delle prescrizioni amministrative, è così messo in discussione: complici l’emersione della tutela ambientale come problema e valore globale, ma anche politiche carenti, una legislazione di emergenza e disfunzioni amministrative, giudici penali e procure si sono resi interpreti autonomi del valore della tutela ambientale, e guardiani creativi della stessa, finendo per sovrapporsi e sostituirsi all’amministrazione.
Che mutamenti ha prodotto l’esercizio dell’azione penale sul potere amministrativo? Come è stato ridisegnato il perimetro di discrezionalità amministrava? La tutela dell’ambiente ne esce davvero rafforzata o, al contrario, indebolita e compromessa? Un intreccio, quello tra potere amministrativo e azione penale, spiegato a partire da alcuni casi emblematici – Ilva, Tirreno Power, Porto Tolle – che mostrano esiti diversi ma anche analogie ricorrenti; gli uni e le altre utili ad immaginare nuove soluzioni per un coordinamento più efficace delle tutele.