Ettore Conti (1871-1972) fu uno dei pionieri dell’industria elettrica italiana ma anche il protagonista di primo piano di numerose altre esperienze sia di governo (nel 1918-19 la guida dell’Alto commissariato per la smobilitazione bellica), sia d’altro genere, nell’economia e nella finanza tra le due guerre mondiali.
Inevitabilmente ebbe molto a che fare col fascismo. Nel dicembre 1930 fu tra l’altro nominato presidente della Banca Commerciale, ciò che gli avrebbe poi permesso di partecipare direttamente agli eventi della crisi bancaria e della sua soluzione sotto l’egida dell’Iri (1933). Da ciò la riflessione intima sul rapporto con la politica annotata nel suo diario personale il 10 dicembre 1930: il Conti liberale, fedele alle sue radici, si domanda sino a quanto egli possa e debba spingersi nella adesione al regime fascista.
La nuova responsabilità che mi assumo, e della quale avrei fatto volentieri a meno, visto che mi reca subito dei danni con scarse probabilità di successo, mi metterà nella necessità di più frequenti rapporti con Mussolini.
È cosa notoria che non condivido molte delle finalità e dei metodi fascisti, e che sono riuscito finora a non tesserarmi: dovrei per questo rinunciare ad ogni attività, anche quando la ritengo utile per il Paese? Dovrei, cioè, per l’orgoglio di ostentare una assoluta indipendenza, vietarmi ogni forma, diretta o indiretta, di collaborazione? Se si trattasse di funzioni politiche, l’assenteismo sarebbe un dovere: ma nella produzione come nell’economia il Paese deve essere aiutato. Credo che in questa o in simili occasioni basterà che non cerchi vantaggi personali, mi tenga lontano dall’incensare la dittatura; e ciò ho sempre fatto. Purtroppo mi accade di constatare fra persone che potrebbero permettersi maggiore indipendenza l’abitudine all’adulazione la quale non ha spesso, per loro, neanche la scusante della necessità.
Dunque? “Non deforme obsequium, non abrupta contumacia”.
Ettore Conti, Dal taccuino di un borghese, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 299.