Sono ormai trascorsi otto mesi da quando lo tsunami della pandemia da Covid-19 ha investito il mondo, volendo fissare convenzionalmente la sua data di esordio al 17 novembre del 2019, giorno in cui si registrò a Wuhan il primo caso accertato; un po’ meno da quando noi italiani abbiamo drammaticamente preso coscienza che il coronavirus, con il suo carico di dolore e di morte, aveva raggiunto le nostre città e i nostri borghi, le nostre strade, le nostre vite.
L’illusione che il nemico invisibile potesse restare confinato nella (per noi) remota provincia cinese dello Hubei è durata lo spazio di poche settimane, così come l’ingenuo convincimento che il contagio non avrebbe mai potuto alterare le nostre piccole e grandi routine, individuali, familiari e collettive, come se l’appartenenza ad una comunità opulenta e socialmente avanzata, come quella in cui viviamo, potesse conferirci quella che tutti ora sappiamo chiamarsi immunità di gregge.
Travolto ogni confine, dissolta ogni illusione, la minaccia del contagio ha bussato alle porte delle nostre case trovandoci impreparati e impotenti, ma ancora sufficientemente lucidi per fare appello, almeno nell’immediato, al più innato e prezioso tra gli istinti: quello di sopravvivenza.
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