Lo scorso 21 ottobre 2020 è stato pubblicato il nuovo report sulla libertà in rete redatto dall’organizzazione Freedom House, in cui si evidenzia come la pandemia abbia dato una forte accelerazione a spinte limitative della libertà in rete. Si osservano, infatti, progressivi peggioramenti nei punteggi ottenuti da numerosi paesi, non solo autoritari ma anche democratici. Il declino maggiore è da attribuire al Myanmar, al Kyrgyzstan e all’India; di contro, i maggiori miglioramenti sono stati ottenuti da Sudan, Ucraina e Zimbabwe.
L’organizzazione Freedom House – impegnata internazionalmente in attività di ricerca e sensibilizzazione su democrazia, libertà politiche e diritti umani – elabora e pubblica annualmente il Freedom on the net report, uno studio sulla libertà di Internet in 65 paesi in tutto il mondo. Il report in esame, il decimo della sua serie, copre il periodo intercorrente tra il giugno 2019 e il maggio 2020. Lo studio viene elaborato con il coinvolgimento di settanta esperti, sulla base di ventuno indici, sinteticamente riconducibili a tre macro-aree: a) ostacolo all’accesso della rete; b) limiti sui contenuti; c) violazione dei diritti degli utenti.
Con riferimento all’anno in corso, inevitabilmente la pandemia ha avuto un forte impatto sui comportamenti seguiti dagli attori statali. La classifica, però, evidenzia come la libertà globale di internet sia diminuita per il decimo anno consecutivo, con peggioramenti per ventisei paesi, con i peggiori risultati ottenuti dal Myanmar e Kirghizistan, seguiti da India, Ecuador e Nigeria. Di contro, è possibile evidenziare anche una crescita per ventidue paesi, tra i cui migliori si evidenziano il Sudan, l’Ucraina ma anche lo Zimbabwe.
Con riferimento alla classifica complessiva, è possibile osservare come gli Stati Uniti – nonostante il peggioramento annuale – si posizionino ancora al settimo posto; Islanda e Cina, invece, si riconfermano rispettivamente il paese più virtuoso e quello in cui sono riscontrabili le peggiori condizioni per la libertà di internet.
In Cina, che è ultima per il sesto anno consecutivo, sono stato segnalati nuovi controlli dei contenuti online e numerosi arresti di utenti durante il periodo di copertura, anche in relazione al movimento di protesta di Hong Kong emerso a metà del 2019. Con lo scoppio della pandemia, gli sforzi del regime si sono concentrati sul controllo totale di internet, anche attraverso forme di censura automatizzata, sorveglianza high-tech e arresti su larga scala. Tali attività invasive sono state attivate non solo (e non tanto) per frenare il virus, quanto per impedire la diffusione di informazioni non ufficiali e critiche nei confronti del governo. Funzionari statali e media, sostenuti da bot e troll, hanno promosso la disinformazione a livello nazionale e in campagne mirate in tutto il mondo (anche in Italia, per la quale si rinvia sotto).
L’Islanda, di contro, è rimasta il principale baluardo della libertà in internet, con alti tassi di accesso, poche restrizioni sui contenuti e forti garanzie per i diritti umani online. Posizioni rafforzate anche con l’approvazione di una legge sulla protezione degli informatori.
Tra le principali novità del 2020 in tema di limitazione della rete, invece, il Freedom on the Net ha osservato interruzioni intenzionali della connettività in ventidue paesi su sessantacinque. Molte di queste interruzioni, tra cui il blackout nazionale iraniano nel novembre 2019 e le chiusure a Mosca nell’agosto e settembre 2019, sono state direttamente innescate da alcune proteste contro il regime al governo, con evidenti influenze anche in tema di diritti di opinione e manifestazione del pensiero della popolazione.
Tra le principali novità del 2020 emergono quelle relative all’emergenza sanitaria. Questa ha imposto lo sviluppo della connettività, con la conseguenza che alcuni attori internazionali si sono rivelati in grado di sfruttare l’evento per plasmare le narrazioni online, censurare il dissenso politico e costruire nuovi sistemi tecnologici di controllo sociale.
Tre sono le tendenze emerse dal rapporto nel corso di questo 2020 in tema di libertà di Internet. In primo luogo, alcuni governi hanno utilizzato la pandemia come pretesto per limitare l’accesso alle informazioni. Le autorità spesso hanno bloccato siti di notizie indipendenti e arrestato individui con false accuse di disinformazione. Contemporaneamente, in diversi casi sono stati direttamente soggetti pubblici a diffondere fake news con l’obiettivo di soffocare il dissenso, distrarre il pubblico da risposte politiche inefficaci ed indicare gruppi minoritari quali responsabili della pandemia. In alcune occasioni, invece, si sono osservare delle disattivazioni della connettività per alcune minoranze, con la conseguenza di incrementare il digital gap già esistente.
Secondo il report, invece, la seconda tendenza si rinviene nell’utilizzo del Covid-19 come giustificazione all’ampliamento di poteri di sorveglianza, nonché l’utilizzo di tecnologie particolarmente intrusive. La crisi della sanità pubblica ha creato un’apertura per la digitalizzazione, la raccolta e l’analisi di dati personale degli individui senza adeguate protezioni contro gli abusi.
La terza tendenza viene individuata nello sviluppo della cd. “sovranità informatica“, con il tentativo di ogni governo di imporre proprie normative in grado di limitare il flusso di informazioni attraverso i confini nazionali.
Appare chiaro, fin da tali osservazioni generali, come l’emergenza sanitaria abbia messo in crisi anche gli assetti tra autorità statali e tecnologie. Questo, però, rende necessario fin da ora distinguere come le tendenze sopraesposte debbano ricevere un giudizio differenziato a seconda che si tratti di metodi di incremento di un potere autoritario, a svantaggio delle minoranze politiche (o anche etniche), o di forme di tutela della popolazione, di rafforzamento della democrazia e della sicurezza dei diritti.
Venendo ora al nostro paese, si evidenzia come l’Italia ottiene un punteggio di settantasei punti– con un miglioramento netto di un’unità.
Nel report vengono evidenziate delle criticità con riguardo all’acceso alle infrastrutture tecnologiche e in relazione ad attacchi informatici sia a soggetti pubblici, che privati – seppur in diminuzione rispetto al periodo elettorale del 2018. Principale preoccupazione desta la disinformazione attraverso il web, soprattutto rispetto all’immigrazione e, novità dell’anno corrente, alla pandemia da Covid-19. Viene osservata sia un’importante manipolazione delle informazioni online con diffusione di varie teorie del complotto, sia l’intervento di alcuni bot originati della Cina e volti a diffondere sui social propaganda pro-Pechino in italiano.
Il report, pur configurandosi come un valido strumento di analisi dello “stato della rete” nel mondo, evidenzia alcune rilevanti problematiche.
Il documento – non differenziando tra Stati democratici, rispettosi dello stato di legalità e dei diritti umani, e Stati autoritari – analizza il livello di libertà “pura” della rete, proprio in termini di assenza di controllo o limitazioni. Contemporaneamente, però, evidenzia dei pericoli circa la disinformazione (sia di origine autonoma, che derivante da operatori di stati esteri) e la diffusione di fake news e teorie del complotto.
In altri termini, da un lato si promuove una totale assenza di soggetti verificatori nella rete, con conseguenti limiti alle capacità di intervento statali e, dall’altro, si richiede la prevenzione di fenomeni che effettivamente possono mettere in rischio la tenuta sociale o istituzionale di un paese. Proprio con riferimento all’Italia, in relazione alla pandemia da Covid-19, il perseguimento di una piena e totale libertà della rete e delle infrastrutture tecnologiche ha portato l’organizzazione Freedom House a criticare l’utilizzo di strumenti di tracciamento digitale (tra tutti, l’app Immuni). Anche attività di controllo dei servizi di sicurezza, delle forze dell’ordine o dell’autorità giudiziaria volte alla prevenzione della criminalità o al contrasto di fenomeni eversivi o terroristici sono state poste sotto la lente d’ingrandimento del report. Questo, come nel caso italiano, anche laddove siano sottoposte a stringenti limiti e ritenute costituzionalmente legittime anche da un indipendente potere giudiziario (punto C5 e C6 del report italiano). Il pericolo di una tale visione è che porti a percepire attività legittime (da differenziare rispetto a forme abnormi e ingiustificate) come dannose per la democrazia, quando di contro rientrano tra i principali strumenti di tutela della sicurezza dei diritti.
Ferma restando la validità dello studio come analisi approfondita dello “stato dell’arte” dell’apertura della rete nel mondo, forse sarebbe necessaria una maggior differenziazione tra attività statali intrusive e volte alla manipolazione autoritaria, e attività preposte alla tutela di valori costituzionali rilevanti e diritti umani– quale appunto la salute nel caso pandemico, o la sicurezza dei diritti nel caso del contrasto al terrorismo o alla criminalità.