Quale impatto avrà l’automazione delle strategie di pressione sul mercato professionale del public affairs? Ne discute un articolo apparso sulla rivista Etica Pubblica e dedicato allo studio del binomio tecnologia e attività di pressione. L’autore mette in evidenza tre aspetti: il primo riguarda l’esercizio della professione di rappresentante di interessi. Il secondo è invece un problema di regolazione. Il terzo – sul quale si sofferma l’articolo – riguarda la misurabilità dei risultati ottenuti impiegando nuove tecnologie a servizio delle strategie di pressione.
Un articolo apparso sul primo numero della rivista Etica Pubblica analizza il ruolo delle piattaforme digitali di mobilitazione nell’interazione tra decisori pubblici e portatori di interesse. L’articolo descrive tre problemi principali, comuni a tutte le piattaforme. La prima riguarda il futuro della professione del rappresentante di interessi. Quale impatto avrà l’automazione delle strategie di pressione sul mercato professionale del public affairs? Algoritmi sempre più sofisticati ridurranno – o renderanno superfluo – il ruolo dei professionisti della rappresentanza? Oppure il pensiero strategico e la capacità di negoziazione frutto dell’esperienza maturata sul campo dai professionisti del settore resteranno qualità non replicabili da una macchina?
C’è, poi, un problema di regolazione. Con scenari che cambiano repentinamente, quale ruolo spetta ai decisori pubblici? La ricostruzione classica che affida allo Stato il ruolo di autore e garante delle regole del gioco, e cede al mercato la funzione di selezione degli operatori, fatica a trovare applicazione. Non sempre lo Stato è in grado di produrre regole chiare e coerenti – ammesso sia questo un obiettivo realistico e percorribile. La chiarezza e coerenza delle regole della rappresentanza, infatti, sono costrette a misurarsi con un sistema complesso, con interazioni multi-livello (locale, nazionale e sopranazionale) e una platea di interessi vasta ed eterogenea. La scelta del livello di pervasività dell’intervento pubblico, poi, è frutto di posizioni ideologiche che, secondo il caso, consegnano al mercato margini di azione più o meno generosi nella definizione degli standard di riferimento dell’esercizio delle attività di pressione. La tecnologia posta al servizio del public affairs rende lo scenario appena descritto ancora più complicato. L’innovazione tecnologica, infatti, genera problemi inediti, creando così nuove opportunità per l’intervento dei decisori pubblici. I regolatori nazionali e sopranazionali sono chiamati, ad esempio, a tutelare la riservatezza nell’uso dei dati, a presidiare principi etici nell’applicazione dell’intelligenza artificiale, oppure a garantire la trasparenza delle interazioni online tra decisori pubblici e interessi privati.
La terza domanda è la più delicata. Il tema è quello della misurabilità dei risultati ottenuti impiegando nuove tecnologie a servizio delle strategie di pressione. Chi o cosa garantisce ai portatori di interessi che, avvalendosi della tecnologia, genereranno un impatto maggiore, o migliore, sui sistemi decisionali entro cui operano? Non esiste un sistema certificato per la misurazione dell’influenza, e quindi non esiste nemmeno una formula per quantificare l’impatto prodotto dalle strategie di influenza sviluppate attraverso piattaforme digitali e algoritmi. È un problema, peraltro, che non si pone necessariamente per i grandi gruppi industriali, o più in generale per gli interessi organizzati. Questi possono contare su strutture articolate e un vasto bacino di risorse. Il dilemma nasce nel momento in cui affidiamo all’innovazione tecnologica la speranza di ridurre il divario sociale ed economico che, nelle democrazie contemporanee, separa i gruppi di pressione organizzati dai portatori di interessi diffusi. Da questo punto di vista, l’innovazione tecnologica ci consegna un quadro deludente se posto a confronto con quello celebrato dai promotori delle piattaforme digitali di mobilitazione e degli algoritmi predittivi.
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