The Social Dilemma, racconta della rapida diffusione dei social network e delle conseguenze che l’economia dell’attenzione produce sulla società contemporanea. Il lungometraggio unisce alla recitazione affidata ad attori professionisti le interviste di autori ed esperti del settore. La presa di posizione è netta: le grandi aziende tecnologiche monetizzano il tempo trascorso online dagli utenti. Questo modello di business sfugge a regole chiare e limiti definiti. I rischi sono evidenti: disinformazione, polarizzazione e depauperamento della qualità dei rapporti umani. Servono regole più stringenti, e trasparenti – e servono rapidamente.
Jeff Orlowski è un giovane regista statunitense, sconosciuto al grande pubblico, ma apprezzato da coloro che amano i documentari a sfondo sociale e politico. Newyorkese, classe 1984, ha studiato cinematografia a Stanford. Nel 2012 ha vinto il premio Excellence in Cinematography al Sundance Film Festival con Chasing Ice (disponibile anche in italiano) dedicato al tema del riscaldamento globale.
The Social Dilemma, prodotto e distribuito da Netflix, è l’opera matura di Orlowski. Il lungometraggio racconta delle conseguenze che l’economia dell’attenzione (su cui si basano i social network) produce sulla società contemporanea. La scelta narrativa è quella tipica dei prodotti del genere: alla narrazione tradizionale, affidata ad attori professionisti (a giudizio di chi scrive piuttosto scontata, o addirittura ingenua, nei tempi e nei contenuti) si alternano le interviste con autori ed esperti del settore. Tra questi ultimi alcuni sono personaggi noti al pubblico. Tristan Harris, ad esempio, già consulente etico di Google, divenuto poi co-fondatore del Center For Human Technology (progetto che meriterebbe un discorso a parte: a metà tra centro studi e iniziativa civica, promuove l’idea di tecnologie più umane, rispettose degli spazi e tempi individuali e collettivi). Oppure Jaron Lanier, eclettico e visionario programmatore, tra i precursori della realtà virtuale. Oppure, ancora, Justin Rosenstein, designer e tecnologo cui si attribuisce l’invenzione del tasto “mi piace” di Facebook. Rosenstein è co-fondatore di un progetto simile al Centre for Human Technology – One Project – dedicato allo sviluppo di tecnologie eque e sostenibili.
Il tema del documentario è affascinante, attuale e controverso. Orlowski però non lascia grande spazio all’interpretazione dello spettatore. La presa di posizione di The Social Dilemma è, anzi, netta. L’economia dell’attenzione sviluppata dalle grandi aziende tecnologiche monetizza il tempo trascorso online dagli utenti. La gratuità del servizio è un’illusione. I dati personali degli utenti divengono la moneta di scambio dei social network. Vale insomma il vecchio, ma sempre efficacie, adagio secondo cui: “se non lo paghi, il prodotto sei tu” (ne abbiamo scritto QUI).
Ora, la questione non è tanto quella del modello di business (che, in quanto tale, lascia gli utenti liberi di optare per alternative migliori) ma il fatto che questo modello sfugga a regole chiare e limiti definiti. Se le cause di questa assenza di regole sono evidenti – la proliferazione dei social network, e più in generale l’economia dell’attenzione, sono fenomeni relativamente nuovi, risalenti a non più di una decina di anni fa – le soluzioni proposte lo sono meno. Secondo i più critici (oggi in netta maggioranza) gli algoritmi che governano i motori di ricerca e i social media sono colpevoli di privare l’opinione pubblica della possibilità di seguire una dieta informativa neutrale e bilanciata. Questa circostanza – continuano costoro – causerebbe distorsioni pericolose per le democrazie, e andrebbe corretta rapidamente.
In sostanza, la priorità accordata alle informazioni (cd. ‘sorting’) in base al potenziale commerciale che esprimono (cd. ‘filtering’), anziché in ragione della loro oggettività e rispondenza alla ricerca dell’utente (cd. ‘personalization’), unitamente all’opacità dei criteri utilizzati nel compiere queste scelte, alimenterebbero la disinformazione ed esporrebbero l’opinione pubblica al rischio di polarizzazione. Celebre, al riguardo, l’edioriale di Eugeny Morozov pubblicato dal New York Times (ne abbiamo parlato QUI). Basta guardare i molti episodi di cronaca recente o recentissima per avere prova del danno che stanno subendo le democrazie. Tra i casi più noti ci sono il risultato del referendum del 23 giugno 2016 nel Regno Unito, attraverso il quale il 51,89% dei votanti si è espresso favorevolmente per l’uscita dall’Unione europea, e le tornate elettorali per le presidenziali statunitensi del 2016 e del 2020 (entrambe caratterizzate da forte polarizzazione e diffusa disinformazione tra l’elettorato).
La soluzione per molti (incluso The Social Dilemma) è porre limiti più stringenti. Questo però dà vita a una situazione paradossale. Si pretende infatti dal regolatore che stabilisca regole ‘giuste’ per disciplinare l’azione di piattaforme private, di cui si avvale, e che nel frattempo si sono appropriate di spazi pubblici. La contraddizione è emersa con prepotenza nel dibattito sul deplatforming che ha animato i primi mesi del 2021. In sostanza, si muove una critica feroce alle piattaforme private, che fino a un attimo prima erano state stigmatizzate per aver alimentato la disinformazione, per il fatto di essere intervenute limitando l’azione di titolari di cariche pubbliche che avevano infranto le regole di ingaggio delle piattaforme stesse.
Non credo che ricorderemo il documentario di Orlowski per la qualità della recitazione o per la complessità della trama. Non era questo, del resto, lo scopo del regista. Lo ricorderemo, forse, per avere contribuito a rendere popolare un dibattito di cui fino a oggi i protagonisti sono stati gli studiosi del tema e alcune voci politiche (queste ultime, peraltro, con spaventose approssimazioni). Non è un caso se il documentario si accompagna a una campagna di mobilitazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica. La call to action di cui il documentario è parte integrante invita gli spettatori a divenire parte attiva, e propositiva, nella domanda di regole a salvaguardia della propria dimensione personale e pubblica.
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