- La necessaria capacità amministrativa
L’attuale dibattito intorno al Piano nazionale di ripresa e resilienza ruota intorno a due assi principali: la scelta degli interventi e dei progetti da realizzare nel periodo 2022-2026 e l’individuazione delle condizioni per realizzare effettivamente e concretamente quegli interventi e quei progetti.
La prima operazione, pur complessa, è agevolata sia dalle priorità strategiche e dalla ripartizione percentuale delle risorse già definite in sede europea[1], sia dalle istruzioni che la Commissione ha inviato a tutti gli Stati membri[2]. La prima bozza di PNRR predisposta dal governo Conte è già stata oggetto di una significativa revisione da parte del Governo Draghi e ulteriori revisioni e integrazioni sono state preannunciate ai fini della predisposizione di un testo completo entro il termine di fine aprile.
La seconda operazione comporta l’individuazione di un assetto di governo – seguendo l’esempio del presidente Draghi proviamo a rinunciare agli anglicismi e abbandoniamo il termine “governance” – così come di strumenti di decisione, di attuazione, di controllo e monitoraggio, di rendicontazione dei quali il sistema amministrativo italiano non dispone, per ormai unanime e condivisa opinione[3].
La questione è resa ancora più complicata dal fatto che – di nuovo per diffusa convinzione – non si tratta soltanto di costruire nuovi strumenti, nuovi processi e nuove regole, ma soprattutto di compiere una poderosa opera di disboscamento e di taglio dei tanti ostacoli e dei numerosi nodi che paralizzano la capacità amministrativa, come è purtroppo ampiamente dimostrato dalla lentezza dei processi decisionali, dal basso tasso di spesa ed erogazione delle risorse già disponibili (il caso dei fondi di coesione ne costituisce un’amara conferma annuale), dalla diffusione della burocrazia difensiva, dalla inanità degli investimenti pubblici, specie per quanto riguarda le infrastrutture materiali e immateriali.
Dal dibattito in corso emerge, infine, una terza diffusa convinzione e cioè che non si debba o possa procedere per grandi e generali riforme amministrative, sia perché i cicli di riforma succedutisi dagli anni Novanta ad oggi hanno almeno in parte tradito le aspettative, sia perché il tempo non lo consente: il lasso temporale entro il quale va definito e reso operativo l’assetto di governo e l’insieme di strumenti necessari per realizzare il PRRN è breve e richiede misure di immediata o perlomeno rapida efficacia. Lo strumento ordinariamente utilizzato per le riforme amministrative è la legge delega, che comporta tempi lunghi per l’approvazione in Parlamento dei criteri direttivi, tempi ancor più lunghi per la predisposizione e l’approvazione dei decreti delegati con reiterati passaggi parlamentari per i pareri e, quasi sempre, una gran mole di decreti e regolamenti attuativi, a loro volta sottoposti ad articolate procedure di attuazione.
Buona parte di queste misure dovrebbe essere disegnata e progettata, quindi, non in termini generalissimi, ma con specifico riferimento agli interventi previsti nel PNRR, una volta che saranno definiti, perché i nodi che rendono difficile la realizzazione celere delle opere pubbliche sono diversi da quelle che hanno sinora impedito l’interoperabilità delle banche dati delle pubbliche amministrazioni e le regole per modernizzare il sistema di istruzione sono necessariamente diverse da quelle necessarie per rafforzare il sistema sanitario, per fare solo qualche esempio.
Resta comunque la necessità di incidere su alcune condizioni di contesto che già oggi limitano la capacità del sistema amministrativo di agire e decidere rapidamente ed efficacemente e che a maggior ragione sarebbero di ostacolo ad una piena e celere attuazione del PNRR.
Nelle pagine che seguono si indicano alcune possibili misure per modificare quelle condizioni di contesto, distinte fra misure di carattere generale, che possono valere per l’insieme del sistema amministrativo (così per la stabilità delle decisioni amministrative, i controlli preventivi e la responsabilità amministrativa) e misure di carattere settoriale, riferite a specifici ambiti o materie (così per la digitalizzazione dell’amministrazione e i contratti pubblici). La prima categoria di misure ha prevalentemente carattere normativo ed è volta a togliere, piuttosto che ad aggiungere: eliminare ostacoli, complicazioni, sovrapposizioni, vincoli che legano la capacità amministrativa. La seconda categoria di misure ha, invece, prevalentemente carattere operativo ed è volta a introdurre meccanismi, strutturali e funzionali, che consentano di accelerare i processi decisionali, ridurre i tempi di realizzazione, controllare i risultati.
- La stabilità delle decisioni: un’amministrazione che non ci ripensa
Come in tutti i sistemi a diritto amministrativo, l’amministrazione italiana dispone dello speciale potere di autotutela, grazie al quale può annullare provvedimenti già adottati. La specialità di questo potere, e l’evidente possibilità che il suo esercizio comporti abusi e arbitrii – per fare solo un esempio: cambia il colore politico dell’amministrazione comunale e licenze e permessi o concessioni vengono annullati o revocati con motivazioni formalmente basate sulla legittimità e sull’interesse pubblico, ma in realtà dirette a cancellare l’operato della precedente maggioranza – hanno indotto la giurisprudenza prima, e il legislatore più recentemente, a stabilire limiti e condizioni che l’amministrazione deve rispettare per cancellare unilateralmente scelte già fatte.
Ancora oggi, però, l’amministrazione non incontra limiti temporali per la revoca e deve rispettare un termine massimo di diciotto mesi per l’annullamento. Diciotto mesi sono un tempo relativamente breve rispetto alla tradizione amministrativa che conosce casi di annullamento dopo decenni, ma sono un tempo decisamente troppo lungo per le esigenze di una società e di una economia moderna. Si crea così una situazione di incertezza e di instabilità che incide in via generale su tutti i rapporti amministrativi e che disincentiva le attività di impresa e gli investimenti.
L’eliminazione di questa incertezza è facilmente realizzabile prevedendo un termine assai più breve, come avviene ad esempio in Francia, dove il Code des relations entre le public e l’administration consente di annullare o abrogare un provvedimento – su iniziativa della stessa amministrazione o su richiesta di un terzo – solo entro quattro mesi dalla sua adozione, a meno che il provvedimento stesso non sia stato ottenuto con la frode.
La riduzione del lasso temporale entro il quale si può esercitare l’autotutela non inciderebbe, naturalmente, sui casi in cui il provvedimento sia subordinato ad una condizione o ad un adempimento che non si siano realizzati, di modo che l’amministrazione sia sempre in grado di tutelare l’interesse pubblico, ma allo stesso tempo il rapporto amministrativo si stabilizzi in un tempo davvero ragionevole, di pochi mesi e non di un anno e mezzo, come è ora.
- Il necessario disboscamento dei controlli preventivi
I controlli preventivi sono una passione tutta italiana, basata sull’idea che la verifica ex ante della legittimità di un atto sia più rilevante della verifica ex post dei suoi effetti e risultati. La passione accomuna i controllori, che dispongono così di un ampio droit de régard su vaste aree dell’azione amministrativa, e i controllati, che sperano (ma spesso illusoriamente) di utilizzare il visto di legittimità come uno scudo contro possibili contestazioni.
Questo attaccamento al controllo di legittimità ex ante è ulteriormente agevolato dal fatto che questo tipo di controllo è molto più facile da svolgere del controllo ex post sui risultati, se non altro perché il primo può essere affidato anche soltanto a giuristi, mentre il secondo richiede necessariamente anche altre e diverse competenze tecniche. Il primo tipo di controllo, assai diffuso in Italia è, però, molto meno utile del secondo, purtroppo praticamente assente nell’esperienza amministrativa, anche perché richiede un approccio radicalmente diverso, volto non alla mera comparazione fra il parametro di legittimità e l’atto, ma piuttosto alla verifica concreta e fattuale dei risultati raggiunti. Questa discrasia fra diffusione e utilità deve essere necessariamente superata se si vogliono rispettare gli obblighi di rendicontazione previsti per il PRRN, ai quali è direttamente connessa, peraltro, l’erogazione progressiva dei fondi in ragione degli obiettivi intermedi via via raggiunti.
La necessità di controlli preventivi viene spesso invocata anche da chi ritiene che tutta l’attività amministrativa in Italia sia esposta a gravi rischi corruttivi, in misura maggiore rispetto ad altri paesi. Non è qui la sede per discutere la presunta maggiore propensione italica alla corruzione rispetto ad altri paesi – della quale per la verità non sembrano esserci prove oggettive e attendibili – ma si può ricordare che il massimo di estensione dei controlli preventivi, svolti a livello centrale come a livello regionale e locale, è coinciso con il periodo di maggiore esposizione di veri o presunti episodi di corruzione – il periodo della c.d. Tangentopoli – senza che peraltro uno solo di quegli atti di controllo preventivo sia stato funzionale alla scoperta degli episodi di corruzione, tutti individuati e perseguiti dalle procure penali.
Il perimetro dei controlli preventivi è stato prima ridotto (all’inizio degli anni Novanta) e poi via via nuovamente ampliato e va oggi molto al di là della previsione costituzionale secondo cui “La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato” (art. 100.2). La sottoposizione di un atto al controllo preventivo di legittimità comporta nel migliore dei casi una dilazione di trenta giorni prima che l’atto divenga efficace, ma quasi sempre un periodo parecchio più lungo in ragione delle richieste di chiarimenti e integrazioni da parte dell’ufficio del controllo e della eventuale rimessione dell’atto alla sezione del controllo. Per molti tipi di atti e contratti più che di un controllo di legittimità finisce per trattarsi dell’esercizio di un potere di cogestione, che il controllore esercita senza però portarne alcuna responsabilità. La sottoposizione degli atti al controllo preventivo di legittimità non comporta neanche, del resto, il vantaggio di porre i soggetti che adottano l’atto al riparo dalla responsabilità amministrativa, perché l’apposizione del visto di legittimità consente al massimo di escludere la gravità della colpa e solo, come recita la norma, “limitatamente ai profili presi in considerazione nell’esercizio del controllo” (v. infra par. 4).
L’ambito del controllo preventivo di legittimità dovrebbe essere dunque ridefinito in armonia con l’art. 100 della Costituzione e limitato ai provvedimenti adottati su deliberazione del Consiglio dei Ministri, escludendo invece gli innumerevoli atti di indirizzo e programmazione e atti di gestione oggi previsti dalla legge. Fra i provvedimenti adottati su deliberazione del Consiglio dei Ministri potrebbe operarsi una ulteriore selezione, individuando le categorie di atti per i quali il controllo preventivo di legittimità in ogni caso non appare utile: per fare un solo esempio, si pensi all’approvazione dei regolamenti di organizzazione dei Ministeri. Ancora, si potrebbe ampliare l’esclusione, richiesta ai tempi da Carlo Azeglio Ciampi, prevista all’art. 3, comma 13, della legge n. 20/1994 per gli atti e i provvedimenti “emanati nelle materie monetaria, creditizia, mobiliare e valutaria”, inserendo appunto alcune materie o funzioni particolarmente rilevanti per l’attuazione del PNRR.
Ridurre il peso dei controlli preventivi non significa affatto lasciare campo libero ad abusi e aggiramenti delle regole. Al contrario, se qualcuno commette abusi andrà punito con i tanti strumenti di repressione che l’ordinamento mette a disposizione: multe, sanzioni amministrative, esclusioni, misure interdittive, sanzioni penali, a seconda della gravità e della natura della condotta illecita. Il sistema di repressione va a sua volta reso più efficiente, ma ai suoi eventuali limiti – soprattutto per la limitata capacità di verifica e la lentezza dei processi – non si può certo porre rimedio sovraccaricando gli strumenti di prevenzione, che peraltro finiscono spesso per ostacolare più i soggetti rispettosi delle regole che non quelli abituati e propensi ad aggirarle.
- Il regime della responsabilità amministrativa
Che l’attuale regime delle responsabilità connesse all’attività amministrativa sia, allo stesso tempo, troppo gravoso e inefficiente, è considerazione forse non unanime, ma ormai diffusa, in particolare per quanto riguarda i casi in cui occorre agire tempestivamente per far fronte ad emergenze. Così si spiega, ad esempio, la previsione adottata lo scorso anno con il d.l. n. 76/2020[4] che alleggerisce il regime della responsabilità amministrativa per molte attività volte a far fronte alla pandemia, prevedendo che si debba rispondere solo per dolo e non per colpa grave in caso di azione, mentre per l’inerzia amministrativa si possono far valere ambedue i profili soggettivi. Quell’alleggerimento è, però, limitato nel tempo e nello spazio, mentre andrebbe valutata la possibilità di estenderne l’applicazione alle attività svolte in attuazione del PRRN, o almeno alle più rilevanti fra esse, vista anche l’estensione, prevista sempre nello stesso decreto legge, del controllo concomitante della Corte dei conti “sui principali piani, programmi e progetti relativi agli interventi di sostegno e di rilancio dell’economia nazionale” (art. 22)[5].
In alternativa e soprattutto nel caso in cui non si sia ridotto il perimetro del controllo preventivo di legittimità, si potrebbe valutare di qualificare il visto e la registrazione in sede di controllo preventivo come titolo di esonero di responsabilità. Previsione analoga potrebbe introdursi per i casi in cui la Corte dei conti si sia espressa positivamente in sede di controllo sulle relazioni con le quali periodicamente l’amministrazione illustra e sottopone a controllo successivo la propria attività in specifiche materie, anche in base a obblighi previsti da specifiche norme, come del resto potrebbe accadere anche per alcune o la maggior parte delle attività di attuazione del PNRR.
- Un’amministrazione digitale
La digitalizzazione dell’amministrazione è spesso invocata come la soluzione ai problemi dell’arretratezza amministrativa ed è inserita fra le sei missioni in cui si devono articolare gli interventi del PNRR. La rilevanza del tema è ulteriormente dimostrata dalla nomina, nel governo Draghi, di un Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale.
Per quanto riguarda l’amministrazione pubblica, però, più che di “transizione” sarebbe bene parlare di trasformazione. La mera transizione delle attuali procedure in formato digitale sarebbe, appunto, solo un cambiamento di forma, che aggiungerebbe ben poco di termini di efficienza e di efficacia. L’ottimismo sulla capacità taumaturgica della digitalizzazione anche fuori dall’Italia si è dimostrato, alla luce dei primi studi empirici[6], largamente ingiustificato, perché la trasformazione digitale richiede una profonda riorganizzazione delle strutture e una altrettanto radicale reingegnerizzazione delle procedure.
Questo processo di trasformazione potrebbe essere utilmente avviato proprio iniziando dai progetti previsti nel PNRR, per evitare un rischio e cogliere un’opportunità.
Quanto al rischio, si ridurrebbero le resistenze al cambiamento da parte delle amministrazioni che hanno sinora fatto un uso molto parsimonioso della innovazione digitale e assai raramente l’hanno utilizzata per modificare i loro assetti interni e le loro procedure. Persino nei casi in cui informazioni e servizi sono resi in modalità digitale, le modalità di accesso, di autenticazione e di interazione sono complicate e farraginose e gli esiti incerti, proprio perché riflettono il disegno e la logica del procedimento amministrativo pre-digitale e non sono in grado quindi di assicurare la velocità e la semplicità d’uso garantite dalle maggiori piattaforme tecnologiche e dalle più recenti applicazioni presenti sul mercato delle quali tutti ci serviamo ogni giorno.
L’applicazione e la sperimentazione di modalità organizzative e procedimentali innovative modellata su specifici progetti inseriti nel PNRR consentirebbero di concentrare gli sforzi – e le competenze tecniche necessarie – su alcuni ambiti, senza dispersioni su un sistema amministrativo molto ampio e molto frammentato al tempo stesso, come è quello italiano. Si potrebbero concentrare gli sforzi nel primo periodo di attuazione, per poi diffondere i risultati migliori via via a tutto l’universo amministrativo, individuando obiettivi intermedi invece di indicare solo la data finale dell’attuazione al 2026, come si legge nell’ultimo testo di PNRR pubblicato.
Quanto all’opportunità, si potrebbe costruire ex novo una piattaforma dedicata al PNRR, acquisendo le tecnologie e le competenze necessarie dopo un’attenta analisi dei fabbisogni e sperimentando strumenti e modalità innovative di raccolta e circolazione delle informazioni e dei dati, di definizione dei processi decisionali, di condivisione dei sistemi di analisi, progettazione, monitoraggio e rendicontazione fra tutte le amministrazioni coinvolte nell’attuazione del PNRR. Si eviterebbe, così, di fare l’operazione contraria, e cioè di calare e costringere i progetti del PNRR in strutture e procedure già esistenti e non funzionali.
- I contratti pubblici
Gli interventi inseriti nel PNRR dovranno realizzarsi, per larghissima parte, mediante procedure di evidenza pubblica e con la collaborazione fra pubblico e privato. Queste procedure e questa collaborazione sono oggi rese difficoltose da una disciplina molto complessa, concentrata soprattutto trova nel Codice dei contratti del 2016, già modificato da allora innumerevoli volte, ma in assenza di una vera opera di semplificazione, che deve necessariamente incidere sullo spesso strato di gold plating che il legislatore italiano ha aggiunto alle direttive europee oggetto di recepimento in quel Codice.
Eliminare tutte le misure che possono essere qualificate come gold plating restituirebbe al sistema una maggiore flessibilità e taglierebbe in radice molte ragioni di contenzioso (basti pensare alle norme italiane sul subappalto, decisamente censurate dalla Corte di giustizia e ancora non completamente eliminate. Occorrerebbe, inoltre, ridurre l’ambito di applicazione del Codice, che di nuovo il legislatore italiano ha esteso ben al di là delle previsioni delle direttive, utilizzando i principi generali enunciati nell’art. 4 del Codice per attrarre nella disciplina dell’evidenza pubblica anche quei settori o contratti che per espressa previsione delle direttive dovrebbero essere “esclusi” o “estranei”, con la conseguenza che si è preteso di applicare le regole dell’evidenza pubblica persino a quei settori che lo stesso Codice espressamente esenta, come accade, ad esempio, per l’art. 15 in materia di reti di telecomunicazioni
Sempre per riavvicinare l’ordinamento italiano a quello europeo si dovrebbe profondamente ripensare, inoltre, il ruolo dell’Anac: lo stesso nome dell’autorità evidenzia che non si tratta di un’autorità dotata di capacità e competenze tecniche in materia di contratti pubblici, ma di una sorta di ulteriore controllore di legittimità, che si aggiunge ai molti già esistenti, con una missione centrata sulla lotta alla corruzione e non al buon funzionamento del mercato dei contratti pubblici (che non è certamente l’unico ambito in cui si possono verificare fenomeni corruttivi). Non a caso nessun paese europeo ha dato vita, nel recepimento delle direttive europee, ad un’autorità di questo tipo.
Una buona regolazione non è però sufficiente se non si dispone di una buona organizzazione. La frammentazione e la moltiplicazione delle stazioni appaltante è un problema risalente, che il Codice dei contratti aveva cercato di affrontare prevedendo un sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti che è però rimasto interamente sulla carta, forse anche per un eccesso di estensione e di ambizione. Si tratta, però, di una idea che potrebbe essere utilmente ripresa e dimensionata su misura per il PNRR, prevedendo che alcune amministrazioni, dove esistono le competenze necessarie o dove queste competenze si possono rapidamente concentrare, siano stazioni appaltanti qualificate e specializzate per almeno alcuni tipi di interventi inseriti nel PNRR, in modo da ridurre la frammentazione e da costruire rapidamente una massa critica di conoscenze, informazioni, strumenti, buone pratiche, che dopo il PNRR potrebbero essere diffuse ed estese al sistema amministrativo nel suo complesso.
- “Con cattive leggi e buoni funzionari si può pur sempre governare…
… ma con cattivi funzionari le buone leggi non servono a niente”. La famosa considerazione del cancelliere Bismark resta valida in ogni tempo e in ogni sistema e particolarmente per l’Italia, dove abbondano le cattive leggi e lo sforzo di reclutare e formare buoni funzionari è stato ed è, nel migliore dei casi, sporadico e casuale. L’enfasi oggi posta in sede politica su ingenti piani di reclutamento corre il rischio, però, di aggravare il problema invece che di risolverlo, se non si procede prima alla individuazione degli effettivi fabbisogni, poi alla verifica delle risorse già esistenti – e i buoni funzionari non mancano, anche se spesso non sono messi in condizione di lavorare efficientemente – e infine alla individuazione della migliore collocazione e organizzazione delle nuove risorse da reclutare, con l’assegnazione a specifici progetti ed obiettivi. Una organizzazione non può essere migliore delle persone che la compongono, ma il disegno e la struttura dell’organizzazione sono essenziali per assicurare l’uso migliore delle competenze e delle capacità.
[1] Per ciascuna delle priorità strategiche è infatti già definita la percentuale di fondi destinati: 24% a “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”; 37% a “Rivoluzione verde e transizione ecologica”; 14,1% a ”Infrastrutture per una mobilità sostenibile”; 9.8% a “Istruzione e ricerca”; 8,7% a “Parità di genere, coesione sociale e territoriale”; 4,6% a “Salute”. disporrà di 27,62 miliardi, ovvero 8,7% del totale.
[2] Sulle istruzioni v. il documento Guidance to Member States. Recovery and Resilience Plans, Brussels, 22.1.2021, SWD (2021) 12 final. V. anche Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021 che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza, pubblicato in GU il 18 febbraio 2021.
[3] Come ha osservato il Ministro Franco nel corso dell’audizione dello scorso 8 marzo davanti alle Commissioni congiunte del Senato e della Camera dei deputati nell’ambito dell’esame della Proposta di piano nazionale di ripresa e resilienza (Doc. XXVII, n. 18) ha affermato che “il PNRR costituisce un esercizio di apprendimento senza precedenti per le istituzioni italiane” (p. 16).
[4] L’art. 21, comma 2 prevede che “Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente.”
[5] La norma prevede anche che “L’eventuale accertamento di gravi irregolarità gestionali, ovvero di rilevanti e ingiustificati ritardi nell’erogazione di contributi secondo le vigenti procedure amministrative e contabili, è immediatamente trasmesso all’amministrazione competente ai fini della responsabilità dirigenziale ai sensi e per gli effetti dell’articolo 21, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.”
[6] Misuraca, G., Barcevičius, E., Codagnone, C., (Eds.). Exploring Digital Government Transformation in the EU – Understanding public sector innovation in a data-driven society, EUR 30333 EN, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2020.