La modernizzazione dello Stato. Meuccio Ruini e «le riforme che si possono far subito» (1909)

Meuccio Ruini (1877-1970), futuro «padre costituente» (presiedette la Commissione dei 75), veniva da una brillante carriera burocratica iniziata nel 1899 al Ministero dei lavori pubblici, dove raggiunse già prima della guerra mondiale i vertici dell’amministrazione. Direttore generale sui generis, colto, intelligente, schierato politicamente su posizioni radicali non sorde alla voce del socialismo riformista, fu collaboratore assiduo della turatiana «Critica Sociale», sia pure mascherato dal trasparente pseudonimo di Chantecler.

Si occupò molto del nascente sindacalismo degli impiegati di Stato, che sostenne ma sempre nell’intento di fare dei sindacati un motore per la riforma in chiave di efficienza e modernizzazione del lavoro amministrativo. Qui  (siamo nel 1909, all’apice dell’ascesa dei sindacati «burocratici» di ispirazione socialista riformista) presenta la sua idea di riforma radicale dello Stato «industriale».

 

Se noi vogliamo che i dipendenti dello Stato marcino a braccetto con i dipendenti della libera industria, se vogliamo che le amministrazioni pubbliche siano un campo sperimentale ed una anticipazione di ciò che sarà tutta la società futura, dobbiamo far sì che gli impiegati rinuncino a forme del loro rapporto con lo Stato incompatibili coi tempi presenti. Badiamo bene: sarebbe utopistico credere che a certe funzioni dello Stato – quelle attinenti al così detto imperio, o amministrazione strictu sensu – non siano connaturate esigenze di maggior fermezza e di struttura più rigida che in altre funzioni industriali.

La burocrazia è ordine e continuità; così che molti dei suoi difetti sono necessari per definizione e inclusi nella sua stessa essenza. Nella società borghese attuale la rigidità e resistenza burocratica è un freno e correttivo, parzialmente utile, dell’anarchismo caotico del processo di produzione. Ma ciò va studiato meglio, in relazione alla trasformazione dello Stato moderno, ove si nota una crescente industrializzazione delle sfere autoritarie amministrative, e il concetto vecchio d’imperium di diritto pubblico si tempera di elementi privatisti, ben notati dal Duguit e da altri giuristi francesi (…).

In un ordinamento sociale tendente a progredire, occorrono forme di burocrazia meno mandarinistiche, che sveglino i dormienti dal dolce far nulla, che lo abituino a un senso vigile di responsabilità, che li spingano a pensare e ad interessarsi alla produttività del loro lavoro.

Saranno i contratti a termine, saranno i tipi di cui qualche accenno si ha già nella democrazia elvetica o americana? Il problema è pauroso di difficoltà; ma bisogna affrontarlo. E dir chiaro e tondo, a costo di spiacere ai più, che l’avvenire non è più per gli organici e gli stati giuridici cristallizzati nell’automatismo delle carriere e delle paghe: ma si incammina a rinnovazioni intime dei diritti e degli obblighi di chi dà la sua opera allo Stato.

Ben inteso che l’arbitrio poliziesco non deve risorgere. L’essenza dello Stato di diritto permane. Organi di equa valutazione dei rapporti d’impiego, con rappresentanza degli impiegati, abbiano i poteri supremi di disciplina, di esclusione, di coazione per far lavorare. È tutto un insieme di congegni da creare. È la società futura che si delinea, e non deve essere un’immensa, stagnante burocrazia.

 

Chantecler, Nel mondo della burocrazia: le tre fasi di Travet, in «Critica sociale», XIX, n. 17, 1° settembre 1909, p. 264.