L’utilizzo dei social media per fini lavorativi o ragioni personali è ormai parte integrante della vita individuale. Non di rado, però, l’uso erroneo di tali piattaforme ha inciso grandemente su funzioni pubbliche che, invece, avrebbero avuto la necessità di restare escluse «dall’arena social» e dalle dinamiche non sempre corrette innescate da questi strumenti. A tal fine, lo scorso marzo il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa ha adottato una delibera proprio sull’utilizzo degli strumenti digitali e sociali, con lo scopo di indicare delle linee guida ai magistrati amministrativi sulle migliori pratiche di impiego.
Nella seduta del 25 marzo 2021, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa ha adottato la «Delibera sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi» volta a individuare delle linee guida per un corretto uso delle piattaforme social. La necessità implicita al documento è quella di bilanciare i diritti individuali, primo fra tutti all’espressione delle proprie opinioni, con la terzietà e imparzialità – anche percepita – dell’attività della giustizia.
L’adozione di tale atto, come si evince in premessa, deriva anche dall’interiorizzazione del report “Public Confidence and the Image of Justice. Individual and Institutional use of Social Media within the Judiciary” pubblicato dallo European Network of Councils for the Judiciary (ENCJ) e dalle “Non-Binding Guidelines on the Use of Social Media by Judges” predisposte dall’ONU, UNODC, Global Judicial Integrity Network.
Sul presupposto della centralità ormai assunta dai social media, sia nella dimensione individuale, che nello sviluppo delle comunità, tale documento di indirizzo vuole minimizzare i rischi connessi ad un abuso delle piattaforme. Ciò che si vuole impedire è che «la creazione di una dimensione quasi “extraspaziale ed extratemporale” dell’uso della Rete, in genere, e, nello specifico, dei social media» provochi l’attenuazione dei canoni del corretto esercizio della libertà di cui all’art. 21 della Costituzione (tema trattato da questo osservatorio anche qui, e qui). Ciò che si vuole consigliare, dunque, è l’utilizzo di simili piattaforme con un bilanciamento «tra le prerogative del singolo magistrato, sia nella propria funzione, sia come cittadino, ed i doveri connessi alla propria appartenenza istituzionale ed al proprio status».
La delibera in analisi, inoltre, non deve considerarsi come uno strumento di indicazione sull’utilizzo di qualsiasi tecnologica o di qualsiasi forma di comunicazione, quanto soltanto di quelle aventi una connotazione pubblica ed il cui contenuto risulta «conoscibile da un numero indeterminato o comunque elevato di persone e ulteriormente divulgabile», con evidente esclusione dei messaggi individuali e privati (punto 1).
Con maggior specificità circa il comportamento dei magistrati, ciò che viene ribadito è la necessità del rispetto dei codici etici dei magistrati amministrativi e delle vigenti norme disciplinari, nonché dei canoni di comportamento sempre esigibili in materia di libera manifestazione del pensiero. Particolare attenzione deve essere posta alla salvaguardia del «prestigio e [del]l’imparzialità dei singoli magistrati e della giustizia amministrativa nel suo insieme e la fiducia di cui sia i singoli che l’Istituzione devono godere nell’opinione pubblica» (punto 2). Si tratta, in altri termini, della volontà di ribadire norme e canoni già esistenti nelle relazioni interpersonali.
Scarso, infatti, appare il contenuto innovativo o interpretativo di tali linee di indirizzo. Esse si limitano tendenzialmente a ribadire concetti immanenti nell’ordinamento o già presenti nei diversi atti regolatori dell’attività del magistrato. Su questa linea di sostanziale ridondanza, infatti, si inserisce la previsione sull’utilizzo dello pseudonimo: pratica ritenuta lecita purché «non costituisca un espediente per porre in essere comportamenti illeciti» (punto 3). Una simile previsione risulta estendibile a qualsiasi soggetto (tanto che numerosi social network, proprio al fine di evitare ciò, impediscono proprio l’utilizzo di pseudonimi).
Anche le prescrizioni sull’utilizzo dei social media come rispettoso «dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti i consociati», oltreché del (già ribadito) buon nome dell’istituzione e della funzione che si rappresenta (punto 4), non sembrano dotate di particolare innovatività; similmente al divieto di comunicare con soggetti connessi alle loro funzioni, o in relazione alle controversie di competenza (punto 6), o l’auspicio alla conoscenza delle impostazioni di privacy e sicurezza delle piattaforme social (punto 10).
Parzialmente più incisivo, invece, è l’indirizzo in materia di «linguaggio» dove vengono richiesti «elevati parametri di continenza espressiva» con un utilizzo prudente della parola, soprattutto in «riferimento al rischio della perdita di controllo […] ed alla tipologia di contenuto oggetto di pubblicazione e diffusione» (punto 5). Peculiare la previsione per cui i social media vengono esclusi quale «strumento di pubblicità di proprie attività economiche extraistituzionali». Interessante, infatti, sarà osservarne le concrete modalità utilizzate dalla magistratura amministrativa per garantirne il rispetto (punto 7).
Un tema particolarmente rilevante riguarda il rapporto tra «l’amicizia social» e l’abituale convivialità o, comunque, la vicinanza personale, in materia di conflitto di interessi. Ci si è chiesto, infatti, quale ruolo possano assumere tali interazioni rispetto alla tutela dell’imparzialità. La Delibera, sul punto, pur richiedendo precauzione e prudenza nell’instaurazione di connessioni online, esclude che queste possano costituire «un elemento di per sé rilevante a manifestare la reale consuetudine di rapporto personale», la quale dovrà comunque essere valutata in concreto alla luce delle disposizioni tassative contenute dai codici processuali e dagli appositi atti normativi.
Nelle linee di indirizzo, comunque, si tiene a ribadire la necessità che la magistratura – come la moglie di Cesare – non debba solo essere onesta, ma debba anche apparire onesta. Si suggerisce, perciò, di evitare amicizie o contatti che «possano incidere sulla sua immagine di imparzialità» (punto 8).
Alle previsioni di indirizzo per i singoli magistrati, poi, seguono prese di posizione riguardo allo stesso Consiglio di Presidenza Giustizia Amministrativa e all’Ufficio studi della Giustizia amministrativa, ai quali viene rimessa la necessità di organizzare attività di aggiornamento e formazione in materia (punto 10).
Il documento, pur configurandosi come un precursore in un ambito scarsamente affrontato nel settore della giustizia, in realtà rimette grandemente l’individuazione degli obblighi puntuali alle norme di legge e ai codici di condotta. Obblighi che, dunque, troverebbero applicazione comunque, al di là dell’atto in questione. Il suo obiettivo però potrebbe essere individuata nella necessità di richiamare l’attenzione su un tema sempre più rilevante, ma non per questo ben regolato o gestito, come appunto le interconnessioni tra attività social e vita professionale. Scopo che probabilmente poteva essere raggiunto con strumenti dotati di una vocazione meno regolatoria, ma più di indirizzo, nonché direttamente con eventi specifici di formazione, puntualmente delineati.
Tra i fattori maggiormente interessanti, comunque, se ne evidenziano due: 1) la volontà di escludere l’immaterialità delle condotte social; 2) il timido avvio di un dibattito sulle modalità di espressione online, e sugli utilizzi a fini economici degli account personali.
Tali temi, per quanto di grande rilevanza, risultano ancora solo marginalmente affrontanti, di qui il pericolo che le linee di indirizzo in esame si rivelino soltanto un’occasione mancata. Dunque, saranno solo le concrete modalità di verifica, controllo e formazione a garantire un reale spazio applicativo alla delibera e alla responsabilizzazione dei comportamenti online.
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