La tecnologia blockchain si sta affacciando anche nel mondo dei beni culturali. Le potenzialità sono tante, ma anche le contraddizioni non mancano. Il caso della “tokenizzazione” delle opere d’arte ne è una prova.
Potrebbe accadere, una sera, invitati a cena a casi di amici, di apprendere che questi sono appena diventati proprietari di un importante lavoro di Andy Wharol, quotato diversi milioni di euro. Superato lo stupore iniziale, ci verrebbe naturale guardarci intorno, cercando l’inconfondibile pezzo di “pop art” appeso alle pareti. Lo stupore potrebbe solo aumentare, scoprendo che, in realtà, i nostri amici hanno acquistato, con criptovalute, esclusivamente dei certificati di proprietà parziali dell’opera, emessi da una piattaforma blockchain, governata da uno smart-contract.
Non è fantascienza. Con un significativo esperimento pilota, è stata già realizzata, da parte di una piattaforma privata di art-investment, la prima grande “tokenizzazione artistica”, proprio di un dipinto di Wharol (“14 Small Electric Chairs“), valutato 5,6 milioni di dollari e di cui è stata venduto il l 31,5%, per un totale di 1,7 milioni di dollari.
Ma in cosa consiste un procedimento di tokenizzazione di questo tipo?
Si tratta della conversione di un diritto su di un’opera (in questo caso la proprietà) in un token, cioè un gettone digitale registrato, il quale viene emesso su di una piattaforma blockchain per essere scambiato, con valute aventi corso legali o anche criptovalute, tra gli utenti.
In sostanza, quindi, tramite questa tecnica, un’opera d’arte viene fittiziamente frazionata e l’acquirente diventa proprietario non del bene fisico, il quale resta nel possesso di chi ha l’originaria titolarità e ne conserva più del 50%, ma di certificati di proprietà digitali, garantiti, singolarmente e univocamente etichetti, non frazionabili e immediatamente trasferibili. In tal senso, l’opera d’arte, come in un strumento finanziario, costituisce l’asset sottostante, che garantisce il valore di base per le successive transazioni.
Sebbene si sia ancora alle prime sperimentazioni, diffondere la tokenizzazione artistica viene, da più parti, indicata come una strada da percorrere per democratizzare i beni culturali e per consentire di sviluppare il mercato secondario delle opere d’arte.
In questo senso, si tende a sottolineare che, superato l’ostacolo psicologico, dato dall’impossibilità di disporre fisicamente del bene acquistato, grazie a questa tecnologia tutti quanti potrebbero avere la possibilità di acquistare una porzione di un’opera rilevante, se non di una vera e propria collezione. A ciò si aggiunge la considerazione che la vendita di una quota di un bene potrebbe dare l’occasione, al titolare di esso (idealmente una galleria o proprio un museo), di avere liquidità per ulteriori investimenti, diversificando la propria raccolta o investendo in nuovi artisti.
I profili controversi, tuttavia, non mancano.
Tra essi, spicca, in primo luogo, l’assenza di un regolazione specifica dei token, che solo in alcuni ordinamenti, come in quello statunitense, sono già disciplinati come strumenti finanziari. Dal vuoto di normazione può allora discendere, per esempio, l’impossibilità di garantire la trasparenza delle operazioni, anche in termini di anti-riciclaggio, e la difficoltà di assicurare correttamente la provenienza e l’autenticità delle opere.
Con la tokenizzazione vi è poi il rischio di aprire le porte a speculazioni di mercato, potenzialmente dannose per gli artisti, specie più giovani, operando strumentalmente sulle informazioni immesse nelle blockchain (per gli investimenti in arte sono già diffusi strumenti derivati di copertura, che potrebbero essere ulteriormente sviluppati, con tutte le incertezze connesse). Resta, infine, tutto da verificare come rendere questa “finanziarizzazione” di un’opera d’arte compatibile con l’esigenza di tutela e valorizzazione dei beni culturali, posto che la circolazione smaterializzata dei diritti proprietari prescinde dalla fisicità del bene, il quale, astrattamente, potrebbe persino restare in un caveau a deteriorarsi mentre sul mercato i titoli continuano a circolare.
Un secolo fa, Paul Klee ha scritto che “l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Lo sviluppo della tokenizzazione artistica dovrà essere attentamente presidiato e regolato, in tutti i suoi passaggi e attori, proprio per essere certi di non dimenticarsi che, dietro la sostanziale operazione di cartolarizzazione, deve restare sempre visibile un’opera d’arte.
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