Il “tormentato trilemma” big tech, prestazione di servizi online e diritto eurounitario: la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ritiene illegittima l’imposizione di oneri supplementari da parte degli Stati membri

La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha statuito l’illegittimità degli oneri amministrativi supplementari introdotti, durante il biennio 2020-2021, dallo Stato italiano, il cui dichiarato e asserito scopo sarebbe stato quello di assicurare e garantire la trasparenza e la qualità nell’ambito dei servizi di intermediazione offerti sul web.

In buona sostanza, la CGUE ha rilevato l’evidente contrasto (della normativa italiana) con il principio europeo dell’esclusiva spettanza dello Stato membro di origine, unico deputato a regolare (a livello nazionale) i soggetti che prestano i servizi di e-commerce.

 

La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha nuovamente riaffermato, nel settore dell’e-commerce (e dei servizi di intermediazione telematici) il principio del c.d. Stato di origine, logico e indefettibile corollario della libertà eurounitaria di stabilimento (e di libera prestazione di servizi).

Come noto (e, al netto di specifiche e tipizzate deroghe), secondo il suddetto principio, in base a quanto previsto dalla Direttiva europea sul commercio elettronico (2000/31/CE), è solamente il Paese in cui ha sede la società operante in tali ambiti a poter validamente stabilire “le regole del gioco” domestiche.

La vicenda de quo trae origine da una serie di ricorsi promossi da alcune società (generalmente stabilite in Irlanda, eccezion fatta per una, Expedia, la cui sede si trova negli USA) dinnanzi al Giudice amministrativo italiano, volti a censurare alcune previsioni italiane che introducono oneri amministrativi ulteriori rispetto a quelli già previsti dalla normativa europea, ritenuti, da queste, in aperto contrasto con il principio di libera prestazione dei servizi e con le correlate e sottostanti disposizioni sul commercio elettronico.

Gli obblighi oggetto della “querelle” giurisdizionale riguardavano, in particolare, alcune specifiche misure di natura regolamentare approntate dall’Italia quali: l’iscrizione al ROC (il Registro degli operatori di comunicazione) tenuto dall’AgCom, la trasmissione periodica di documenti riguardanti lo stato finanziario delle società operanti nel settore dell’e-commerce unitamente ad altre informazioni dettagliate e, infine, il versamento periodico di un contributo di natura pecuniaria.

Il T.A.R. del Lazio, competente funzionalmente in materia, prima di addentrarsi – funditus – nel merito della quaestio, si è chiesto se tali disposizioni potessero essere interpretate in maniera conforme a quanto previsto dalle norme di cui all’ordinamento europeo, procedendo, pertanto, ad operare un rinvio pregiudiziale dinnanzi alla CGUE.

A tutta prima, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha accolto le tesi interpretative avanzate dagli operatori ricorrenti, affermando l’incompatibilità della normativa italiana rispetto a quanto previsto a livello eurounionale, statuendo come gli specifici oneri supplementari introdotti dal nostro Paese impingessero con quanto previsto dalla Direttiva sul commercio elettronico, in quanto la loro adozione non risultava giustificata (come tenta di affermare “speciosamente” lo Stato italiano) dall’esigenza di assicurare la qualità e la trasparenza dei servizi di e-commerce (né, tantomeno, i suddetti oneri ulteriori appaiono necessari per l’efficace applicazione, nel territorio nazionale, del Regolamento (UE) 2019/1150).

Secondo la Corte, si tratta “prima facie” di misure generali e astratte affliggenti tutti i fornitori di servizi di intermediazione online, e che, pertanto, non possono, in alcun modo, essere sussunte all’interno dello specifico regime derogatorio di cui all’art. 3, par. 4 della Direttiva 2000/31/CE, ove si prevede la possibilità per gli Stati membri di porre in essere misure ulteriori, solamente se necessarie e proporzionati, al fine di tutelare: l’ordine pubblico, la sanità pubblica, la pubblica sicurezza, e i consumatori.

Inoltre, questi specifici oneri non possono rientrare nemmeno nella categoria delle misure proporzionate e necessarie a perseguire obiettivi di interesse generale (quali, ad esempio, la qualità dei servizi di settore e la loro trasparenza), e, stante la loro generalità, non sono qualificabili neppure quali previsioni ad hoc rivolte nei confronti di fornitori di specifici servizi digitali.

Il “pacchetto” di pronunce omologhe (rassegnate il 30 maggio u.s., nelle cause riunite C-662/2022, C-667/2022, C-663/2022, C-664/2022, C-666/2022 e C-665/2022) risulta, in questo momento storico, di indubbia e dirimente rilevanza e centralità, non solo giuridica, poiché, sempre più Stati membri (quali Austria, Francia, Ungheria e Germania) stanno tentando di introdurre “surrettiziamente” misure nazionali aggiuntive, con particolare riguardo alle società la cui sede è stabilita oltreoceano (quale Expedia, coinvolta nella vicenda de qua, ma anche, a titolo esemplificativo, YouTube), sospinti da logiche evidentemente incoerenti con la ratio e gli scopi del mercato comune europeo.

Le sentenze de qua soggiungono solamente a tre mesi dall’entrata in vigore del c.d. DSA (il Digital Services Act. Per l’Osservatorio sullo Stato digitale se ne è occupata A. MATTOSCIO, “Digital Services Act: “un accordo storico””), ove il principio del Paese d’origine viene sancito “claris verbis all’ art. 2, par. 3.

Seppur quanto riaffermato in sede interpretativa dalla CGUE risulti tecnicamente ineccepibile (attecchisce pienamente allo spirito e all’hummus europeo pro concorrenziale, “federale” e unitario), e foriero di incidere significativamente sulle prospettive “de iure condendo” degli Stati membri, le sentenze di cui trattasi sembrano, comunque, inserirsi faticosamente in un dualismo complesso, stretto tra giuste e dovute esigenze di tutela di settori e asset locali (Per l’Osservatorio sullo Stato digitale se ne è occupato A. RENZI, “L’estremo oriente impone dei limiti alle Big Tech: il caso della Corea del Sud) e l’indefettibile bisogno di creare un mercato sempre più aperto, competitivo ed integrato, al fine di fronteggiare le difficili sfide globali, rese ancor più complesse dalle svariate crisi (economico-sociali) in corso e dal consolidamento di alcune posizioni di potere.

Infatti, i più scettici sostengono che il principio dello Stato di origine dovrebbe essere pensato, interpretato e congegnato per far sì che le piccole e medie imprese operanti nel mercato comune europeo possano espandersi più facilmente all’interno dei mercati internazionali; tuttavia, per converso, tale “incentivazione” non dovrebbe essere applicata alle già affermante società multinazionali, in quanto, così procedendo, si finirebbe per creare evidenti squilibri economici complessivi.

In altre parole, ciò avvantaggerebbe enormemente e ingiustificatamente le grandi società altamente capitalizzate (che, non necessitano di alcuna spinta di tipo propulsivo), a tutto discapito e detrimento delle imprese locali, creando evidenti asimmetrie sociali ed economiche.

In attesa di osservare come il Giudice amministrativo dirimerà la controversia nel merito, recependo le coordinate ermeneutiche offerte dalla CGUE, appare certo che tali pronunzie influenzeranno le decisioni dei policy maker degli Stati membri, i quali si trovano a dover fronteggiare temi di cruciale e dirimente rilevanza e attualità, pur risultando difficile operare in maniera non protezionistica, equilibrata e imparziale per tutte le parti coinvolte.

Rimane imprescindibile ricercare nuove vie in grado di rafforzare il processo di integrazione europea, in una continua e costante endiadi e dialogo reciproco ed armonico tra legislazioni nazionali ed eurounitarie, al fine di creare uno spazio comune economico aperto, libero, e pro-concorrenziale, mediante l’adozione di regole nazionali che, sì spingano le piccole e medie imprese verso la crescita internazionale, nel pieno rispetto del diritto europeo (Per l’Osservatorio sullo Stato digitale se ne è occupato M. BEVILACQUA, “La regolazione ex ante delle piattaforme digitali nel nuovo Digital Markets Act), tentando, però, allo stesso tempo, di implementare un sistema normativo domestico che non affligga ingiustificatamente (e non proporzionalmente) le Big Tech, ponendole in un’equa competizione con le piccole e medie imprese (a tutela degli asset strategici domestici, senza evidenti e spropositati detrimenti per nessuna parte in gioco).

Osservatorio sullo Stato Digitale by Irpa is licensed under CC BY-NC-ND 4.0