1. La risposta europea alla crisi pandemica
Come spesso accade nella storia europea, la crisi provocata dalla pandemia Covid 19 ha prima portato l’Unione europea sull’orlo del collasso e poi ha imposto di abbandonare paradigmi e strumenti che sembravano inossidabili a favore di una strada nuova, non del tutto ancora definita nei suoi contorni e non ancora stabilizzata, ma segno chiaro di una capacità di reazione che non poteva essere data per scontata.
Nel giro di poche settimane il panorama regolatorio è mutato radicalmente: sospeso il patto di stabilità fino alla fine del 2021, consentita ampia flessibilità per gli aiuti di Stato fino alla fine del 2020, prevista una linea di credito del Mes per la spesa sanitaria con l’unica condizione della destinazione, autorizzata l’emissione di bond europei, inserito nel bilancio europeo un fondo di ripresa e resilienza di 750 miliardi di euro (RRF), che insieme alle autorizzazioni potenziali per gli aiuti di stato porta ad un intervento del valore complessivo di un trilione di euro. La prima emissione europea di bond (Sure – Support to Unemployment Risks in Emergency), finalizzato a prestiti agli Stati membri per spese relative a misure di contrasto alla disoccupazione, come la cassa integrazione, ha avuto un grande successo: a fronte dei 17 miliardi offerti c’è stata una richiesta di bond per 233 miliardi di euro.
La distanza rispetto ai vincoli del patto di stabilità, al divieto di aiuti di stato, alle condizionalità rigide del Mes, agli errori, ormai riconosciuti diffusamente, dell’intervento di qualche anno fa in Grecia è evidente, anche se le nuove misure sono, almeno nominalmente, provvisorie e connesse all’emergenza provocata dalla pandemia. Non può quindi dirsi con certezza se il quadro regolatorio europeo abbia mutato definitivamente paradigma di riferimento o se siamo davanti ad una divergenza di carattere eccezionale, che rientrerà una volta passata la crisi (momento peraltro difficile da prevedere allo stato), né quali saranno i tempi esatti per l’approvazione da parte del Parlamento europeo, seguita dalla ratifica dei parlamenti nazionali. La stabilizzazione di una politica dipende spesso, però, dal suo successo: se questo insieme di strumenti raggiungerà i risultati sperati sarà difficile tornare indietro, sia quanto al nuovo ruolo dell’UE in economia, sia quanto al nuovo equilibrio fra istituzioni europee e, in particolare, fra Commissione e Consiglio, con la possibilità per la Commissione di diventare un grande emettitore sul mercato e di disporre di risorse di bilancio proprie.
Un ruolo e una responsabilità decisivi nel successo di questo nuovo assetto spettano proprio all’Italia, che sarà – almeno sulla carta – il maggiore percettore di fondi al lordo (senza cioè considerare il contributo dell’Italia al bilancio europeo). La costruzione di un Piano nazionale efficace per ottenere i fondi e la realizzazione del Piano nei tempi previsti sono quindi oggi una indiscutibile priorità e una occasione che non può essere mancata.
2. Le regole sui piani nazionali di ripresa
Per meglio comprendere il procedimento attraverso il quale verranno erogate le risorse, conviene ricapitolare sinteticamente le regole e le fasi del procedimento.
Ciascuno Stato membro deve presentare alla Commissione un Piano nazionale, seguendo le istruzioni della Commissione e in coerenza con le raccomandazioni europee per ciascun paese pubblicate ogni anno. I piani saranno approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, presso la quale è stata istituita una apposita unità denominata Recovery and Resilience Task Force, all’interno del Segretariato generale. I piani nazionali possono essere presentati dal 15 ottobre 2020 al 30 aprile 2021: tanto prima verranno presentati e approvati, tanto prima si potrà procedere con le erogazioni. Sulle erogazioni la decisione spetta alla Commissione a fronte del raggiungimento di obiettivi misurabili concordati nel piano, sentito il parere del Comitato economico e finanziario, al quale spetta la valutazione sul rispetto delle tabelle di marcia.
Ciascun Paese può attivare il c.d. freno di emergenza, se ritiene “che vi siano gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali” e chiedere, in via eccezionale, che la questione sia rimessa al Consiglio europeo. Il Consiglio deve discutere la segnalazione nella sua riunione immediatamente successiva e la Commissione deve astenersi, sino a che la discussione non si sia svolta “in maniera esaustiva”, da qualsiasi decisione sulle erogazioni allo Stato per il quale è stato attivato il “freno”. L’esito e gli effetti della discussione dinanzi al Consiglio non sono espressamente regolati, di modo che il “freno” può ritardare, ma probabilmente non bloccare definitivamente la decisione dell’organo competente, che rimane la Commissione (saranno probabilmente la gravità dello scostamento e la possibilità di recuperarlo in tempi brevi ad essere determinanti ai fini del blocco o della continuità nell’erogazione dei fondi).
Le istruzioni della Commissione per la redazione dei piani nazionali sono articolate e dettagliate, ma lasciano ampio spazio alla scelta degli Stati per quanto riguarda i progetti e gli strumenti da mettere in campo. A differenza di quanto sinora è avvenuto per quanto riguarda il controllo dei disavanzi eccessivi, la verifica da parte della Commissione è ancorata a parametri qualitativi più che quantitativi e, peraltro, si tratta di un campo da gioco nuovo per la stessa Commissione, che non dispone di schemi e strumenti di verifica già consolidati per misurare sia la coerenza dei piani nazionali con le istruzioni e le raccomandazioni, sia l’attendibilità e la fattibilità delle scelte nazionali.
Naturalmente questo non significa che gli Stati godano di una incondizionata libertà di scelta sui progetti e le azioni da inserire nel piano nazionale. Occorre tenere conto, ad esempio, del parametro temporale. Trattandosi di risorse che coprono un determinato periodo, non possono essere usate per spese correnti, che si troverebbero ben presto definanziate, o per investimenti che richiedono tempi di realizzazione che vanno oltre l’orizzonte temporale del RRF. Anche le raccomandazioni specifiche per ciascun paese non possono essere ignorate: basti pensare alle riforme raccomandate per il sistema pensionistico in Francia o per la giustizia e l’amministrazione pubblica in Italia.
3. Il piano italiano: libro dei sogni, polvere d’archivio, agenda per il futuro
Per chi ricorda la storia della programmazione in Italia, è facile fare un parallelo fra le aspettative che il RRF sembra suscitare nel dibattito politico e la sprezzante definizione che Fanfani diede del Progetto 80 di G. Ruffolo come “libro dei sogni”. I prestiti e i sussidi del RRF, per quanto ampi – l’Italia potrebbe ricevere 81,4 miliardi di sussidi e 127,6 miliardi di prestiti – non potrebbero mai coprire lo sterminato elenco di esigenze e di bisogni, veri o presunti, che vengono oggi segnalati con il desiderio di intercettare una parte di quelle risorse. Per altro verso, è altrettanto sterile l’atteggiamento di chi si limita a rispolverare qualche progetto rimasto da anni in archivio, senza chiedersi se risponda ai criteri e ai parametri dettati dal RRF e, soprattutto, se sia ancora attuale: non è detto che realizzare oggi le opere o i servizi pensati anni fa sia davvero utile, in un contesto economico, tecnologico e sociale significativamente mutato.
Le stesse istruzioni della Commissione enfatizzano peraltro la necessità di rafforzare l’innovazione, la sostenibilità, la digitalizzazione e richiedono approcci nuovi sul piano sia della progettazione, sia della strumentazione per la valutazione della fattibilità e per la rendicontazione dei risultati perseguiti e raggiunti.
L’attività per la formazione del piano italiano fa perno, al momento, sul Comitato interministeriale per gli affari europei (CIAE), sulla base delle Linee guida (per la verità piuttosto generiche) approvate dal Parlamento e degli indirizzi sull’utilizzo dei fondi inseriti nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2020 (Nadef). Al CIAE possono partecipare tutti i ministri, il presidente della Conferenza delle regioni, il presidente dell’Anci e il presidente dell’Upi e i lavori istruttori si svolgono con l’assistenza di un apposito Comitato tecnico di valutazione e con una frequente interlocuzione con la Recovery and Resilience Task force della Commissione europea.
L’ammontare delle risorse in astratto disponibili per l’Italia e l’ampiezza delle misure necessarie per assicurare o almeno avviare la ripresa dopo la crisi pandemica richiederanno sicuramente un lavoro lungo e articolato, nel quale occorre tenere insieme priorità ed esigenze politiche e capacità di analisi tecnica sul piano della coerenza e della fattibilità dei progetti, insieme alla valutazione degli effetti e dei risultati che con essi si vogliono raggiungere.
Non mancano sedi politiche, tecniche, accademiche nelle quali si avanzano e discutono priorità, obiettivi, proposte e progetti per determinare i contenuti del piano. Meno intenso è, invece, il dibattito sugli strumenti e le modalità di realizzazione del piano, anche se è facile osservare – ed è del resto opinione diffusa – che la realizzazione di un piano così importante richiederà una capacità tecnica e amministrativa che il sistema italiano è lungi dal possedere.
L’esperienza più e meno recente dimostra, infatti, che il sistema amministrativo italiano ha capacità di gestione limitate persino rispetto a misure di pura erogazione, come è stato purtroppo dimostrato dalle difficoltà nel far giungere a destinazione le misure straordinarie – 100 miliardi di spesa aggiuntiva, almeno sulla carta – malamente disegnate nei tanti decreti legge succedutisi da marzo ad oggi, nonostante l’ampio ricorso a strumenti di “alleggerimento”, come le autocertificazioni o l’automaticità dei bonus e degli incentivi, accompagnati da un diluvio di regole (soi-disant) di semplificazione, che hanno purtroppo semplificato ben poco. Queste difficoltà sono moltiplicate quando si tratta di gestire progetti complessi o di assicurare in tempi celeri e certi la realizzazione di investimenti significativi, per i quali spesso le risorse, pur esistenti, restano inutilizzate o vengono utilizzate in misura del tutto insufficiente.
La questione della capacità amministrativa è quindi centrale per la formazione e l’attuazione del piano nazionale e non a caso fra le raccomandazioni ricorrenti della Commissione all’Italia si trova la necessità di una profonda riforma amministrativa (insieme alla riforma della giustizia, altro punto debole del sistema italiano).
4. L’amministrazione che non c’è
La costruzione della capacità amministrativa di un sistema è un progetto di lunga lena, che richiede (avrebbe richiesto) un’attenzione continuata nel tempo, risorse ad hoc, strumenti di valutazione e controllo, costruzione di una massa critica di competenze ed esperienze. Tutto ciò che richiede tempo è però di scarso interesse per la politica (per la verità quasi sempre, ma in particolare per la dirigenza politica degli ultimi anni), che preferisce in genere fare proclami e annunci su presunte soluzioni istantanee che magicamente dovrebbero risolvere problemi annosi.
Poiché il pensiero magico, come accade abitualmente, non funziona, si passa rapidamente ad una soluzione che è apparentemente (ma solo apparentemente) razionale: se gli apparati e le regole esistenti non funzionano e non possono essere trasformati nel tempo utile per trarne un dividendo politico, si va fuori dall’amministrazione e dalle regole che ci sono e si teorizza l’amministrazione che non c’è. Agenzie, amministrazioni di missione, task forces, unità, nuclei, comitati, commissioni, conferenze, fondazioni e, da ultimo, soprattutto commissari: lo zoo degli animali amministrativi reali e fantastici si arricchisce continuamente di generi e specie, in assenza però di un vero processo evolutivo. Per i nuovi soggetti, istituiti appositamente per sostituire gli apparati considerati inefficienti, si invoca poi la libertà delle regole che impediscono agli apparati tradizionali di funzionare efficientemente, ma non si scrivono nuove regole, essendo assai più facile procedere in via di eccezione, stabilendo di volta in volta quale regola non si applica.
Ricorrere ad un’amministrazione che non c’è, che opera in via di eccezione e di commissariamento può forse funzionare per un obiettivo molto limitato nel tempo e nello spazio (l’esempio preferito nell’attuale dibattito è la ricostruzione del Ponte Morandi a Genova e cioè di 1 km di autostrada ricostruito in due anni, con risorse completamente a carico del concessionario, in deroga a qualsiasi regola italiana ed europea), ma non è certo un rimedio che può essere applicato all’intero sistema amministrativo per diversi anni e con riferimento all’utilizzo di risorse così ingenti come quelle previste dal RFF.
La costruzione di nuovi apparati o un generalizzato ricorso al commissariamento provocherebbe, inoltre, una reazione di resistenza ed ostilità da parte dagli apparati già esistenti, che si vedrebbero esautorati. Anche la fiducia con cui nel dibattito politico si evocano poteri sostitutivi e regole eccezionali (un evidente ossimoro) sembra mal riposta e foriera di quasi sicure delusioni.
Sarà giocoforza, allora, ricorrere all’amministrazione che c’è, provando ad utilizzare meglio ciò che ne rimane dopo anni di incuria e ad introdurre elementi per uno sviluppo futuro. Si potrebbe tentare, in altri termini, di rovesciare l’approccio: invece di ridisegnare l’amministrazione per gestire le risorse del RRF, utilizzare il RRF per (cominciare a) ridisegnare l’amministrazione. Il RRF si esaurirà in pochi anni, ma il sistema amministrativo resterà e se invece di procedere in via di eccezione si provasse a costruire nuove regole e nuovi strumenti per la realizzazione del piano, nel caso in cui avessero successo si potrebbero successivamente estendere al sistema nel suo complesso, con gli aggiustamenti necessari sulla base dell’esperienza.
5. L’amministrazione che potrebbe esserci
Per utilizzare l’amministrazione che c’è in una prospettiva di cambiamento e di sviluppo si potrebbe cominciare con tre misure, da realizzare, rispettivamente, sul piano dell’organizzazione, sul piano delle regole e sul piano del capitale umano.
Sul piano dell’organizzazione è facile osservare che, quali che siano le scelte di policy contenute nel piano nazionale, la loro attuazione non potrà prescindere dal coinvolgimento di almeno una parte delle amministrazioni statali come di quelle regionali e locali. Sarebbe utile, allora che in ciascuna amministrazione – almeno nei ministeri e nelle regioni, e forse anche nei più grandi comuni – sia individuato un Responsabile del RRF, dotato di una struttura nella quale si concentrano le competenze dell’amministrazione di appartenenza connesse alla gestione del RRF, naturalmente solo con riferimento ai progetti e alle azioni che prevedono il coinvolgimento di quell’amministrazione. La struttura potrebbe essere costruita non ex novo, ma trasformando strutture esistenti e concentrando presso di essa le competenze necessarie, a volte già presenti nell’amministrazione, dove le persone capaci esistono, ma raramente sono poste in condizione di fare massa critica.
I Responsabili RRF dovrebbero operare in rete fra di loro, condividendo regole e criteri di attuazione delle regole poste dalla Commissione, individuando buone prassi di attuazione all’interno dell’ordinamento nazionale e utilizzando una piattaforma informatica disegnata ad hoc per il piano nazionale, in modo da superare gli annosi problemi di comunicazione e di interoperabilità fra amministrazioni. I Responsabili RRF dovrebbero svolgere un doppio ruolo: rappresentanti dell’amministrazione di appartenenza nel progetto complessivo del RRF e portatori della cultura e della missione RRF nell’amministrazione di appartenenza. Questa rete dovrebbe naturalmente avere un referente politico, che potrebbe essere individuato nel binomio Ministro per gli affari europei/CIAE, in modo da assicurare sia una responsabilità politica chiara in capo al Ministro, sia la partecipazione e il coinvolgimento di tutti gli altri ministri e, quando serve, dei presidenti della Conferenza delle regioni, dell’Anci e dell’Upi. Per rafforzare l’impegno richiesto ai Responsabili RRF – che dovrebbero avere la qualifica dirigenziale – si potrebbe prevedere che l’indennità di risultato sia esclusivamente legata al raggiungimento degli obiettivi di attuazione del RRF.
Sul piano delle regole, non si tratta solo di eliminare e districare il groviglio normativo che oggi spesso finisce per favorire l’inerzia rispetto all’azione e soprattutto obbliga tutti ad operare in un regime di costante incertezza, ma anche di disegnare regole nuove e moderne, che non costituiscano una mera variazione al margine dell’esistente, ma forniscano la trama e la guida per un nuovo modo di amministrare, utilizzando a pieno anche le tecnologie oggi disponibili. Per avviarsi su questa strada occorre abbandonare l’illusione di partire da un disegno generale che, a parte le difficoltà di ideazione, verrebbe presto smantellato dall’esigenze – reali e presunte – della grande varietà di settori e materie nei quali l’amministrazione opera.
Si potrebbe invece procedere al contrario, determinando le regole nuove e le eventualmente necessarie modifiche delle regole esistenti e subito dopo la fase di progettazione, in modo da adottare misure mirate a profili specifici connessi all’attuazione di problemi specifici. Per fare solo qualche esempio: l’infrastrutturazione digitale, il passaggio ad una economia verde, la realizzazione di opere, il potenziamento della ricerca, il reclutamento degli insegnanti, la formazione dei dipendenti pubblici – tutti interventi previsti nelle Linee guida italiane – richiedono procedure e regole diverse e sono oggi bloccati da “nodi” diversi, che devono essere sciolti uno per uno e non con norme generali di “semplificazione”, che in effetti non semplificano niente. Le norme generali di semplificazione, inoltre, coinvolgono l’intero universo amministrativo, con la conseguenza di richiedere tempi lunghi di assorbimento e di provocare, almeno nella fase inziale di applicazione, ulteriori incertezze e spesso contenziosi. Se le nuove regole disegnate appositamente per le azioni RRF si mostreranno efficaci si potrà poi valutare la loro estensione e generalizzazione, per materie, o settori o tipo di attività, mettendo a frutto l’esperienza maturata nella concreta realizzazione dei progetti contenuti nel piano nazionale RRF.
L’unico tipo di regole per le quali sarebbe invece utile adottare misure comuni a tutte le attività di attuazione del piano nazionale RRF sono le regole di contabilità, al fine di rendere razionale e celere il tortuoso procedimento che oggi si snoda (più spesso si annoda…) tra uffici amministrativi, uffici tecnici, comitati interministeriali, ragioneria generale, Corte dei conti, con il risultato che spesso le risorse non vengono spese o vengono spese con enorme ritardo rispetto alle necessità. Il piano nazionale RRF potrebbe godere di un proprio regime di contabilità e di un proprio regime di rendicontazione e verifica dei risultati e, anche in questo caso, ove il nuovo regime avesse successo, lo si potrebbe poi via via estendere.
Sul piano del capitale umano, l’attività di progettazione sta già coinvolgendo, a quanto è dato di sapere, dirigenti ed esperti delle principali strutture tecniche pubbliche, ai quali si aggiungono con proposte spesso pubblicate sulla stampa i centri studi, i think tank, le università, le associazioni del mondo produttivo e delle categorie sociali. Per la fase di attuazione ci sarà bisogno, però, di poter contare stabilmente sia su funzionari dotati di esperienza, sia su nuove risorse dotate di competenze tecniche che oggi sono rare nel sistema amministrativo italiano. Si potrebbe allora procedere da una parte con un interpello all’interno dell’amministrazione per individuare le competenze già presenti e, dall’altra, con un reclutamento mirato di qualche decina di giovani laureati e con dottorato con le competenze necessarie per gli studi di fattibilità, l’analisi dei dati, la valutazione degli effetti. Se non ci si vuole affidare alle contorte procedure concorsuali oggi imperanti, né ricorrere a rapporti di lavoro a tempo indeterminato, si potrebbe anche solo prevedere l’assegnazione di un numero adeguato borse di studio triennali rinnovabili: gli ottimi laureati che l’università italiana produce e che regala generosamente agli altri paesi, che li accolgono e danno loro una posizione adeguata alla qualità degli studi compiuti, sarebbero sicuramente disposti a lavorare per il Paese in un progetto capace di mobilitare le migliori energie intellettuali al servizio di tutti.
A queste misure de minimis se ne potrebbero aggiungere naturalmente molte altre. E’ importante scegliere, però, prioritariamente l’approccio, sapendo che se il piano RRF viene calato nel sistema amministrativo esistente il rischio di fallimento è molto alto e che l’occasione di utilizzare uno strumento così potente per lavorare alla modernizzazione del sistema amministrativo non capiterà di nuovo.