Esiste sul linguaggio burocratico una vastissima letteratura, risalente addirittura all’Ottocento. Qui il giovane e sufficientemente colto apprendista burocrate immaginato da Renzo Castelli (pisano, giornalista ed egli stesso per breve tempo lavoratore nel pubblico impiego) scopre la realtà astrusa ma al tempo stesso rigidamente presidiata da regole indefettibili della scrittura burocratica.
In breve, accadeva che le informazioni principali fossero sempre precedute da quelle secondarie, cosicché, ponendo la maggiore attenzione a queste ultime, si finiva con il perdere il filo delle altre, cioè delle cose che l’amministrazione voleva realmente far conoscere. La funzione comunicativa del messaggio perdeva ogni efficacia, schiacciata da un esercizio linguistico diabolicamente organizzato, forse da un autore di rebus. I concetti subordinati si aprivano poi su quelli principali, facendo perdere ogni senso logico alla frase vista nella sua interezza. Il senso definitivo e primario diventava così un optional per colui che avrebbe dovuto interpretare la circolare (…). Non mancava il florilegio degli eufemismi. Si poteva leggere: “La Signoria Vostra è gentilmente pregata di provvedere con cortese urgenza…”, laddove invece l’intenzione dell’estensore della circolare era esattamente la seguente: “Provveda e lo faccia subito”. “La Signoria Vostra è gentilmente pregata…”. Ma a quale Signoria ci si rivolgeva, se il disprezzo per chi avrebbe dovuto leggere quell’ordine era assoluto e grondava di rigo in rigo?
Il burocratese aveva un humus naturale che poteva essere considerato, storicamente, la base creativa di ogni atto. C’erano parole che rappresentavano una sorta di distintivo gentilizio del burocratese: “suddetto”, “summenzionato”, “succitato”, “surriferito”. “A fine di ottenere il summenzionato risultato…”. Stupendo (…). Anche il pleonastico, ovviamente, abbondava. Perché usare correntemente l’espressione “un’apposita commissione” quando era del tutto sottinteso che “quella commissione”, in quanto nominata ad hoc, era deputata a quel particolare compito e non ad altro? E come commentare il linguaggio burocratico legato alle “domande” e ai “relativi moduli”? Nella pubblica amministrazione la domanda deve farsi sempre usando “moduli all’uopo predisposti secondo l’apposito fax-simile allegato”, dopo avere ovviamente “preso visione” del bando di concorso ed aver verificato quindi di “essere nelle condizioni in possesso delle quali è possibile presentare la domanda stessa”. Attenzione: il modulo non va semplicemente “riempito” ma, sempre, “debitamente riempito”, dove quel “debitamente” sta forse a precisare che potrebbero esservi altri mille modi, anche “indebiti” ma probabilmente validi di riempire un modulo.
[E poi] l’uso davvero cervellotico di tante parole ricercate, desuete, difficili: “erogare” invece di “pagare” – “le pensioni saranno erogate” –, oppure “oblazione” invece di “pagamento”.
Renzo Castelli, Leone Formica ragioniere nel pubblico impiego. Storie di vita e di ordinaria burocrazia, Pisa, Edizioni ETS, 2006, pp. 44-46.