Sono molti e ottimi i motivi istituzionali perché l’attuale legislatura e la vita del presente governo giungano alla loro naturale scadenza, a marzo prossimo.
Nel nominare Mario Draghi presidente del Consiglio nel febbraio 2021, il presidente della Repubblica aveva parlato di «un governo di alto profilo che non deve identificarsi con alcuna formula politica»: dunque, il governo non è legato alla partecipazione del Movimento Cinque Stelle. Ma, anche se così fosse, bisogna ricordare che il M5S ha sostenuto comunque il governo Draghi per un terzo alla Camera e per un settimo al Senato, mentre altri scissionisti si stanno aggiungendo alle schiere di Luigi Di Maio. Del governo Draghi fa parte quest’ultimo, che è uno dei soci fondatori del Movimento, nonché suo ex capo politico (e che il 16 luglio scorso faceva riferimento, sul «Corriere della Sera», al «partito di Conte», rivendicando implicitamente di rappresentare lui il Movimento Cinque Stelle, più di Giuseppe Conte). Chi può dire se la maggioranza del Movimento sta più di qua o più di là? Dunque, la formazione politica, pur non vincolante, è rispettata. È Conte e i suoi che hanno fatto la «itio in partes».
Secondo motivo: in un anno e mezzo di vita, l’attuale governo ha tracciato un programma, che è scritto nelle leggi approvate: ora si tratta di approvare i decreti delegati e gli altri atti esecutivi. Se non vengono adottati, si butta a mare tutto il lavoro svolto in un anno e mezzo, con un grave costo per il Paese e per le stesse forze politiche che si sono adoperate per il programma, compreso il partito di Conte.
Terzo motivo: a quale titolo il presidente della Repubblica potrebbe sciogliere un Parlamento che ha appena ridato la fiducia al governo? Un atto tanto importante, con il quale il capo dello Stato si mette in una posizione superiore all’organo stesso che l’ha scelto, e alla volontà popolare che rappresenta, deve essere fondato su gravi motivi di interesse generale e non personali, e deve essere preceduto dalla consultazione dei presidenti delle due Camere. Ora, la circostanza che si sia operata una scissione in una delle forze politiche che appoggiano il governo non costituisce un grave motivo. Troppi altri governi avrebbero dovuto cadere, nella storia repubblicana, se ad ogni scissione si fosse ricominciato da capo.
L’unica forza di opposizione, per bocca della sua leader, in una intervista molto assennata al «Corriere della Sera» del 16 luglio scorso, ha evocato «la situazione economica e i problemi in arrivo» e invitato a escludere i «provvedimenti divisivi». Giorgia Meloni proponeva di andare subito alle urne, ma, nello stesso tempo, lasciava una porta aperta, invitando (ragionevolmente) a non mettere in programma altri temi contestati, preoccupandosi di realizzare il programma già tracciato dal governo, non quello di questa o quella forza che ne fa parte. Questo è un buon quarto motivo per condurre al termine (ormai vicinissimo) legislatura e governo, tanto più che proviene da una forza politica di opposizione (l’unica), che ha riportato nell’agenda politica il tema della necessaria stabilizzazione del potere esecutivo.
Infine, anche chi è tentato di ritornare alle urne sa che la formazione delle liste dei candidati per il prossimo Parlamento sarà opera difficilissima. In primo luogo, bisognerà fare i conti con un elettorato molto fluido, che può riservare sorprese anche a qualche leader. In secondo luogo, bisognerà tenere conto della riduzione di un terzo del numero dei parlamentari, sacrificando molte aspettative. In terzo luogo, se — come molti leader auspicano — la prossima legislatura dovrebbe essere «costituente» bisognerà ripetere quel che fu fatto in passato da tanti segretari di partito, aggiungendo opportunamente a candidati popolari candidati esperti, perché occorre mandare in Parlamento personale preparato. Quindi, non basta qualche settimana di agosto per comporre le liste. Sarà bene prendere tutto il tempo necessario (dal calendario normale delle elezioni ci separano solo otto mesi).
Resta una obiezione. Le difficoltà derivanti dalla scissione potrebbero domani provenire da altre forze politiche e il governo rimanere in balia di chi tira da una parte e chi tira dall’altra. Ma le difficoltà del percorso che resta da fare possono essere minimizzate se si evita di procedere a colpi di fiducia: i governi hanno bisogno di avere la fiducia una volta sola, all’inizio della loro attività. Possono aiutare minore foga legislativa, una buona programmazione dei lavori parlamentari, più forte presenza del governo in Parlamento, una maggiore attenzione per le proposte dei membri delle Camere.
Scarica QUI l’articolo di Sabino Cassese su Il Corriere della Sera del 19/07/2022