“I sognatori sembravano invecchiati”: la sconfitta della programmazione e dei suoi seguaci nel ricordo amaro di Eugenio Scalfari.

Dalle memorie di Eugenio Scalfari (1924-2022: il libro qui citato è La sera andavamo in via Veneto del 1986), è tratta questa pagina su Giorgio Ruffolo (1926-2023), su Antonio Giolitti (1915-2010) e in genere sui cosiddetti “sognatori” (così li aveva sprezzantemente bollati Fanfani nei primi anni Sessanta), i riformisti che credevano nella programmazione democratica.  Quel sogno – come è noto – si infranse quasi subito, forse già nella fosca crisi del primo governo Moro I, dell’estate 1964 (quella del “rumor di sciabole” di De Lorenzo). Dopo la sofferta formazione del successivo Moro II tutto era cambiato, le riforme diluite nel tempi o rinviate sine die, la composizione stessa dell’esecutivo profondamente modificata. Giolitti, il principale fautore della politica di programmazione, non era più al Ministero del Bilancio e della Programmazione, sostituito dal più “ragionevole” compagno socialista Giovanni Pieraccini; e Ruffolo continuava forse ad illudersi, ma la battaglia da lui ingaggiata era irrimediabilmente perduta o per lo meno  svuotata dei suoi contenuti più radicali. Negli “stanzoni” di via XX Settembre, sede dei ministeri finanziari (non “umbertini” però, come li chiama erroneamente Scalfari nel suo libro, perché il grande Palazzo rettangolare lo aveva fatto erigere il ministro delle Finanze Quintino Sella nei primi anni Settanta dell’Ottocento, subito dopo la conquista di Roma, regnante Vittorio Emanuele II), i riformatori erano ormai isolati e sotto assedio. Come già rivelava la ricognizione puntigliosa degli spazi interni dell’edificio che Scalfari qui ci ricostruisce: ridotti in un’ala marginale del Palazzo, sovrastati dalla potente Ragioneria generale dello Stato, attorniati da una burocrazia in gran parte ostile alle riforme. Dice Scalfari: essi, i “sognatori”, “quando uscivano dalle riunioni con i loro interlocutori, ben più avvezzi a trafficare lo Stato e ricavarne vantaggi, sembravano invecchiati anzitempo”.

Conosco Ruffolo dal 1947. Entrammo a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro alla Banca del Lavoro, io in filiale, lui al servizio studi. (…) Nel periodo centrale del centro-sinistra fu il primo segretario generale alla Programmazione, con La Malfa prima e poi, soprattutto, con Giolitti, con il quale costituì un vero e proprio sodalizio politico e intellettuale. (…).

L’ho visto al lavoro in quegli anni del centro-sinistra nei quali guidò la Programmazione, l’ho visto alle prese con problemi che avrebbero fatto gettare la spugna a chiunque fosse stato meno motivato dall’interesse generale e dalla felice illusione, o speranza, che il reale è razionale, dove razionale non è aggettivo ricavato dalla mera produzione dei fatti ma da un disegno di progresso pensato e attuabile nella realtà. Ho partecipato come testimone interessato e prossimo al suo sodalizio con Giolitti, un personaggio che con Ruffolo aveva in comune alcune qualità e alcuni difetti. E seguendo la loro esperienza, ho assistito al nascere e al rapido declinare di quella esperienza, sicché il destino personale di questi due uomini racchiude emblematicamente la parabola d’una politica e d’un progetto.

Me li ricordo in quegli stanzoni umbertini del palazzo delle Finanze, in via XX Settembre, dove aveva sede il ministero del Bilancio e della Programmazione. Nell’ala sinistra dell’immenso casermone c’erano loro, con tutto il gruppo dei professori, dei consulenti, dei “sognatori”; all’ala destra c’erano le stanze del ministro del Tesoro, che in quegli anni fu quasi sempre Emilio Colombo. Al piano superiore la Ragioneria generale dello Stato. E nei lunghissimi corridoi del palazzo la selva dei ministeriali, dei funzionari, restia ad ogni stimolo, vecchia, governata da norme e procedure che sapevano di muffa e di polvere.

Eugenio Scalfari, La sera andavamo in via Veneto. Storia di un gruppo dal “Mondo” alla “Repubblica”, Milano, Mondadori, 1986, pp. 235-236.