Franz Werfel, scrittore, drammaturgo, poeta (Praga, 1890-Los Angeles, 1945), è, tra tante opere, anche l’autore di un emozionante racconto, Una scrittura femminile azzurro pallido, nel quale il protagonista, Leonida, alto funzionario nella Vienna austro-ungarica, routine professionale ineccepibile (è capodivisione al Ministero per il Culto e l’Istruzione), tranquilla vita coniugale (è sposato con una figlia dell’alta borghesia viennese), riceve una mattina in ufficio una lettera che lo sconvolge: ne riconosce infatti la scrittura per quella di un vecchio amore di gioventù faticosamente cancellato dalla sua memoria. La donna, ebrea (il particolare avrà nella storia una sua importanza: il libro è del 1941) chiede, all’amante del tempo che fu, di aiutare un giovane diciottenne alle prime armi, che egli sospetta subito possa essere il figlio frutto di quell’antico loro rapporto. In questo passo però la vicenda principale sta sullo sfondo: Werfel piuttosto vi descrive Leonida nel suo ufficio, cogliendone i tratti tipici dell’alto burocrate nel suo quotidiano rapporto coi ministri, cioè con la politica. Con essi Leonida collabora fedelmente in nome del dovere di Stato, ma nell’intimo li disprezza essendo lui, l’alto funzionario, il vero padrone delle pratiche: l’unico in definitiva capace di padroneggiare “l’arte del governo”.
Come tutti i funzionari dello Stato di grado elevato (…) non teneva i signori ministri in particolare considerazione. Questi ultimi cambiavano di continuo, infatti, in base ai giochi di forza politici, mentre lui no, lui e i suoi colleghi restavano al loro posto. I ministri, portati alle stelle dai partiti per poi essere spazzati via da questi stessi partiti, somigliavano perlopiù a poveri naufraghi aggrappati disperatamente alle zattere del potere. Non avevano né la giusta visione per comprendere i labirintici iter del lavoro ministeriale né la giusta sensibilità per la burocrazia fine a sé stessa. Nella stragrande maggioranza dei casi erano uomini rozzi e mediocri (…). Leonida e quelli come lui avevano imparato l’arte del governo né più né meno come i musicisti imparano il contrappunto esercitandosi per anni con scrupolo indefesso. Possedevano una squisita e raffinata sensibilità per le mille sfumature dell’organizzazione e della decisione. I ministri non erano altro (ai loro occhi) che fantocci politici, anche se (…) assumevano atteggiamenti quanto mai dittatoriali. Loro comunque, i capidivisione, proiettavano la loro ombra di stabilità su questi tiranni. Quale che fosse la risciacquatura politica degli uffici che dirigevano, non veniva mai meno la sicura efficacia del loro comando. Di loro c’era bisogno, questo era il fatto. Alteri e arroganti come mandarini, era abitudine dei funzionari starsene modestamente in disparte. Disprezzavano le esibizioni, i giornali, la pubblicità dei politici, da essi ritenuti eroi di una sola stagione.
Werfel, Una scrittura femminile azzurro pallido, trad. Milano, Adelphi, 1998, pp. 60 ss.