Mario Bracci (Siena, 1900-1959) è stato uno dei più importanti giuristi italiani del Novecento. Ha insegnato da giovane a Sassari (diritto costituzionale), poi a Siena (diritto amministrativo, nell’università della quale sarebbe stato anche più tardi rettore). Ha scritto opere rilevanti. Caduto il fascismo, nel 1944 aderì al Partito d’azione, facendo parte della Consulta nazionale e poi del primo dei governi De Gasperi (1945-46) come ministro del Commercio con l’estero. Nel periodo del referendum istituzionale concorse fattivamente con la sua discreta consulenza giuridica a sciogliere il nodo della transizione prospettando la soluzione di conferire al presidente del Consiglio in carica (De Gasperi) l’esercizio delle funzioni del presidente della Repubblica (che doveva ancora essere eletto). Scioltosi nel 1947 il Partito d’azione, aderì al Partito socialista. Nel 1955 fu eletto dal Parlamento membro della Corte costituzionale. In questo brano, nel rispondere a un questionario propostogli dalla rivista dell’amico Piero Calamandrei “Il Ponte”, Bracci individua due temi critici: l’ingerenza dei partiti e la loro pressione sui ministri; e il pullulare di quelle che chiama “segreterie politiche”, create per gestire i rapporti con gli elettori, ma che ben presto saranno i potenti gabinetti dell’età repubblicana.
Io penso che un uomo di parte, chiamato ad assumere funzioni di governo, debba tenere conto del proprio partito soprattutto per attingervi quel complesso di idee generali che debbon servire agli interessi di tutto il popolo, secondo gli orientamenti programmatici della tendenza politica alla quale il ministro appartiene. Accade invece che il partito, conquistato uno o più ministeri, chieda, anzi pretenda,, dal suo uomo di governo, soprattutto la difesa dei propri interessi da quelli generali dell’organizzazione politica a quelli modestissimi e pratici di ogni Pinco Pallino che, avendo in tasca la stessa tessera del ministro, creda di aver diritto, per questo, al gratuito patrocinio ministeriale. E poiché il ministro sa che, se egli non si uniforma a questo costume, il partito gli negherà qualità politiche e gli elettori lo pianteranno in asso, ecco che le anticamere si affollano di postulanti venuti da ogni parte del paese in paziente attesa all’udienza ministeriale che sarà concessa, magari, alle tre del pomeriggio, da un ministro stanco e affamato, ed ecco che sorgono poderose segreterie particolari, con schedari e protocolli, inesauribili fucine di fastidiosissimo lavoro di prevalente interesse privato. Queste ore preziose sono in tal modo perdute ogni giorno per il governo e per l’amministrazione. Qui c’è poco da fare: ma le direzioni dei partiti potrebbero e dovrebbero gelosamente difendere i loro ministri, che hanno soprattutto bisogno di essere lasciati in pace.
Mario Bracci, Perché i Ministeri non funzionano?, in “Il Ponte”, gennaio 1947, pp. 30-40, ora in Id., Testimonianze del proprio tempo. Meditazioni, lettere, scritti politici (1943-1958), a cura di E. Balocchi e G. Grottanelli de’Santi, introduzione di R. Vivarelli, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 221-230. La cit. è alle pp. 221-222.