Guido Carli (1914-1993), banchiere, presidente di Mediocredito dal 1953 al 1956, ministro del commercio estero nel 1956-58, poi direttore generale quindi governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, senatore Dc, ministro del Tesoro nel 1989-92, è stato, oltreché un protagonista, uno dei più acuti interpreti delle virtù e dei vizi dell’Italia del dopoguerra. In questo brano coglie una delle specificità in negativo del caso italiano: la storica estraneità degli imprenditori rispetto allo Stato.
Gli imprenditori italiani non hanno mai considerato lo Stato come un’organizzazione sociale di cui essi fossero direttamente responsabili, sia pure assieme agli altri gruppi sociali che compongono la comunità. Questo è stato probabilmente un vizio di origine, molto grave, al quale rimontano non pochi dei mali e delle strutturali debolezze dei quali soffriamo. Gli industriali dell’Inghilterra vittoriana consideravano lo Stato come un’organizzazione politica che li riguardava direttamente: davano i loro figli all’esercito, alla marina, all’amministrazione coloniale, alla Camera dei Comuni, al governo. Non erano certo dei filantropi, lo sappiamo fin troppo bene. Facevano il loro mestiere e i loro interessi; e tra quegli interessi rientrava anche quello che lo Stato fosse forte e avesse la loro impronta. Infatti l’aveva.
Se guardo alla storia di questo nostro paese, dall’Unità in poi, trovo che l’identità tra un certo gruppo economicamente individuabile e la classe di governo ci fu soltanto per un breve periodo iniziale, dal 1861 al 1876, cioè alla caduta della Destra. In quel periodo la maggioranza parlamentare, il governo, l’amministrazione, furono largamente formati dal gruppo dei proprietari fondiari. I limiti di quella identificazione di classe erano evidenti, ed infatti il sistema resse poco. Ma fino a quando resse, fino a quando i proprietari fondiari identificarono lo Stato con i loro stessi interessi, essi adempirono scrupolosamente i loro doveri verso di esso: per esempio il loro dovere fiscale, che è l’esempio massimo per giudicare se una classe dirigente ha o non ha spirito civico (…).
Concludo che gli industriali italiani, e più in generale i ceti imprenditoriali, non si sono mai considerati a pieno titolo membri dell’establishment, membri della classe governante. In alcuni occasioni, è vero, la classe di governo ha reso corposi servizi agli uomini e ai ceti che detenevano il potere economico, ma mantenendo sempre ben ferma la sostanziale divisione di compiti e di ruoli. Interesse dei ceti imprenditoriali era soprattutto che lo Stato aiutasse i loro affari, ma è mancata l’identificazione. Un imprenditore sentiva e sente i suoi doveri di «servizio» nei confronti dell’azienda, ma non sentiva e non sente con la stessa intensità i suoi doveri di servizio verso lo Stato. Infatti non ha mai fornito personale politico, come invece avviene comunemente in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Francia, in Germania.
Guido Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di Eugenio Scalfari, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 71-73.