Con l’approvazione definitiva, il 6 agosto 2019, del disegno di legge “Deleghe al Governo e altre disposizioni in materia di ordinamento sportivo, di professioni sportive nonché di semplificazione”, l’Italia rischia di aggiungersi ai pochi Paesi – come Iraq e Kuwait – fino ad oggi “sospesi” dal Comitato internazionale olimpico (CIO) per violazione della Carta olimpica e dei principi fondamentali dell’olimpismo.
Alla base del movimento olimpico vi è l’autonomia dello sport e delle sue istituzioni rispetto a qualsiasi ingerenza politica, soprattutto da parte dei Governi. È un principio cardine dell’ordinamento sportivo internazionale, che la nuova legge italiana non pare rispettare.
L’ordinamento sportivo mondiale è oggi un apparato articolato e complesso, formatosi attorno alle Olimpiadi a partire dalla fine del XIX secolo. Con a vertice il CIO, esso è fondato su due gruppi di organismi, le federazioni sportive internazionali e i comitati olimpici nazionali. In entrambi i casi, vige un regime “monopolistico” in base al quale il CIO riconosce una sola federazione per ciascuno sport e un solo comitato nazionale per ciascun Paese. Associate ad ogni federazione internazionale, vi sono le federazioni nazionali (anche in questo caso secondo il principio del monopolio).
Questo apparato si presenta come una “rete” di piramidi multiple: oltre alla piramide CIO-comitati olimpici, vi sono tante piramidi quante sono le federazioni a livello internazionale (ossia all’incirca un centinaio); le piramidi, inoltre, sono tra loro collegate da molteplici rapporti organizzativi, verticali e orizzontali. Negli ultimi trenta-quaranta anni, infatti, sono stati creati enti misti pubblico/privato a livello mondiale, come la Agenzia mondiale anti-doping (WADA); sono proliferati gli organi nazionali operanti in funzione di istituzioni internazionali; è stato istituito un Tribunale arbitrale internazionale dello sport (TAS), che ha avuto e tutt’ora ha un ruolo fondamentale nel garantire una uniforme applicazione delle norme sportive globali.
Di fronte a tale quadro, immaginare che uno Stato possa riorganizzare in solitudine e d’imperio le istituzioni sportive, come previsto dalla nuova legge italiana di delega sullo sport, non è soltanto errato sul piano giuridico, ma è addirittura utopistico. A meno che l’intento non sia quello di far uscire l’Italia dal movimento olimpico e di creare un regime autarchico di gare e tornei solo tra italiani, con effetti surreali non dissimili da quelli giustamente subiti dal Sud Africa durante il periodo buio dell’apartheid.
Ma in cosa è sbagliata la nuova legge delega sullo sport?
Gli errori sono molti, come del resto ha osservato lo stesso CIO in una lettera al Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), i cui contenuti non sono stati purtroppo tenuti in minima considerazione dal Governo. Alcuni commentatori, come Sabino Cassese, hanno anche rilevato profili di illegittimità costituzionale della legge.
La questione è semplice. A differenza di quanto avvenuto in passato, quando il legislatore italiano aveva sempre ribadito la conformità delle norme sul CONI, e sullo sport in genere, ai principi dell’ordinamento sportivo internazionale, questa volta è previsto un riordino solo dall’alto, con uno o più decreti legislativi emanati dal Governo. Così facendo, l’organizzazione dello sport in Italia è interamente rimessa alle scelte del Governo ed è sostanzialmente “assorbita” – per usare la terminologia di Massimo Severo Giannini – nell’ordinamento statale; il che è in palese violazione con le regole della Carta olimpica che presuppongono autonomia e indipendenza dello sport da qualsiasi ingerenza politica.
L’oggetto della delega, del resto, è “il riordino del CONI e della disciplina di settore”, senza alcun riferimento all’ordinamento sportivo internazionale. I principi e criteri direttivi, raccolti in 12 lettere, sono dello stesso tenore. Fatto salvo un generico richiamo alla missione del CONI in conformità alla Carta olimpica (lettera e), negli altri casi sono previsti interventi molto pesanti sull’organizzazione sportiva, senza alcun richiamo alla disciplina internazionale o alla logica associativa alla base del movimento olimpico e dello sport. Nelle lettere d), i), l) e m), su cui il CIO ha giustamente richiamato l’attenzione del Governo italiano, si giunge a regolare unilateralmente, per esempio, gli ambiti dell’attività del CONI, delle federazioni sportive nazionali, delle discipline sportive associate, degli enti di promozione sportiva, dei gruppi sportivi militari e dei corpi civili dello Stato e delle associazioni benemerite, così come l’articolazione territoriale del CONI o la disciplina in materia di limiti al rinnovo dei mandati dei suoi organi.
Parlamento e Governo hanno quindi scelto di riorganizzare lo sport italiano non tenendo conto del fatto che le istituzioni sportive sono oramai ovunque regolate, da oltre un secolo, da un sistema ultrastatale di norme e procedure divenute sempre più sofisticate. Un sistema la cui autonomia è stata sempre riconosciuta da tutti gli ordinamenti: non solo quello italiano – da ultimo con le due sentenze della Corte costituzionale n. 49 del 2011 e n. 160 del 2019 – ma anche, per esempio, quello statunitense – che nella vicenda del doping di Lance Armstrong ha rinunciato a intervenire con i propri giudici in attesa che la giustizia sportiva facesse il suo corso (Lance Armstrong v. Tygart and USADA, US Federal District Court for Western Texas, Order of August 20, 2012).
Purtroppo, la legge in questione è la conferma di una tendenza già manifestatasi in occasione della scorsa legge di bilancio (legge n. 145 del 2018), quando il Governo ha di fatto preso il controllo delle risorse finanziarie del sistema CONI.
Bisogna riconoscere, è vero, che il CONI è sempre stato un caso particolare nell’ambito dei comitati olimpici nazionali, organismi per i quali la Carta olimpica prevede numerose disposizioni tese a garantirne l’indipendenza dai rispettivi governi, con relative sanzioni. Ulteriore modalità per assicurare l’indipendenza dei comitati olimpici nazionali è poi proprio la leva finanziaria. Così, al fine di incrementare il numero di comitati che possano operare al di fuori di ingerenze politiche, il CIO ha sviluppato il programma “Olympic Solidariety”, finalizzato a distribuire tra i comitati nazionali gli introiti provenienti dai diritti radiotelevisivi e dalle attività di marketing riguardanti i giochi olimpici.
In particolare, il grado di autonomia politica e finanziaria raggiunta dai comitati nazionali consente di distinguere, tra i 206 comitati costituiti, due principali categorie.
Nella prima, vi sono quelli che godono di forte indipendenza dal governo del proprio rispettivo Paese. Si tratta di circa una cinquantina di comitati, tra cui quelli di Australia, Brasile, Canada, Francia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti.
Nella seconda categoria, vi sono comitati incorporati nei rispettivi governi nazionali a livello sia politico, sia finanziario: si tratta, in realtà, della maggior parte dei Paesi (specialmente in Africa, Asia e Sud-America, dove spesso il ministro dello sport è anche presidente del comitato). In base alla Carta olimpica, questa situazione — che non offre adeguate garanzie circa l’indipendenza politica dei comitati — non potrebbe essere ammessa dal CIO. I rimedi sono quindi due: 1) si usa il programma di solidarietà olimpica che ha, tra le sue finalità, anche quella di consentire lo sviluppo di comitati nazionali autonomi dalla politica; 2) nelle ipotesi più gravi di interferenza da parte dei governi, il CIO può anche decidere di intervenire con misure sospensive o sanzionatorie (come avvenuto, proprio per ingerenze politiche, per l’Iraq nel 2008 o per il Kuwait nel 2010; nel caso della Russia, nel 2017, la questione riguardava la più complessa vicenda dei controlli anti-doping).
In tale contesto, il CONI – pur con le sue peculiarità – è sempre stato inserito tra i comitati della prima categoria e in passato ha saputo anche mostrare forte autonomia rispetto alle scelte di governo (basti ricordare l’invio di atleti italiani alle Olimpiadi di Mosca nel 1980). Il CONI, infatti, se, da un lato, ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è sottoposto alla vigilanza del Governo, dall’altro lato, però, “svolge le proprie funzioni e i propri compiti con autonomia e indipendenza di giudizio e di valutazione, in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del CIO”.
La nuova legge – unitamente con le norme dell’ultima legge di bilancio – porta invece indietro l’Italia di decenni e la avvicina ai Paesi in cui le istituzioni sportive non hanno ancora potuto raggiungere piena autonomia.
Quali rimedi allora?
Se si prescinde dai profili di legittimità costituzionale, il primo rimedio, auspicabile e più coerente con l’ordinamento sportivo internazionale, sarebbe semplicemente quello di non esercitare la delega e lasciarla cadere. Il secondo rimedio sarebbe quello di modificare la legge delega nel senso suggerito dal CIO, magari usando quale “veicolo” la legge olimpica per Milano-Cortina 2026, in fase di preparazione. Il terzo rimedio, meno verosimile, sarebbe quello di attuare la delega assicurando la massima partecipazione del CIO, del CONI e delle istituzioni sportive alla stesura delle norme.
In conclusione, le vicende della legge delega sullo sport confermano che oramai, in Italia, vige un Governo autarchico, impermeabile al dialogo con le istituzioni ultrastatali e colpevolmente non curante delle norme internazionali. Sono atteggiamenti che, la storia insegna, difficilmente producono buoni frutti. E, in questo caso, rischiano di estromettere l’Italia da tutte le competizioni sportive internazionali.
Professore ordinario di diritto amministrativo nella
Scuola IMT Alti studi di Lucca e presidente dell’IRPA