La morte di un amico, quando è un amico vero, è sempre una catastrofe perché chiude un’epoca della tua vita e interrompe un dialogo di anni, e ti dà una coltellata dolorosa nella sfera più intima degli affetti.
Conoscevo Enrico Gustapane sin dagli ultimi anni Settanta, quando incontrai anche il mio maestro Sabino Cassese e presi a frequentare il suo studio, allora nascosto in un seminterrato di via Tommaso Salvini ai Parioli. Con Sabino si parlava delle ricerche (le mie e le sue) e degli studi sulla burocrazia, sui ministeri, sull’élite dei grandi imprenditori pubblici e su molto altro.
Una sera, recandomi a uno di quegli appuntamenti per me ricchissimi di suggerimenti e di stimoli, Sabino mi presentò un suo amico.
Era il consigliere della Corte dei conti Enrico Gustapane.
Leccese, erede di una famiglia di magistrati, era stato da giovane in prefettura e poi, vinto il concorso, era magistrato apprezzatissimo alla Corte. Conosceva a menadito la biblioteca della Corte stessa, e già questo per me fu una chance formidabile perché frequentai anche io da allora quella prestigiosa istituzione, allora diretta dal giovanissimo consigliere Gaetano D’Auria.
Ma soprattutto, pur giurista sopraffino qual era, si interessava di storia: collezionava antichi testi rintracciati col suo fiuto ineguagliabile nelle bancarelle dei libri usati e nelle librerie antiquarie; studiava in particolare la storia dei prefetti; sapeva che la storia la si fa innanzitutto negli archivi, dove per così dire si forma; e lui lì lo trovavi, nelle rare pause del suo lavoro alla Corte, immerso nei grandi faldoni polverosi dell’Archivio centrale dello Stato.
Fu amore a prima vista. Chiacchierammo con Sabino a lungo ma poi istituimmo anche un rapporto personale: a Roma per le mie ricerche, gli telefonavo e andavo a trovarlo nella sua bella casa di Prati, dove conobbi la deliziosa sua compagna Mimì (che amabilmente lo prendeva in giro, lei estroversa, sportiva, aperta alle emozioni; lui compassato, servitore dello Stato senza macchia, persino ingessato: vestiva rigorosamente di grigio, non un capello fuori posto, gesti misurati, voce altrettanto calibrata).
Passavamo interi pomeriggi a parlare delle rispettive ricerche, e alla fine Minì mi invitava a cena (non ho nulla da offrirti, mi diceva: e poi invece era una cuoca perfetta). Amici intimi insomma. Se dovevo decidere qualcosa, fosse nel campo degli studi o in quello vastissimo dei miei comportamenti di giovane accademico, era a Enrico che mi rivolgevo. E i suoi consigli saggi, la sua visione della vita limpida, mi aiutavano sempre a sciogliere i problemi. Quei primi anni venne anche a Sassari, dove io cominciavo la mia carriera universitaria, in un convegnetto dove venne anche Sabino e con loro alcuni dei migliori prefetti della Repubblica.
Di lì nacque la mia consuetudine con questi servitori dello Stato, specie la mia collaborazione con la loro Scuola, costruita nella più bella campagna romana. Da lì si formò una rete di amicizie, tra le quali quella con Claudio Meoli, che in quella Scuola mi introdusse, e poi con Carlo Mosca, col quale ebbi una amicizia più tardiva ma altrettanto preziosa di quella con Enrico. Lui intanto scriveva.
Insieme, su sollecitazione di Sabino Cassese, andammo a Parigi al Conseil d’Etat, a parlare del concetto del merito nei concorsi per la pubblica amministrazione in Europa; insieme studiammo i fascicoli personali dei prefetti.
A un. certo punto mi chiese un colloquio e mi esibì trionfante un mucchio di carte in fotocopia: era nientemeno che il fascicolo personale di Giolitti quando questi, non ancora il Giolitti che sappiamo, lavorava come consigliere alla Corte dei conti. Un inedito assoluto. E lui ne trasse un articolo mirabile, che aggiungeva molto alla biografia giolittiana. Trovò un altro scartafaccio in archivio: ed era un quaderno nel quale da Crispi in poi i ministri avevano per così dire dati i voti ai prefetti, riportandone dati essenziali e giudizi anche spregiudicatissimi sulle loro qualità o spesso sulle loro manchevolezze. Trascurato dai più, lui non so come lo aveva trovato, e lo pubblicò sotto l’egida di Cassese nella Rivista trimestrale di diritto pubblico.
E poi c’era la lezione morale, l’etica di Enrico. Racconto solo un episodio del quale sono stato testimone: alla fine degli anni Ottanta il presidente dell’Inps Militello ci chiama, lui, io e un altro indimenticabile studioso lo storico economico Franco Bonelli, per una maxi-ricerca avente per oggetti le remote origini della previdenza in Italia, la Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e vecchiaia degli operai, progenitrice lontana dell’Inps. Siamo a un tavolo ovale, in un bellissimo studio mega-presidenziale. Accanto a noi il gotha degli attuari, degli economisti, degli esperti di pensioni, un grande sociologo. Inizia la riunione e vengono determinati i compiti di ciascuno. Ognuno scriverà un saggio. Militello propone un compenso: 11 milioni a testa. Io ho un sobbalzo (lo avrei avuto anche oggi, ma figurarsi allora, coi bambini piccoli e le spese per la navetta Sassari-Roma che mi dovevo sobbarcare se volevo studiare in archivio). Tutti acconsentono. Alcuni addirittura chiedendo, in sovrappiù, le spese di viaggio. Enrico chiede la parola. E dice: “Presidente, io La ringrazio, ma il mio lavoro mi impedisce di accettare il compenso. Io farò la ricerca totalmente gratis”. Militello è senza parole: “Ma dottor Gustapane, guardi che l’Ufficio legale ha controllato. Lei non è tra i consiglieri della Corte investiti da compiti di controllo dell’Inps. Ci sono dei precedenti. Può stare tranquillo”. E Enrico, calmo, quasi con la dolcezza che gli era propria: “Mi spiace, ma io rispondo a me stesso. Faccio il lavoro ma senza essere pagato”.
Devo dire che ho ormai molti anni di esperienza alle spalle, e ho conosciuto nella mia vita tre facoltà diverse, la Scuola superiore dell’amministrazione, i magistrati che fanno lezione alla Scuola della magistratura, moltissimi gruppi di ricerca pubblici e privati: mai, dico mai, ho trovato qualcuno che si comportasse come Enrico. “Non si sa mai, Guido – mi disse poi vis-à-vis – potrei, un. domani lontano, dover giudicare i conti dell’Inps. E voglio essere libero”.
Così era fatto Enrico. Forse per questo alla Corte, dove aveva intrecciato amicizie profonde con esimi magistrati, c’era qualcuno. che ne diffidava, e magari anche lo prendeva un po’ in giro. “Sì, Gustapane – mi disse una volta un suo collega che non nomino (né mai glielo ho detto) – se vuoi sapere l’ora di inizio lavori alla Corte basta che ascolti i suoi passi calibrati nel corridoio: lui arriva sempre un quarto d’ora prima”. Un orologio svizzero, una macchina perfetta per redigere e controllare gli atti, un uomo colto però, innamorato della storia.
E la storia, la storia dell’amministrazione in particolare, fu la nostra comune innamorata, il terreno sul quale nacque la nostra bella amicizia.
Caro Enrico. Aveva avuto da vecchio un sacco di guai, compresa l’amputazione di una gamba che lo costringeva in sedia a rotelle. “Sai qual è il mio cruccio? – mi disse una delle ultime volte che vi vedemmo – Che devo disturbare Mimì se voglio un libro che sta in alto nello scaffale, perché io non ci arrivo”. Quei libri, i segni a matita da lui lasciati, le rilegature con le quali li aveva preservati dalla consunzione del tempo sono quanto ci resta di lui. Insieme ai suoi scritti, naturalmente. Ma anche a qualcos’altro che non si può dire a chi non lo ha conosciuto.
C’è una frase famosa del poeta spagnolo Antonio Machado che ho imparato da ragazzo e che mi è venuta in mente scrivendo queste poche righe. Dice così: “La monetina della vita si perde se non si dà”. Ecco caro Enrico, la monetina della tua vita tu non l’hai sprecata.