“Je suis Achbita”

Pubblichiamo in esclusiva la versione in italiano di J.H.H. Weiler, Je suis Achbita, uscito nella Rivista trimestrale di diritto pubblico (4/2018),  L’articolo in .pdf è disponibile qui. L’originale inglese è su EJIL: Talk!

 

JE SUIS ACHBITA

J.H.H. Weiler

 

Sommario: 1. Da Samira a Chaya — 2. Inquadramento della fattispecie. — 3. Un breve excursus teologico e sociologico. — 4. Proporzionalità. — 5. Neutralità. — 6. Discriminazione diretta o indiretta? — 7. Da Chaya a Samira.

 

1. Il caso Achbita, deciso dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nel marzo del 2017, senza dubbio non è una vicenda di ordinaria amministrazione (1)​. La fattispecie solleva questioni giuridiche molto complesse. Inoltre, essa si inserisce in un momento storico particolarmente delicato per la vita politico-sociale europea, in cui la stessa Corte di Giustizia ha assunto un ruolo determinante nella definizione dell’identità etica e culturale in Europa e dell’Europa. Ciò nonostante, la pronuncia pregiudiziale adottata dai giudici del Lussemburgo su rinvio del giudice belga non rispecchia quanto ci si potrebbe attendere da una Corte suprema in un caso del genere.

Il fatto riguarda Samira Achbita, una lavoratrice musulmana in Belgio, a cui il proprio datore di lavoro, in nome di una policy aziendale improntata alla neutralità, aveva imposto di non indossare lo hijab (un tipo di velo islamico che ottempera alle norme minime di copertura delle donne, lasciando scoperto il volto). La donna, che si era rifiutata di adempiere a questa prescrizione, era poi stata licenziata.

La lettura del dispositivo trasmesso al giudice belga mostra che la Corte — oltre a chiedere di controllare se l’impresa, senza un aggravio eccessivo, potesse o meno destinare la lavoratrice a un’altra mansione che non comportasse il contatto con il pubblico — non ha avuto particolari difficoltà nel giudicare la policy aziendale legittima ai sensi della normativa europea, nonché rispettosa dei diritti umani, come previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Per le ragioni illustrate più avanti, il caso è qui presentato attraverso una ricostruzione dei fatti leggermente diversa.

Chaya Levi vive ad Anversa, fa parte della comunità chassidica della propria città e, come molti altri membri della sua congregazione, segue rigorosamente le prescrizioni dell’ebraismo più tradizionale. Anzi, taluni si riferirebbero a lei come a un’esponente ultra-ortodossa. Chaya lavora come receptionist in una società di servizi, che, tra le altre cose, offre assistenza sia nel settore pubblico, sia in ambito privato. Nell’esercizio delle sue mansioni, la signora Levi entra stabilmente in contatto con la clientela e ha sempre svolto egregiamente il proprio lavoro. Chaya Levi si innamora e sposa Moses Cohen, un membro della sua comunità, per cui, secondo la legge ebraica, d’ora in avanti, dovrà indossare un velo — non molto diverso da quello islamico — che copra i capelli e che ha l’effetto di indicare chiaramente la sua appartenenza alla religione ebraica.

Immediatamente, i suoi superiori le comunicano che, in base alle consolidate regole interne della società, quel tipo di velo non può essere liberamente indossato, dal momento che l’approccio neutrale adottato dalla compagnia vieta l’ostensione di simboli politici, filosofici e religiosi (2).

Chaya Levi in Cohen si rifiuta di togliere il velo e viene licenziata. Presenta dunque ricorso al giudice belga competente, il quale, per risolvere la questione, decide di sollevare di fronte alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale di interpretazione con riferimento alla Direttiva 2000/78/Ce (3). La Direttiva, al considerando 1, fa esplicito riferimento alle libertà fondamentali protette dalla Cedu. L’art. 9 della Convenzione tutela la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, salvaguardando, in particolare, il diritto di manifestare il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.

In proposito, la Corte di giustizia sottolinea che quelle stesse libertà sono garantite anche dall’art. 10, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Al riguardo, i riferimenti alla Cedu e alla Carta di Nizza sono fondamentali, perché, sebbene la Direttiva si riferisca apertamente solo al concetto di non-discriminazione, la Convenzione e la Carta, invece, rimandano più ampiamente all’esercizio della libertà religiosa ed entrambi questi principi assumo rilievo nella decisione Achbita.

2. La Corte di Cassazione belga, in una pronuncia citata in modo adesivo dalla stessa Corte di giustizia «[…] ha notato che […] è pacifico che [Chaya Cohen] non è stata licenziata per la sua fede [ebraica], ma per il fatto che ha insistito nel volerla manifestare, in maniera visibile, durante l’orario di lavoro, indossando il velo [ebraico]» (4).

Il primo grande problema dell’impostazione adottata dalla Corte di giustizia in questa decisione, dunque, riguarda proprio l’inquadramento della fattispecie.

Sul punto, si possono considerare due variazioni della ricostruzione compiuta dalla Corte.

Prima variazione: Chaya Cohen, in aggiunta al velo, indossa anche un pendaglio a forma di «stella di Davide».

Seconda variazione: anche Moses Cohen lavora nella stessa azienda. Abitualmente egli indossa una collana con la stella di Davide, porta una kippah (il copricapo correntemente impiegato dagli ebrei osservanti maschi, in segno di rispetto verso Dio) e ha lunghi riccioli ai lati del viso, proprio come prescrive la legge ebraica (è frequente incontrare uomini simili, per esempio, negli aeroporti).

Informati della policy aziendale relativa all’ostensione di simboli ideologici e religiosi in pubblico durante l’orario di lavoro, entrambi i dipendenti si rendono immediatamente disponibili a rimuovere la stella di Davide, che è tradizionalmente riconosciuta come un segno chiaro e univoco dell’appartenenza alla religione ebraica. Moses propone, altresì, di indossare un cappello e di nascondere i propri riccioli dietro le orecchie. I suoi superiori, però, restano perplessi: chi potrebbe mai indossare un copricapo all’interno di un edificio, se non un ebreo? Anche questa pratica sarebbe vista come un chiaro segno della sua appartenenza religiosa e dunque si porrebbe in contrasto con le regole stabilite dalla compagnia. I suoi riccioli, a quanto pare, sono troppo lunghi e, purtroppo, ancora troppo visibili: occorrerebbe tagliarli per uniformarsi alle prescrizioni aziendali e non essere licenziati.

Ad ogni modo, Moses e Chaya provano a spiegare che indossando il velo e la kippah oppure sistemando i riccioli in un certo modo non intendono affatto manifestare il proprio credo: la stella di Davide può essere rimossa in un batter d’occhi, ma, attraverso la kippah e il velo, entrambi stanno praticando la propria fede. Secondo il diritto ebraico, che per loro deve prevalere — quelle horreur — anche sul diritto europeo, non hanno altra scelta.

Vi è del resto una sostanziale differenza fenomenologica tra il desiderio di manifestare la propria identità religiosa e la volontà di osservare i precetti della propria fede mettendo in pratica certi comportamenti o — in altri termini — tra il proibire a qualcuno di esprimere la sua identità religiosa e il costringerlo deliberatamente a violare alcune norme che questi considera sacre.

Due esempi che possono contribuire a chiarire questa distinzione sono i seguenti. Una cosa è chiedere a un vegetariano o a un vegano di non esibire durante le ore di lavoro una spilla sul bavero della giacca che testimoni il suo sostegno per i diritti degli animali; altra è è costringerlo a mangiare carne. Analogamente, una cosa è chiedere a un omosessuale di non indossare una sciarpa colore arcobaleno; un’altra è obbligarlo ad astenersi dall’avere relazioni con persone del suo stesso sesso.

Ne consegue che la considerazione di fondo formulata dal giudice belga e su cui la stessa Corte di giustizia basa la propria decisione non dovrebbe essere: «[Chaya Cohen] non è stata licenziata per la sua fede [ebraica], ma per il fatto che seguitasse a manifestarla, in maniera visibile, durante l’orario di lavoro, indossando il velo [ebraico]», bensì, in termini leggermente diversi, «[Chaya Cohen] è stata licenziata proprio a motivo della sua fede [ebraica], una fede che si manifesta necessariamente anche attraverso un corpus normativo—un nomos che (per lo sconcerto di qualcuno) impone alle donne di indossare il velo una volta sposate».

In altri termini, «[Chaya Cohen] è stata licenziata non tanto perché ha sempre voluto manifestare apertamente il proprio credo durante le ore di lavoro indossando il velo [ebraico], ma perché ha sempre rispettato ciò che lei stessa, in quanto donna adulta e consapevole — o suo marito (nella seconda variazione del nostro caso), in quanto uomo adulto e consapevole — riteneva essere un obbligo imposto da norme religiose, nate da un patto eterno, al quale ella ha liberamente deciso di rimanere fedele, come espressione di un dovere di lealtà e amore nei confronti dell’Onnipotente».

Innanzitutto, Moses indossa la kippah anche quando si trova da solo in casa: a chi sta manifestando il proprio credo in questo caso? «A Dio», sarebbe l’unica risposta sensata. Qualcuno, però, potrebbe filosoficamente eccepire — riproponendo in parte il dibattito relativo agli effetti e agli scopi del diritto del commercio internazionale — che Chaya non sia stata licenziata a causa della propria fede, ma semplicemente in applicazione della politica di neutralità abbracciata dalla sua azienda. In un caso simile, però, sollevare un’obiezione di questo tipo sarebbe come tentare di «spaccare un capello in quattro». Se, per esempio, la facoltà di legge della Columbia University avesse adottato questo stesso approccio, avrebbe dovuto vietare l’insegnamento anche allo stimatissimo Professor Lou Henkin, uno dei padri fondatori del diritto internazionale umanitario. Henkin mai avrebbe accettato di togliersi la kippah e se gli aveste domandato come mai avesse perso il lavoro, molto probabilmente vi avrebbe risposto: «A causa della mia fede, perché sono un ebreo osservante». E se, per ipotesi, anche l’Unione europea applicasse il medesimo concetto di “neutralità” nei confronti degli avvocati abilitati a patrocinare nelle cause incardinate di fronte alla Corte di giustizia, l’insigne giurista britannica Shaheed Fatima QC resterebbe esclusa, continuerebbe a indossare il proprio hijab e la sua esclusione sarebbe dovuta all’osservanza dei precetti islamici: «Non posso comparire di fronte a questa Corte» — vi direbbe verosimilmente — «perché sono una musulmana praticante».

Shaheed Fatima QC

Nota bene: tutto ciò significa forse che, ritenendo legittimo il licenziamento di Chaya come receptionist, la Corte ha sicuramente sbagliato (5)?

Non necessariamente. Ma la distinzione qui posta in evidenza produce due conseguenze giuridiche rilevanti. In definitiva, in questa sentenza, la Corte di giustizia, ricorrendo al consueto giudizio di proporzionalità, ha dovuto bilanciare «la volontà dell’azienda di promuovere una certa immagine di neutralità nei confronti dei propri clienti» – che, più in generale, costituisce una manifestazione della libertà di impresa riconosciuta e garantita dall’art. 16 della Carta di Nizza, e che, in linea di principio, deve ritenersi pienamente legittima – con i diritti di Chaya protetti dalla Direttiva 2000/78/Ce, dalla Carta e dalla Cedu (6).

Nella ponderazione tra i diritti di Chaya e gli interessi della società, la prima conseguenza sarebbe, o dovrebbe essere, che il piatto della bilancia sia più leggero dalla parte di Chaya se vi è poggiata la semplice manifestazione del suo credo religioso, invece della stessa possibilità di praticare e osservare la sua fede religiosa o dell’obbligo di violare la sua religione. In sostanza, la Corte e l’azienda, delle cui istanze i giudici del Lussemburgo sembrano essersi fatti portatori, avrebbero dovuto dotare di una gravitas molto maggiore il diritto della società di «promuovere una certa immagine di neutralità nei confronti della propria clientela», se il riconoscimento di questo diritto avesse messo Chaya nella condizione di scegliere tra perdere il proprio posto di lavoro o violare le norme della sua religione, invece che solo comportarle di nascondere la stella di Davide sotto la camicia. E con ciò non si intende sottovalutare la libertà di «manifestare il proprio credo».

Nel caso Eweida, per esempio, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo qualifica questo diritto come fondamentale e ne spiega chiaramente l’importanza, definendolo «un valore per qualsiasi individuo che abbia inteso fare della religione un elemento cardine della sua vita, consentendogli di comunicare la propria appartenenza agli altri» (7). Il punto è che limitare o comprimere il diritto di esprimere la propria religiosità, chiedendo di non indossare qualsiasi simbolo religioso, non è paragonabile alla volontà di impedire a chiunque di praticare e vivere concretamente la propria fede o di costringerlo a violarne i precetti (basti richiamare l’esempio dei vegani sopra menzionato). Tuttavia, non distinguere tra le circostanze che impediscono a una persona di “manifestare” apertamente la sua fede e quelle che invece la costringono deliberatamente ad infrangerne i comandamenti rischia di compromettere nella sostanza, se non addirittura in modo irrimediabile, il risultato finale del test di proporzionalità operato dalla Corte.

Il diritto all’osservanza delle pratiche religiose, del resto, non è considerato “sacro” nei nostri sistemi costituzionali ed esistono numerosi casi in cui è possibile violare legittimamente le libertà confessionali in nome di altri e più importanti valori sociali (per fare un esempio, quando si tratta di vietare le mutilazioni rituali sui genitali femminili). Ogni volta che neghiamo la possibilità di esercitare un diritto tanto fondamentale come la libertà religiosa, però, è necessario sempre trovare un controvalore, quanto meno equivalente, che giustifichi questo tipo di scelta.

Poiché la Corte ha omesso di operare tale distinzione e ha — erroneamente— ritenuto che Chaya «non è stata licenziata a causa della sua fede [ebraica], ma perché ha seguitato a manifestare il proprio credo», non dovremmo aspettarci che gli stessi giudici diano poi troppo peso agli interessi contrapposti. Ma anche inquadrando il problema come un mero divieto di «manifestare» la propria fede (che in ogni caso resta un diritto esplicitamente protetto), si dovrebbero parimenti individuare delle valide contro-argomentazioni.

La seconda conseguenza che scaturisce dalla mancata distinzione tra «manifestare» il proprio credo e «praticare» la propria religione è che la Corte non si rende conto degli effetti intrinsecamente discriminatori che la politica di neutralità adottata dalla compagnia produce sulle diverse confessioni. Questo aspetto è solamente accennato nel ragionamento dei giudici come mera ipotesi e in modo assai problematico nei ventitré brevi paragrafi che compongono la motivazione della sentenza (8).

Dove sarebbe la discriminazione?

Si tende spesso a guardare alla tradizione giudaico-cristiana come se le due fedi fossero in qualche modo assimilabili. In realtà, nella prospettiva che qui interessa, le due religioni realmente «sorelle» sono l’islam e l’ebraismo, perché, in entrambe le confessioni, la presenza di Dio si manifesta massimamente attraverso la costante incidenza di norme — nomos — di origine divina, che accompagnano i credenti durante l’arco della giornata, da quando si alzano a quando si coricano, dettando loro l’abbigliamento, l’alimentazione, la condotta da seguire sul posto di lavoro e perfino alcune regole sessuali. Da questo punto di vista, la Sharia e la Halakha sono davvero molto simili e si discostano significativamente dalla tradizione paolina che si pone alla base del Cristianesimo.

Si consideri, per esempio, Maria, una collega di Chaya, che, come lei, desidera manifestare il proprio credo, recandosi al lavoro con una croce al collo simile alla stella di Davide; oppure Samira, che, invece, vuole appuntare sulla sua camicetta una spilla a forma di mezzaluna. Con riferimento a questi due episodi, la politica aziendale di neutralità produrrebbe i medesimi effetti. Per costringere tutte a rimuovere quei simboli religiosi visibili si lederebbe sicuramente la libertà di espressione o di coscienza, ma non si comprometterebbe l’osservanza in senso stretto dei precetti religiosi. Eppure, al di là di alcune piccole eccezioni riguardanti i cristiani, l’applicazione delle regole di neutralità adottate dalla compagnia produrrà diverse conseguenze nei confronti delle donne — e, per certi versi, anche degli uomini — ebree o musulmane rispetto alle loro colleghe cristiane, il che costituisce l’elemento fondamentale di qualsiasi discriminazione indiretta. È molto difficile evitare questa conclusione, sulla base di alcune risultanze fattuali. E ciò potrebbe persino passare come fatto notorio e non come elemento da accertare in giudizio.

Se così fosse, la stessa Direttiva 2000/78/Ce, al pari della legislazione antidiscriminatoria in materia di diritti umani, imporrebbe di rintracciare motivazioni più convincenti (da scandagliare solitamente nella c.d. terza fase del test di proporzionalità) che giustifichino discriminazioni di questo tenore. Inoltre, non considerare questo aspetto integrerebbe un’ulteriore, grave, violazione da parte di qualsiasi giudice.

3. Prima di procedere ad analizzare se e in che modo la Corte di giustizia dell’Unione europea ha trattato le due conseguenze giuridiche che si sono appena illustrate, è opportuno esporre due considerazioni di ordine teologico e sociale.

Non si sta qui sostenenendo che i credenti cristiani, diversamente dai loro fratelli ebrei o musulmani, lascino la propria fede al di fuori del luogo di lavoro. Il loro modo di vivere la propria appartenenza religiosa sul lavoro, però, si manifesta mediante la condotta etica e l’amore per i colleghi e per i loro simili, che costituisce il cuore della testimonianza a Cristo. Il Cristianesimo ha rinunciato alla maggior parte dei riti e delle pratiche religiose, che invece caratterizzano ancora oggi il Nomos islamico e quello ebraico: è principalmente una religione del cuore. La cristianità in queste circostanze non si esprime mediante quello che si indossa oppure quello che si mangia, ma con il proprio comportamento. Forse è necessario dissipare l’equivoco comune secondo cui l’Islam e l’ebraismo sono due religioni caratterizzate quasi esclusivamente da pratiche rituali, tanto che frasi del tipo «non mangiano carne di maiale, ma imbrogliano» oppure «non bevono alcol, ma lanciano bombe» sono diventati classici luoghi comuni dell’antisemitismo e dell’islamofobia. La legge morale e gli imperativi etici sono un aspetto centrale del Nomos e davvero rendono inutile il rituale privo della sua componente etica, come la semplice lettura del libro del Levitico (da cui, peraltro, origina il comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso») o di Profeti come Isaia e Amos può aiutare a comprendere. Questa è anche la sede opportuna per richiamare alcuni casi simili: per esempio, un cattolico vi direbbe che l’esercizio di un diritto individuale come l’aborto comporta la violazione di una libertà garantita dalla sua religione, non tanto perché si tratta di un precetto rituale, ma perché infrange un comandamento morale di origine divina stabilmente radicato. Qualsiasi tribunale dovrebbe quindi misurarsi con la stessa delicata fase del test tripartito di proporzionalità riguardante diritti ugualmente tutelati. Se esiste un modo per proteggere il diritto di abortire senza forzare nessuno a violare le proprie convinzioni religiose, tale misura sarebbe probabilmente la più indicata sia sotto il profilo della necessità (seconda fase del test di proporzionalità) sia per quanto concerne il bilanciamento dei valori (terza fase). Questa nuova tecnica di «accomodamento» si sta sempre più diffondendo per risolvere fattispecie controverse (si veda più avanti l’analisi sulla proporzionalità).

Possono però comprendersi le ragioni per cui la Corte — in totale buona «fede» (sia concesso il gioco di parole) — non si sia curata di distinguere tra “manifestare” e “praticare” la propria religione e nemmeno la abbia considerata, anche solo per rigettarla. Non si deve essere sorpresi perché questa miopia è il prodotto di due massicce forze culturali — spesso contrapposte — che hanno agito congiuntamente per condizionare l’attuale insensibilità su questi temi. Queste due forze sono la Rivoluzione cristiana, iniziata da Gesù e proseguita da Paolo di Tarso, e la tradizione laica della Rivoluzione francese.

Come si accennava in precedenza, un elemento centrale (non l’unico) della Rivoluzione cristiana si trova nell’insegnamento (contenuto, per esempio, nel celebre «Discorso della montagna») secondo cui la Legge era compiuta e la natura del patto tra Dio e l’uomo era mutato per sempre. Non è più decisivo che cosa entra nella bocca di un uomo, ma le parole che ne escono; e con ciò la sofisticata matrice di rituali che ancora oggi costituisce uno (ma non l’unico) degli aspetti fondamentali del Nomos è stata buttata nel cestino della comprensione religiosa cristiana e praticata come se fosse una reliquia di uno stadio precedente e più primitivo nel mondo di Dio.

Un giudizio di valore veniva associato a questo aspetto della Rivoluzione cristiana: i rituali tipici del Nomos rappresentano la buccia, mentre la polpa del frutto religioso è rappresentata dall’interiorità dell’essere umano. Non occorre circoncidere il proprio pene, come avviene nella tradizione giudaica e musulmana, ma il proprio cuore. Questo giudizio di valore era (ed è) spesso accompagnato da un certo disprezzo per lo stadio primitivo di quelle pratiche dell’Islam e dell’Ebraismo e, sebbene tale disprezzo sia in parte scomparso — o si sia quanto meno imparato a mascherarlo — rimane comunque una totale incomprensione per il profondo significato spirituale del Nomos.

La sottostante miopia rispetto alla distinzione tra «manifestare» e «praticare» deriva così da quella intuitiva, e quasi naturale, sensibilità maturata in oltre due millenni di cultura cristiana, tale per cui «sicuramente non può importare troppo a Chaya se le si chiede di rimuovere il velo. Sicuramente il velo è solo la buccia, non la vera polpa del frutto». E sì, «sicuramente questa è soltanto una manifestazione della sua fede, non la fede in sé» (9).

A questo si deve aggiungere il pervasivo impatto della Rivoluzione francese di cui, fortunatamente, tutti noi per molti versi siamo figli ed eredi. La Rivoluzione francese, quale passaggio epocale nel processo di smantellamento dello stato confessionale, ha affrancato gli ebrei, rendendoli «liberi e uguali» nel celebre motto della stessa rivoluzione. Tuttavia, questo processo si è accompagnato alla regola «sii un uomo in pubblico e un ebreo in privato», in piena armonia con quella concezione di laicità che ritiene la religione come una questione privata. Il luogo appropriato della religione sono dunque la casa e la Chiesa, non lo spazio pubblico, che deve rimanere «neutrale». Storicamente, gli ebrei hanno adottato questo approccio, in parte come il giusto prezzo da pagare per la loro emancipazione (e molti, probabilmente i più, come catalizzatore per l’emancipazione dal giogo del Nomos).

Con questa sensibilità, dire a Chaya che è benvenuta nel portare il velo a suo piacere in privato, ma non sul luogo di lavoro, sembrerebbe essere la più naturale e innocente richiesta possibile. Anzi, la sua continua insistenza nell’indossarlo potrebbe essere considerata — e il tenore della sentenza tradisce questa impostazione — come un’ostinazione irrazionale e ingiustificata.

Se dunque si abbinano queste due forze, che sono i pilastri della civilizzazione dell’Occidente, e si aggiunge un contesto sociale ampiamente secolarizzato che ha perso la conoscenza, la sensibilità e, talvolta, perfino la pazienza nei confronti della religione, allora non dovrebbe sorprenderci la assenza assoluta, nella decisione della Corte, di questa distinzione cruciale tra «manifestare» e «praticare».

4. Dovrebbe invece sorprenderci molto il modo, a dir poco sconcertante, con cui la Corte ha impiegato il test di proporzionalità nel caso di specie, soprattutto perché la proporzionalità è sempre al centro di questioni di questo tipo. Anche in una versione minimale di proporzionalità, è la norma attendersi tre passaggi successivi: 1) la disposizione, o la regola, che limita un certo diritto (in questo caso la libertà religiosa o la libertà di coscienza) persegue uno scopo legittimo? 2) È «necessaria», nel senso che si tratta della «misura meno restrittiva»? 3) Lo scopo legittimo può essere raggiunto, con oneri e costi ragionevoli, con una misura diversa meno limitativa del diritto tutelato?

Il terzo passaggio si suppone sia il più importante sotto l’aspetto socio-normativo. Infatti, anche se la misura persegue uno scopo legittimo ed è «necessaria» (cioè, non sono disponibili misure meno restrittive), il giudice, qualsiasi giudice, è chiamato a dimostrare perché i valori inseriti e riflessi nello scopo legittimamente perseguito da una misura considerata necessaria per raggiungere tale scopo siano più importanti dei valori ricompresi nella libertà colpita e compromessa da quel provvedimento. È il conseguente bilanciamento che stabilisce la gerarchia di valori attraverso cui le nostre società ambiscono a definire loro stesse e, in effetti, sono spesso una cartina di tornasole delle loro differenze valoriali.

Con riferimento alla prima fase, la Corte di giustizia nel caso Achbita ha ritenuto che lo scopo, da parte della compagnia, di tutelare una certa immagine di neutralità è legittimo.

Riguardo al secondo passaggio, la Corte rinvia al giudice nazionale il compito di valutare il secondo elemento del giudizio di proporzionalità, chiedendogli di esaminare, in base alle circostanze del caso concreto, se «il divieto di indossare in modo visibile qualsiasi segno o indumento che possa essere associato a un credo religioso o a una convinzione politico-filosofica interessi unicamente i dipendenti [della compagnia] che hanno rapporti con la clientela» (il corsivo è nostro). Se, comunque, e questo è il nostro caso, la Corte ritenesse che «il divieto debba essere considerato strettamente necessario per conseguire la finalità perseguita […] spetta al giudice del rinvio verificare se, tenendo conto dei vincoli inerenti all’impresa, e senza che quest’ultima debba sostenere un onere aggiuntivo, sia possibile per [l’azienda], di fronte al rifiuto [opposto da una lavoratrice di dismettere il velo [ebraico] —, proporle un incarico che non comporti il contatto diretto con […] il pubblico», anziché licenziarla (10).

Occorre allora concentrarsi sul terzo elemento del test di proporzionalità, in quanto più strettamente correlato agli aspetti generali esplorati poco sopra. Si tratta, del resto, di una questione centrale in qualsiasi caso sui diritti umani, in particolar modo quando la fattispecie riguarda il contrasto tra due libertà protette che, pertanto, necessitano di essere bilanciate.

Ci si aspetterebbe che, giunta a questo punto dell’analisi, la Corte: (i) esplori e bilanci i valori sottesi a una politica aziendale di neutralità, se non con il diritto di praticare la propria religione, almeno con la libertà di manifestarla; e, in aggiunta, (ii) ove la policy aziendale provochi veramente una discriminazione tra le religioni, verifichi anche se la rilevanza della policy sia tale da giustificare la suddetta discriminazione.

Esiste un’infinità di esempi di questo genere. Istruttiva appare al riguardo la soluzione offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso del burka (11). Il burka, diversamente dal velo di Chaya o dal hijab portato da Samira, copre interamente il volto delle donne musulmane. Numerosi Paesi ne hanno proibito l’utilizzo in pubblico, compromettendo chiaramente una libertà religiosa. Davanti a tali divieti, la Corte europea si è impegnata molto seriamente a bilanciare il sistema di valori che si cela dietro a quel divieto — quali una società «aperta», la natura delle relazioni umane, la dignità delle donne — con la libertà religiosa del singolo. Nel complesso e con varie motivazioni, la Corte ha concluso che questi valori potrebbero giustificare una legittima restrizione della libertà religiosa di indossare il burka.

Un esempio ancora più simile al caso Achbita è il caso Eweida, deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, prima menzionato. Qui i giudici di Strasburgo si sono anch’essi trovati di fronte al divieto imposto da una società (la compagna aerea British Airways) ai suoi dipendenti (qui assistenti di volo) di indossare qualsiasi simbolo che potesse manifestare la loro religione, in quanto si tratta di lavoratori che operano a stretto contatto con il pubblico. Inoltre, nel valutare la proporzionalità delle misure adottate da un’azienda privata nei confronti dei suoi dipendenti, le istituzioni nazionali — e in particolar modo i giudici — godono di un certo margine di apprezzamento. Ciò nonostante, la Corte ha stabilito che, nel caso di specie, non era stato raggiunto un corretto bilanciamento. Su un piatto della bilancia è stato posto il desiderio della Signora Eweida di manifestare il proprio credo religioso. Come si è già notato, questa è una libertà fondamentale non soltanto perché una società democratica sana deve accogliere e sostenere il pluralismo e la diversità, ma anche per il valore che assume per un singolo, che ha fatto della religione il pilastro della propria vita, il poterlo comunicare ad altri. Sull’altro piatto della bilancia è stata posta la volontà del datore di lavoro di promuovere una certa immagine aziendale. La Corte ha ritenuto che, sebbene lo scopo dell’azienda sia certamente legittimo, i giudici nazionali gli abbiano accordato un peso eccessivo. La croce indossata dalla Signora Eweida era discreta e non pregiudicava il suo abbigliamento professionale. Non esistevano prove che l’aver precedentemente autorizzato altri dipendenti ad utilizzare certi capi di abbigliamento religioso, come un turbante o un hijab, avesse prodotto un impatto negativo sullo stile o sull’immagine della British Airways. Inoltre, il fatto stesso che la società fosse in grado di modificare le proprie uniformi per consentire di portare apertamente taluni accessori religiosi dimostra come il precedente divieto non fosse poi così importante (12).

Tra le altre cose, si nota in questo passaggio la distinzione del problema sulla legittimità dello scopo perseguito (prima fase del test di proporzionalità) dal suo bilanciamento con i corrispettivi diritti individuali (terza fase).

Diviene così necessario, a questo punto, richiamare per esteso il percorso logico-argomentativo con cui la Corte del Lussemburgo ha trattato questo fondamentale terzo passaggio del test di proporzionalità: come conciliare il diritto garantito di un’impresa di promuovere una politica di neutralità (articolo 16 della Carta) con il diritto garantito dei suoi dipendenti di manifestare (o praticare) la loro religione (articolo 10 della Carta)?

No, lo spazio bianco tra i due capoversi non è un errore di stampa o di visualizzazione del computer. Semplicemente, nella decisione non vi è assolutamente nulla su questo punto. La terza fase del test di proporzionalità è stata omessa. I giudici del Lussemburgo hanno accorpato la prima e la terza fase. In maniera categorica essi hanno sostenuto che, in linea di principio, una prassi aziendale, tesa a salvaguardare l’immagine neutrale di una società nei confronti della propria clientela, è legittima, «segnatamente quando il datore di lavoro, nel raggiungimento di questo scopo, impiega del personale chiamato a entrare in contatto diretto con i clienti della società per cui lavora» (13). In base a queste premesse, è del tutto comprensibile come l’unica preoccupazione della Corte sia verificare se l’azienda, senza oneri aggiuntivi, possa nascondere persone come Chaya nel back-office, mentre non affronta la questione centrale del conflitto di valori.

La Corte cerca di corroborare la sua decisione sulla legittimità della policy aziendale proprio sulla base delle argomentazioni prodotte dai giudici di Strasburgo nel caso Eweida. E, ovviamente, in forza della libertà di impresa citata dalla stessa Corte di giustizia Unione europea vi potrebbero anche essere delle ragioni per giustificare un comportamento che circoscriva l’esercizio della concorrente libertà religiosa.

È senza dubbio corretto che la pronuncia Eweida sostenga, come afferma la Corte, che in linea di principio un’azienda può limitare la libertà dei propri dipendenti di manifestare la loro identità religiosa. I giudici di Strasburgo hanno persino costruito la propria argomentazione centrale su tale statuizione: mantenere un’immagine altamente professionale nell’erogazione di un servizio, presumibilmente, senza offendere o allontanare i potenziali destinatari dei servizi stessi.

Tuttavia, la comparazione tra il caso Eweida e il caso Achbita è a dir poco imbarazzante. In primo luogo, in Eweida si prende atto dell’esistenza di due diritti contrapposti. Vi è una breve, ma significativa, articolazione dei rispettivi valori ad essi sottostanti e, soprattutto, si procede a soppesare e bilanciare, giudizio che è diverso dal secondo passaggio del test di proporzionalità sulla necessità della misura. Questo è il pane quotidiano di qualsiasi test di proporzionalità sui diritti umani. Ed è il modo in cui si dovrebbero proteggere i diritti umani in casi come questo. In secondo luogo, diversamente da quanto avviene per la sentenza Achbita, nel bilanciamento tra i valori in questione la Corte Edu giunge alla conclusione che la compagnia (la British Airways) ha commesso una violazione e, più specificamente, che non esiste alcuna prova che l’uso di altri capi di indumenti religiosi, come un turbante o un hijab, da parte di altri dipendenti abbia avuto un impatto negativo sullo stile o sull’immagine della British Airways.

Il silenzio pressoché totale da parte della Corte di giustizia è sconcertante. Si paragoni l’argomentazione di Eweida con l’unica statuizione presente in Achbita, che in parte allude alle stesse sensibilità: la volontà di un datore di lavoro di fornire ai propri clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa riconosciuta dall’articolo 16 della Carta e, in linea di principio, è legittima, specialmente quando l’azienda coinvolge nel perseguimento di tale obiettivo soltanto quei dipendenti che entrano in contatto con i clienti.

Dove sta l’analogia? Nel breve cenno all’espressione «in linea di principio», in nient’altro. Il fallimento espresso da questo silenzio è nello stesso tempo un fallimento professionale e morale. È davvero difficile spiegare l’assenza di un adeguato confronto con la questione relativa a diritti contrapposti. È davvero sufficiente, sul piano teorico, che una misura persegua uno scopo legittimo e sia realmente la meno restrittiva per adottarla, anche quando confligge con un altro diritto fondamentale? E che messaggio si trasmette riconoscendo la prevalenza dell’interesse economico senza però declinare, più o meno diffusamente, i valori del pluralismo e della tolleranza che sono alla base dei diritti compromessi dalla rivendicazione alla libertà religiosa violata dall’esercizio della libertà di impresa?

Nel caso Bougnaoui, deciso quasi contestualmente a quello Achbita, la Corte ha lodevolmente stabilito che «la Direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che la volontà del datore di lavoro di tenere in considerazione i desideri della propria clientela a che i servizi offerti non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi del diritto europeo» (14). Questo, volente o nolente, dovrebbe rientrare nella terza fase del test di proporzionalità. Ma, ahimè, nella decisione sulla vicenda Achbita, che in ragione della sua fattispecie più generale sembrerebbe essere il caso più importante, non c’è nessuna traccia di questo ragionamento. Tale principio potrebbe, o dovrebbe, essere limitato da una certa interpretazione restrittiva dei «requisiti professionali»? Non avrebbe forse dovuto essere parte del dispositivo della sentenza richiedere a tutti i giudici nazionali, in applicazione della Direttiva 2000/78/Ce, di assicurare che l’asserita “neutralità” non sia determinata dai desideri dei clienti?

Ma si potrebbe anche andar oltre: questo principio è di per sé sufficiente? Cosa succede se non vi è un desiderio effettivamente espresso dai clienti, ma è il datore di lavoro ad anticiparli comunque e ad agire di conseguenza? Si renderebbe così la carne di maiale «kosher»? E ancora di più, alla luce di quanto stabilito nel caso Bougnaoui e di come funziona il mondo, la Corte non ha involontariamente fornito una soluzione ingannevole? D’ora in poi, nessun datore di lavoro ammetterà mai una discriminazione del genere e si trincererà dietro una generica «politica di neutralità», che la stessa Corte di giustizia sembra avallare nella sentenza Achbita. Non sarebbe stato meglio creare una presunzione giuridica di illegittimità per tutte quelle policy aziendali che richiedono a un lavoratore di violare i precetti della propria religione o che «semplicemente» ne impediscono la manifestazione, in quanto si presumono contrarie alla Direttiva 2000/78/Ce e alla Carta di Nizza, a meno che l’azienda non fornisca motivi impellenti (e la preferenza del cliente di non essere servito da una dipendente che indossa il velo non può certo contare come impellente) per tali requisiti?

Nonostante l’asserita centralità del principio di proporzionalità, esistono purtroppo centinaia di casi in cui la Corte non va al di là del secondo passaggio del relativo test. Allora perché tutto questo clamore? In effetti, vi sono fattispecie in cui per la Corte non è necessario spingersi oltre alla seconda fase. Molte di queste vicende riguardano solo il funzionamento del mercato unico, che è il territorio per eccellenza della Corte, e in cui i giudici del Lussemburgo adottano di fatto decisioni dispositive. Pertanto, in molte di queste ipotesi, la Corte è realmente in grado di decidere fermandosi anche solo alla seconda fase del giudizio di proporzionalità. Ulteriori casi sono quelli in cui i giudici europei valutano le misure statali a tutela di un principio proprio del loro ordinamento, per esempio, un’eccezione alla libera circolazione. In altri termini, si tratta di casi riguardanti principi che derivano dal sistema giuridico interno e dove l’obiettivo principale, oltre a dover accertare che lo scopo della misura statale rientri nella lista degli scopi ammessi o derivi da esigenze imperative, è appunto quello di valutare soltanto la seconda fase del test di proporzionalità (mettere un’etichetta sarebbe sufficiente) e non di contestare i valori costitutivi degli Stati membri.

Questo però non è il caso Achbita. Ai sensi della Direttiva 2000/78/Ce, la problematica sottostante al caso di specie ricade nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. La tutela accordata ai singoli (sia Chaya, sia la società per cui lavora) è assicurata dal diritto europeo ed è per questo che spetta alla Corte di giustizia definire almeno i parametri e i criteri che dovrebbero presiedere al bilanciamento tra due interessi contrapposti.

Un secondo motivo è che qui si tratta di diritti fondamentali. Come si è già visto negli esempi tratti dalla Corte Edu, la terza fase del test di proporzionalità si situa nel cuore dell’analisi sui diritti umani soprattutto, e inevitabilmente, come problema di logica giuridica, quando si ha a che fare con libertà contrapposte fra due individui, come appunto in questo caso. Come altrimenti si potrebbe decidere fra questi due diritti contrapposti se non attraverso il terzo passaggio del test di proporzionalità?

Si potrebbe allora sostenere che, sebbene la stessa Corte non compia il terzo passaggio del test di proporzionalità, indispensabile per decidere un caso su diritti umani contrapposti e ugualmente tutelati, affidi comunque tale compito al giudice nazionale?

Si esamini attentamente il secondo capoverso del paragrafo 44 della sentenza:

siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della Direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare.

La Corte fa riferimento alla possibilità che una misura effettivamente in grado di creare uno svantaggio per una particolare confessione religiosa possa costituire una discriminazione indiretta e, per questo, violi la Direttiva 2000/78/Ce. Tuttavia, la Corte omette di aggiungere che ciò non accadrebbe se la misura in questione perseguisse uno scopo legittimo. Ma come era già stato notato poco prima nella sentenza, e come viene poi ripreso nel paragrafo 38, «la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa, riconosciuta dall’articolo 16 della Carta, e ha, in linea di principio, carattere legittimo, in particolare quando il datore di lavoro coinvolge nel perseguimento di tale obiettivo solo i dipendenti che si suppone entrino in contatto diretto con i clienti». Se si considera questo passaggio, il modo più ovvio di leggere il paragrafo 44 della decisione è che ciò che viene lasciato al giudice di rinvio nazionale è solamente di accertare se i mezzi per raggiungere un certo scopo siano proporzionati nel senso indicato dalla Corte, cioè se non sia possibile trovare per Chaya un’altra mansione che non comporti il contatto con i clienti, senza ulteriori oneri per la compagnia. Il giudice europeo, in sostanza, non pare chiedere alle Corti nazionali di preoccuparsi di applicare la terza fase del giudizio di proporzionalità.

E si giungerebbe alle stesse conclusioni anche a voler fornire una lettura «generosa» del paragrafo 44 e, più precisamente, a voler sostenere che la locuzione «in linea di principio» significhi che questa debba essere verificata in ogni caso e che al giudice di rinvio non spetti soltanto di accertare la seconda fase sulla “misura meno restrittiva”, ma anche il bilanciamento previsto dalla terza fase del test di proporzionalità. Anche ove si propendesse per questa interpretazione generosa del paragrafo 44, la Corte avrebbe comunque tralasciato di assolvere i propri doveri. Ciò in quanto le libertà tutelate in questo caso sono diritti sanciti a livello europeo dalla Direttiva 2000/78/Ce e dalla Carta di Nizza e la loro interpretazione e declinazione non può essere «esternalizzata» integralmente ai giudici nazionali. Spetta alla Corte di giustizia definire gli standard di protezione in base al diritto dell’Unione, mentre i giudici degli Stati membri dovrebbero applicarli alla specificità del caso trattato.

In aggiunta, anche ammettendo questa ipotesi opinabile (cioè che la Corte di giustizia abbia in realtà invitato i giudici nazionali a svolgere la terza fase del test di proporzionalità), essa non avrebbe dovuto, nel rinviare la questione al giudice interno, almeno specificare i parametri sulla cui base effettuare il bilanciamento richiesto? Traendo ispirazione dal caso Eweida, cui la stessa Corte di giustizia fa riferimento, non avrebbe forse dovuto esplicitare i valori insiti nei diritti previsti? E avrebbe anche dovuto spiegare ai giudici nazionali che, vista l’importanza dei diritti compromessi, l’impresa dovrebbe dimostrare in via empirica e normativa che l’esercizio del suo diritto, nello specifico del suo tipo di attività, la condizione dell’ambiente sociale e di eventuali alri elementi, annullerebbero l’effetto negativo di una simile politica rispetto a un diritto tutelato dalla Direttiva 2000/78/Ce, dalla Carta e dalla Cedu. Parallelamente al richiamo al diritto della società di condurre liberamente la propria attività d’impresa, la Corte di giustizia non avrebbe dovuto far almeno un cenno, per esempio, anche alla necessità per «un sistema democratico maturo […] di sostenere e promuovere il pluralismo e la diversità» e istruire il giudice nazionale di fare qualcosa in più che semplicemente esplorare se Chaya potesse essere nascosta nel back-office? In altri termini, la Corte non avrebbe dovuto esplorare se la preoccupazione dell’azienda di mantenere una certa «neutralità» nei rapporti con i clienti non fosse semplicemente ispirata da esigenze professionali (come una legittima insistenza sul vestirsi bene), ma fosse invece un modo per assecondare i pregiudizi dei clienti — pregiudizi che son nemici di una concezione sana della democrazia che accetta il pluralismo e la diversità — e per prendere posizione al riguardo? Cioè, vi è evidenza empirica che indossare un hijab o un turbante sia accettato e questa pratica deve essere ovunque incoraggiata proibendone limitazioni, salvo motivi impellenti (come nelle sale operatorie, per esempio)?

Non sorprende, allora, che molti commentatori abbiano accusato la Corte di sembrare più preoccupata dei diritti economici dell’impresa che dei diritti fondamentali degli individui.

I giudici, in una conversazione privata, potranno dire: «semplicemente non potevamo farlo; avrebbe significato capovolgere una prassi ampiamente consolidata in molti Stati membri, anche nelle pubbliche amministrazioni». Eppure, la Corte di giustizia, quando si è trovata di fronte ad alcuni importanti diritti economici, ha avuto il coraggio di sovvertire le prassi radicate di molti Stati membri. Perché allora questa ritrosia nel caso di specie? Peraltro, non era necessario sovvertire queste pratiche direttamente, ma avrebbe potuto stabilire criteri ben fondati per valutarle, poiché davvero situazioni differenti dovrebbero richiedere soluzioni diverse e i giudici nazionali dovrebbero poter assumere decisioni sul caso concreto.

Non si tratta qui di spingere la Corte a impelagarsi in un dibattito politico, ma a svolgere serenamente, giudiziosamente, il suo dovere, in modo che le corti domestiche svolgano, oltre al controllo sulla «misura meno restrittiva», anche il bilanciamento tra i diritti contrapposti (garantiti dal diritto dell’Unione) e valutino tutti gli altri elementi e fattori che un giudice nazionale deve prendere in considerazione in questo frangente. Questo è il compito della Corte di giustizia, mai così importante come in questo caso. I giudici del Lussemburgo devono comprendere, poi, che un approccio di «non coinvolgimento» è di fatto un coinvolgimento per omissione. In una vicenda di questo tipo, non esiste la neutralità e il non fare equivale a un fare.

È dunque difficile non arrivare alla conclusione che, nella decisione Achbita, il modo con cui è stato applicato test di proporzionalità lascia molto a desiderare e che, se si prendono questo ed altri casi — come la vicenda Taricco — la credibilità professionale della Corte come giudice dei diritti ha subito una battuta d’arresto. Certo, errare è umano — e una pessima decisione può sempre essere seguita da una eccellente.

Fino ad ora, non si è fatto alcun riferimento alle opinioni espresse dall’Avvocato Generale Sharpston nel caso Bougnaoui e dall’Avvocato Generale Kokott nel caso Achbita. Come di consueto, queste opinioni sono ben più ricche e articolate delle sentenze della Corte e hanno molto da insegnarci. L’Avvocato Generale Sharpston, tra le diverse virtù della sua opinione, dimostra assai più ampie comprensione ed empatia per la condizione in cui si trovano le persone religiose. Si può notare questa posizione, per esempio, nel caso Bougnaoui, rispetto all’accondiscendenza verso i pregiudizi dei clienti. La sentenza Achbita avrebbe potuto essere una decisione diversa e migliore, se questa sensibilità fosse stata adottata dalla Corte di giustizia.

Mi trovo in disaccordo con parte delle motivazioni e soluzioni proposte nell’opinione dell’Avvocato Generale Kokott, che è stata poi largamente ripresa dalla Corte. Un aspetto in particolare merita di essere menzionato. Kokott distingue tra le discriminazioni fondate sulla razza e sul genere, caratteristiche su cui le vittime non hanno nessun tipo di scelta, e quelle religiose, che invece sarebbero una questione di scelta. E in effetti lo è, come hanno imparato gli antenati di Chaya nei secoli quando è stata offerta loro la possibilità di scegliere un diverso Redentore e spesso sono stati bruciati sul rogo per essersi rifiutati. Chaya può scegliere di rompere un’Alleanza di oltre 5.000 anni. Può anche scegliere di violare i precetti di quell’Alleanza. Ha scelto di non farlo. E allora? Rimuovere il velo non è proprio come scegliere se portare scarpe nere o marroni al lavoro. E il suo senso di esclusione, perdita della dignità e umiliazione se costretta ad accettare un lavoro che, in ragione della sua religione, l’avrebbe resa invisibile ai clienti, non sarebbe certo meno acuta di quella provata da una donna o da un lavoratore nero che subisse lo stesso trattamento in ragione del proprio genere o del colore della pelle. E anche la nostra indignazione, in circostanze del genere, dovrebbe essere la stessa, nonostante la possibilità di scelta. Sia come sia, la Corte del Lussemburgo avrebbe dovuto imparare una o due cose dall’Avvocato Generale Kokott su come impiegare il criterio di proporzionalità nei casi riguardanti i diritti umani: particolarmente meritevole mi pare l’analisi condotta su come diversi contesti nazionali implichino diverse considerazioni nel bilanciamento tra interessi confliggenti.

I problemi di questa pronuncia, purtroppo, non si limitano alle notevoli carenze giuridiche sopra illustrate. È solo un esempio in più di un caso di enorme importanza ed impatto, in cui la motivazione della sentenza si riduce di fatto a ventitré paragrafi laconici e in gran parte apodittici.

Koen Lenaerts offre una possibile spiegazione di questo atteggiamento:

La Corte di giustizia decide sulla base del principio di collegialità. Alla luce di quest’ultimo, raggiungere una decisione fondata sul consenso è di capitale importanza per il quotidiano funzionamento dei meccanismi interni alla Corte medesima. Conseguentemente, per il bene dell’accordo, il ragionamento della Corte nei casi sensibili non può essere tanto articolato quanto lo sarebbe se fossero consentite le opinioni dissenzienti. Poiché la creazione del consenso richiede di portare dalla propria parte il maggior numero possibile di pareri, la stoffa argomentativa della Corte di giustizia si riduce agli aspetti strettamente essenziali. Per preservare il consenso, la Corte non fa «grandi salti» quando espone la logica alla base di una soluzione fornita a nuove questioni di rilevanza costituzionale (15).

Emerge qui un ulteriore argomento a sostegno di una limitazione del mandato dei giudici della Corte di giustizia a un termine fisso (seguendo la prassi più diffusa in Europa) e dell’introduzione, meglio se gradualmente, dell’opinione dissenziente. Andrebbe cioè consentito alla Corte, nei casi più complessi, e persino quando non si è raggiunto il consenso, di precisare più compiutamente la propria decisione, senza che quest’ultima venga ridotta al minimo comun denominatore imposto dal rispetto del principio di collegialità. E dato che le decisioni della Corte nel caso concreto, così come le analoghe pronunce delle Corti supreme degli Stati membri, assumono un significato, un’importanza e un impatto che vanno oltre il ristretto ambito degli operatori di diritto dell’Unione europea e del giudice nazionale che ha sollevato la questione di pregiudizialità, talvolta è necessario spingersi oltre lo «stretto indispensabile».

In alcuni casi, le modalità attraverso cui una Corte illustra, inquadra e argomenta le proprie sentenze non è meno rilevante della pronuncia in sé. È importante per l’ordinamento e lo è anche per la legittimazione della Corte stessa. Mauro Cappelletti era solito insegnare che l’elemento decisivo per la legittimazione di una pronuncia giurisdizionale è la qualità della motivazione. Una decisione epocale come quella Achbita produce conseguenze. Nessuno si aspetta che la Corte decida questioni che non le sono state sottoposte. Ci si aspetta, però, che decida tali questioni tenendo conto della qualità di un’argomentazione che un caso importante come quello Achbita avrebbe meritato, come fa la maggior parte delle Corti costituzionali europee in casi analoghi.

5. La Corte di giustizia, come anticipato, ritiene la “neutralità” uno scopo legittimo e lo radica nella libertà di iniziativa economica, come previsto dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La sentenza muove dall’assunto secondo cui ciò che l’azienda vuol raggiungere è di fatto un ambiente di lavoro neutrale. Non si vuole qui sostenere che questo sia in sé sbagliato, ma è importante eccepire che nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri vi sono almeno due nozioni contrapposte di neutralità. In un giudizio ben ponderato, la Corte avrebbe dovuto riconoscere tali nozioni e avrebbe dovuto fornire alcune spiegazioni sul perché l’Europa debba seguire l’uno o l’altro approccio. Per motivi di tipo euristico, però, concentriamoci prima solo sui simboli religiosi.

Secondo la classica tradizione francese — che la Corte di giustizia sembra aver sposato — lo spazio pubblico è neutrale quando lo Stato non “abbraccia”, direttamente o indirettamente, alcuna religione e allo stesso tempo quando non possono essere mostrati simboli religiosi nei luoghi di lavoro.

Per comprendere questo punto, si possono immaginare tre Università. Nella prima, tutti, studenti o professori, debbono indossare la kippah o il velo. In un’altra, a nessuno è permesso mostrare alcun simbolo che manifesti la propria appartenenza religiosa. Nella terza, ciascuno è libero di seguire la propria coscienza: alcuni indossano un crocifisso, un hijab o un turbante; altri non li portano, ma magari hanno spille o magliette che recano simboli vegani o marxisti oppure altri emblemi che manifestino le loro convinzioni ideologiche laiche; altri ancora potrebbero non mostrare alcun simbolo. Se il Maggiore Tom della nota canzone Space Oddity di David Bowie avesse trovato queste tre Università su Marte e avesse comunicato con la torre di controllo, non avrebbe riferito che le prime due istituzioni non erano neutrali — una ha imposto vergognosamente la religiosità, mentre l’altra ha imposto (vergognosamente?) la laicité — e che solo la terza era neutrale? È uno spunto di riflessione. Questa è la logica per cui, in nome di questa stessa concezione della laicità, i Paesi Bassi e il Regno Unito finanziano con fondi pubblici sia scuole che esprimono diversi orientamenti religiosi, sia scuole secolari, così da assicurare la neutralità dello Stato.

Bisogna però riconoscere che, anche ammesso che la terza Università sia più neutrale delle altre due, l’atteggiamento laico non è privo di logica. E si potrebbe complicare ulteriormente la questione. Per esempio, l’istituzione non proibisce solamente i simboli religiosi, ma bandisce anche tutti i simboli filosofici o politici: questo la rende più neutrale? Per certi versi sì. Poiché, se avessero consentito di mostrare simboli di altri tipi di «convinzioni» (il termine usato nella traduzione francese della Direttiva 2000/78/Ce), i credenti sarebbero più giustificati a sentirsi discriminati: come mai qualcuno può indossare una spilla di Che Guevara e io non posso mostrare un crocifisso?

La neutralità, pertanto, non ha un significato proprio se non in rapporto ai criteri o ai parametri a cui ci riferiamo per decidere che cosa sia neutrale e cosa non lo sia. Per esempio, un’azienda non usa un criterio estetico per creare un luogo di lavoro a suo parere neutrale. Betty può venire in ufficio con un vestito rosso da urlo e Jane con un sobrio e castigato abito grigio. L’impresa non chiede che i suoi dipendenti indossino uniformi, così il posto di lavoro potrebbe ben essere una cacofonia di stili e colori (che, incidentalmente, possono anche essere l’espressione di alcune convinzioni filosofiche). Questo, almeno, non è un ulteriore segno del rompicapo concettuale insito nella definizione di «neutralità»? Non si tratta semplicemente di stabilire quale sia l’ambiente più «neutrale»: un luogo di lavoro in cui ognuno è tenuto a indossare un’uniforme — ossia nessun segno che esprima una convinzione estetica individuale — oppure un insieme indistinto di stili e colori, per cui l’azienda è agnostica (neutrale) quanto all’espressione delle convinzioni estetiche dei suoi dipendenti. Ma questi esempi stanno a dimostrare come la vera determinazione di cosa definisca il livello della neutralità sia nelle mani dell’azienda che effettua delle scelte: può ritenersi libera di adottare qualsiasi livello?

È giunto allora il momento di ritornare al quadro normativo. Forse si potrebbe semplicemente abbandonare il tentativo di inquadrare il tema come un problema di neutralità, un concetto che porta con sé uno spiccato fascino valoriale (neutrale è bello!), ma rimane una sorta di Giano bifronte. Questa, lo ribadisco, non è una questione giuridica di poco conto. Nel descrivere la policy aziendale come volta a raggiungere la neutralità, la Corte sovraccarica questa policy di un peso che, forse, non merita e rende solo più semplice raggiungere la conclusione che poi raggiunge — ossia, che in linea di principio, una policy di neutralità (come interpretata dalla compagnia e avallata dalla Corte) tout court (una volta verificata come il mezzo meno invasivo) prevale sulla libertà di Chaya di manifestare (accezione minima) o di praticare (accezione ampia) la propria religione, così come l’impatto diverso tra le varie religioni e la discriminazione che ne segue.

Perché non dire semplicemente che la società esercita la propria libertà di impresa (ai sensi dell’articolo 16 della Carta di Nizza), una libertà che, come è normale che sia, soggiace a limiti legislativi di carattere generale (per esempio di diritto del lavoro) ed è limitata, ancor di più, quando si scontra con libertà individuali equivalenti o più meritevoli di tutela?

Una volta rimossi il fardello o il frastuono valoriale della neutralità, l’intuizione di molti dovrebbe essere che la libertà individuale di coscienza e di religione debba prevalere sugli interessi economici dell’azienda — anche se molti altri potrebbero forse propendere per la tesi opposta. Ma tutti dovrebbero concordare sul fatto che la compagnia avrebbe dovuto fornire ragioni stringenti per cui la sua policy dovrebbe avere la meglio. Liberi dal peso valoriale positivo di un termine ambiguo come «neutralità», la posta in gioco diventa più chiara e la scelta di valore che la Corte compie con tale arroganza diventa più trasparente.

Messa in questi termini, la giustificazione per una compressione della libertà religiosa (di manifestare o di praticare) come quella operata dalla compagnia merita una giustificazione migliore e più approfondita di quella offerta dalla semplice parola «neutralità», che — si è tentato di mostrare — in questo contesto si rivela altamente problematica.

La Corte, infatti, insiste, ancora e ancora, sul fatto che la carta vincente dell’azienda sia il suo diritto di fornire ai propri clienti un ambiente «neutrale». Perché bisognerebbe dare così tanto peso alle preferenze dei clienti? In un certo senso, tutta questa enfasi non contraddice almeno lo spirito della sentenza Bougnaoui? Il telos della nostra legislazione contro le discriminazioni, come si è avuto modo di vedere nella citata decisione – infinitamente meglio argomentata – della Corte Edu, è quello di combattere il pregiudizio e l’intolleranza che alimentano i nostri istinti e le nostre pratiche discriminatorie. Non potrebbe, o meglio non dovrebbe, leggersi la Direttiva 2000/78/Ce  — e le altre norme più rilevanti di cui la Direttiva non è altro che una specificazione, come la Corte si affanna a sottolineare — come se a un’azienda fosse permesso di definire, come meglio crede, la propria nozione di neutralità, a condizione però che non produca effetti deteriori sulle categorie espressamente protette dalla Direttiva, a meno che non vengano forniti davvero dei validi motivi? Dopo tutto, le ragioni dei clienti che ispirano la definizione di neutralità dell’azienda non potrebbero esse stesse costituire la base del pregiudizio e dell’intolleranza che proprio la Direttiva 2000/78/Ce intende combattere? Alcuni dei clienti non vogliono essere serviti da un ebreo, altri da un musulmano. Si definisce questa neutralità e a quel punto questi dipendenti o sono licenziati oppure sono relegati nel back-office. Non è un modo particolarmente auspicabile per la nostra società, in nome della quale la Direttiva è stata emanata, di combattere il pregiudizio che alimenta — e in questo caso addirittura consegue — la discriminazione e l’esclusione.

6. Infine, vanno prese in considerazione le misure aziendali in quanto potenzialmente in grado di creare una discriminazione indiretta, ma non una discriminazione diretta. Si tratta, in effetti, dell’unica questione formalmente rivolta alla Corte nel rinvio pregiudiziale e alla quale i giudici del Lussemburgo forniscono una risposta chiara: si tratta di una potenziale discriminazione indiretta. Ciò fa la differenza perché l’onere della giustificazione è diverso a seconda del tipo di discriminazione.

Un classico esempio di discriminazione indiretta, per esempio, è quello del vecchio requisito previsto per i poliziotti inglesi, uomini e donne, di essere alti almeno 1 metro e 82 centimetri. Questo produce un impatto diverso sulla possibilità delle donne di entrare nelle forze di polizia. A meno che non si fornisca una giustificazione adeguata, verrebbe considerata una discriminazione indiretta. Viceversa, se si prendesse di mira direttamente la categoria femminile tramite, per esempio, la previsione di un contingentamento di donne nella polizia, questo sarebbe un caso di discriminazione diretta.

Quel che conta è che il parametro adottato per l’atto che produce l’effetto discriminatorio nulla abbia a che fare con il gruppo sociale colpito dalla misura. Nel caso dei poliziotti inglesi, il criterio per la selezione è costituito, in effetti, da metri e centimetri o da piedi e pollici. Lo scopo della misura è di creare una forza di polizia più efficace, basandosi sulla convinzione (erronea) che una persona alta sarebbe anche un agente più efficiente (e, infatti, tale criterio non è più seguito).

Nel caso Achbita, lo scopo della policy aziendale è quello di garantire la «neutralità» al supposto fine di offrire un rapporto più «professionale» con gli impiegati o qualcosa del genere, ma il parametro usato coincide esattamente con le categorie protette, ovverosia la religione, le «convinzioni». Se si usa come parametro di selezione la stessa categoria protetta, si passa immediatamente da una discriminazione «indiretta» a una discriminazione «diretta». Di contro, è indiretta la discriminazione tra religioni diverse: tutte le religioni sono colpite, ma la misura interessa alcune religioni più di altre

Nel caso Chez/Nikolova, la Corte di giustizia non ha ritenuto sufficiente la motivazione fornita dall’azienda per giustificare l’adozione di una prassi asseritamente neutrale (collocare i contatori elettrici più in alto in certe aree della città in cui se ne temeva la manomissione), ma ha invitato il giudice nazionale a esaminare tutte le circostanze del caso per verificare se la misura non fosse invece stata introdotta per ragioni legate alla razza. Ecco il passaggio della decisione: «la Direttiva 2000/43 deve essere interpretata nel senso che un provvedimento come la prassi controversa costituisce una discriminazione diretta qualora risulti che detta misura sia stata posta in essere e/o mantenuta per ragioni connesse all’origine etnica comune alla maggior parte dei residenti del quartiere di cui trattasi, fatto che spetta al giudice del rinvio valutare, tenendo conto di tutte le circostanze rilevanti» (16).

È sufficiente sostituire «origine etnica» con «religione» e la logica di quel caso sembra essere la stessa applicabile alla vicenda Achbita. In questo caso, non vi sarebbe neppure bisogno di indagare troppo a fondo, perché il riferimento alla «religione» e alle «convinzioni» (le categorie protette) è espresso nella formulazione stessa della policy aziendale.

Fa qualche differenza se sono colpite «tutte» le religioni e le credenze? Non ne sono sicuro. La Corte europea dei diritti dell’uomo si riferisce a qualsiasi «individuo che abbia fatto della religione il fulcro della propria vita». Sono molti gli individui che potrebbero non rientrare in queste categorie e che pertanto non dovrebbero essere lesi allo stesso modo dalla politica aziendale. La stessa individuazione di due categorie protette nella definizione di «neutralità» trasforma tale policy in una discriminazione diretta. Il diverso impatto prodotto nei confronti delle varie religioni rimane una discriminazione indiretta.

Potrebbero però sempre esserci ragioni che giustificano una discriminazione diretta. Se, per esempio, una Sinagoga sta cercando un rabbino, o una chiesa un sacerdote, esse insisteranno ovviamente che sia ebreo nel primo caso e cristiano nel secondo. Forse questo sarebbe giustificabile. Quest’uso del parametro della religione non sarebbe tuttavia definito come una «discriminazione indiretta»; sarebbe semmai una discriminazione diretta, ma forse giustificata. Oppure se in una casa di accoglienza per donne che sono state vittime di maltrattamenti si richiedesse la presenza di personale solo femminile, questo costituirebbe sì una discriminazione diretta, ma senza dubbio giustificata.

Anche se la Chiesa o la Sinagoga hanno definito la propria politica di «reclutamento» in termini di «idoneità» e pertanto hanno identificato il parametro nell’appartenenza esclusiva alla religione ebraica o cristiana, non ridefiniremmo comunque questo criterio di scelta come una «discriminazione indiretta». Ma non è forse quanto accade nella vicenda Achbita? La società intende escludere ogni manifestazione ideologica o religiosa, per cui utilizza specificamente la «religione» e le «convinzioni personali» come un criterio di esclusione e semplicemente lo chiama «neutralità». Tale scelta rende la discriminazione meno diretta (sia essa giustificata o meno)?

Si pensi al seguente ipotetico dialogo tra un avvocato e il suo cliente:

Cliente: «Davvero non mi piacciono che tutti questi credenti con i loro crocifissi, kippah e hijab servano la mia clientela. Posso semplicemente proibirlo?»

Avvocato: «No, sarebbe una discriminazione diretta, espressamente vietata dal diritto dell’Unione»

Cliente: «Quindi?»

Avvocato: «Le dirò io come fare. Aggiungiamo anche le convinzioni filosofiche che, fra l’altro, sono pure proibite e chiamiamo questo una “politica di neutralità”. Alla peggio, sarà ritenuta una discriminazione indiretta, rispetto alla quale i controlli sono meno penetranti; nella migliore delle ipotesi, invece, poiché la neutralità è ritenuta uno scopo legittimo, tutto quello che bisognerà fare è dovrà semplicemente dimostrare che non c’era alcuna mansione disponibile nel back-office. E così potrà liberarsi del tutto di loro».

Poiché l’idea secondo cui quanto avviene in questo caso costituisce una discriminazione indiretta sembra così diffusa, è auspicabile che l’analisi di cui sopra sia compiuta con minore «convinzione».

7. Come evidenziato, le pratiche di qualsiasi religione, non ultimo l’Islam, non sono immuni da critiche (e ve ne possono essere tante!). né quei riti che possono risultare odiosi per i nostri valori fondamentali debbono essere accettati solo perché si radicano in un credo religioso. E si potrebbe anche legittimamente attendere che chi si unisce a noi, nelle parole della ormai defunta Costituzione europea, «[…] nel percorso di civilizzazione, progresso e prosperità per il bene comune […] inclusi i più deboli e i più bisognosi […] per restare un continente culturalmente aperto, erudito e socialmente progredito […]», abbracci le nostre aspirazioni e i nostri valori. Ma una componente essenziale di questi stessi valori è la nostra ferma fiducia nel pluralismo e il nostro impegno a favore della tolleranza e della libertà religiosa. I nostri ordinamenti liberali non dovrebbero comportarsi come gli Stati confessionali di un tempo, e unirsi a noi non dovrebbe richiedere di abbandonare la propria fede e religione o di costringere qualcuno a violarne i precetti senza una motivazione valida. Proprio come il nostro impegno a rispettare la libertà di manifestazione del pensiero è messo alla prova quando si tratta di discorsi che ci offendono, il nostro impegno alla tolleranza, al pluralismo e alla libertà religiosa è messo alla prova quando è sfidato. Comunque la si pensi, per esempio, sull’Islam, è ripugnante dipingere un individuo con un pennello che gocciola di odio di gruppo.

Spero che nessuno sia così meschino da pensare che abbia spostato l’attenzione da Samira la musulmana a Chaya l’ebrea per una preoccupazione verso i miei confratelli ebrei. Per ragioni ben note, la popolazione di religione ebraica in Europa è, storicamente parlando, molto ridotta e il numero di osservanti ortodossi come Chaya è ancora inferiore (17). (Se avete l’impressione che siano numerosi dovreste andare in bagno e controllare la «bilancia del vostro pregiudizio»).

Per le stesse altrettanto note ragioni, neppure penso che qualcuno oggi vedrebbe mai in uno spazio pubblico rispettabile un manifesto di questo tipo.

Al contrario, rappresentazioni simili e anche peggiori sono state trovate e possono trovarsi in modo ben visibile anche di recente in molti Paesi europei, fomentati non da gruppi estremisti, ma da quelli che sono diventati i principali partiti rappresentati in Parlamento.

Vi è poca differenza tra le due raffigurazioni. La policy aziendale del caso Achbita lo documenta. Questi manifesti, l’intolleranza e persino l’odio generalizzato che essi rappresentano seguono lo slittamento sillogistico che identifica il pregiudizio religioso e raziale e l’intolleranza. Leggi a parte, abbiamo qui un tradimento della comune decenza e del senso di umanità. La soglia minima per giustificare questo tipo di atteggiamenti dovrebbe essere elevata. Tristemente, nel caso Achbita sembra molto difficile rintracciare una qualsiasi soglia.

È difficile capire come mai la mano di chi ha redatto e firmato la sentenza Achbita non abbia tremato quando ha scritto queste parole: «la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa […] e ha, in linea di principio, carattere legittimo, in particolare qualora il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo solo i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo». Oppure quando ha scritto che la compagnia dovrebbe cercare di «proporle un posto di lavoro che non comporti un contatto visivo diretto con i clienti».

Si, teoricamente, queste affermazioni riguardano tutti. Praticamente, però, colpiscono soltanto le Achbita del nostro sistema europeo. Voi siete a posto — diciamo loro — a patto di non farvi vedere, di nascondere la vostra identità e religione e di non entrare in contatto visivo con noi. Secondo me, questa decisione, al di là di notevoli errori giuridici e di una motivazione carente, non riflette ciò che l’Europa rappresenta.

Samira Achbita, tu sei mia sorella.

(1) C. giust. Ue, causa 157/15, G4S Secure Solutions (“Achbita”).

(2) Sentenza Achbita, par. 15.

(3) Direttiva del Consiglio dell’Unione europea 2000/78/CE del 27 Novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

(4) Sentenza Achbita, par. 18. Si scrive qui «in modo concorde», perché, quando la Corte di Lussemburgo esamina il caso, la sua attenzione è focalizzata sulla qualificazione del diritto di manifestare liberamente il proprio credo sulla base delle diverse norme internazionali ed europee (si cfr. il par. 28), senza quindi considerare altre disposizioni al riguardo (si cfr. par. 26 e i relativi riferimenti).

(5) Oppure trasferendola ad un’altra mansione che non prevedesse il contatto diretto con il pubblico. Non sia mai che qualcuno possa rimanere turbato dalla sua vista. Vedi infra.

(6) Sentenza Achbita, par. 38.

(7) Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Eweida e altri contro Regno Unito, ricorsi n. 48420/10, 59842/10, 51671/10 e 36516/10, sentenza del 15 gennaio 2013, par. 94.

(8) Si veda la sentenza Achbita, par. 44 (secondo capoverso).

(9) È altrettanto chiaro, d’altra parte, come l’ebraismo e l’Islam, proprio come il cristianesimo, non siano religioni monolitiche e che per questo contemplano al loro interno anche correnti e movimenti, che, per dirne una, non considerano obbligatoria la pratica di indossare lo hijab o la kippah, mentre altri lo fanno. Certamente, non compete a noi discutere i comandamenti di una religione e decidere noi per Chaya (o Samira) quale siano i suoi obblighi religiosi. Similmente, anche se il comportamento religioso di Chaya è piuttosto recente, chi siamo noi per giudicare quando qualcuno ha avuto la sua «folgorazione sulla via di Damasco»?

(10) Sentenza Achbita, parr. 42 e 44.

(11)Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Belcacemi e Oussar contro Belgio, ricorso n. 3779/13, sentenza del 11 luglio 2017, e Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Dakir contro Belgio, ricorso n. 4619/12, sentenza del 11 luglio 2011, nonché, naturalmente, Corte europea dei diritti dell’uomo, caso S.A.S. contro Francia, ricorso n. 43835/11, sentenza del 1° Luglio 2014.

(12) Sentenza Eweida, par. 94.

(13) Sentenza Achbita, par. 38.

(14) Causa C-188/15, Asma Bougnaoui e Association de défense des droits de l’homme (ADDH) contro Micropole SA («Bougnaoui»), par. 41.

(15) K. Lenaerts, The Court’s outer and inner selves. Exploring the external and internal legitimacy of the European Court of Justice, in Judging Europe’s Judges. The Legitimacy of the Case Law of the European Court of Justice, a cura di M. Adams, H. de Waele, J. Meeusen e G. Straetmans, Oxford, Oxford University Press, 2013, 13 ss.

(16) Causa C-83/14, CHEZ Razpredelenie Bulgaria (“Chez/Nikolova”), par. 91.

(17) Questo non significa che non sia interessato alla chiara e preoccupante ondata anti-semitica in Europa. Questa assume due forme: una aberrante di tipo sociale che per esempio, è stata oggetto di un aspro dibattito all’interno del partito laburista inglese (e per una comprensione del quale il testo di Anthony Julius «Trials of the Diaspora» è davvero illuminante); un’altra di tipo sanguinario che sta anch’essa aumentando esponenzialmente facendo registrare soprattutto in epoca più recente omicidi perpetrarti ai danni dagli ebrei quasi esclusivamente da estremisti islamici. Ma, come sappiamo bene, si rischia di cadere in quella trappola sillogistica tale per cui la campagna dell’Ira è nelle isole britanniche, quindi tutti gli irlandesi sono terroristi o per cui alcuni ebrei hanno ucciso Cristo, quindi tutti gli ebrei sono deicidi.