La direttiva (UE) 2019/790, recepita in Italia con il d.lgs. 177/2021, ha adeguato la normativa europea sul diritto d’autore all’evoluzione delle tecnologie digitali. Il principale obiettivo è ridurre il value gap, ovvero la differenza fra il valore che alcuni operatori ricavano dallo sfruttamento di contenuti protetti e i proventi versati ai titolari dei diritti. Le nuove tutele al diritto d’autore – la cui effettività è resa complessa dall’enorme potere di mercato di alcuni operatori della rete – sono accompagnate da garanzie per evitare che siano compromessi gli altri diritti e interessi coinvolti, come libertà di informazione, comunicazione e impresa.
La direttiva (UE) 2019/790 –recepita recentemente in Italia con il d.lgs. 177/2021– ha proseguito il processo di armonizzazione della normativa sul diritto d’autore e i diritti connessi, per adeguarla all’evoluzione delle tecnologie digitali. L’iter legislativo è stato accompagnato da un acceso dibattito, intense campagne di lobbying da parte degli operatori, e critiche dalla comunità accademica. L‘attenzione mediatica è stata forte, con l’opposizione di una parte della società civile che è scesa in strada protestando contro quella che credeva sarebbe stata “la fine di internet come lo conosciamo”.
Questo interesse si spiega considerando che la direttiva interviene in settori in cui convivono potenziali conflitti tra la protezione del diritto d’autore e quella di altri diritti meritevoli, quali la libertà di espressione, di informazione e di impresa. Le novità principali (artt. 15 e 17) determinano un bilanciamento nuovo, e più dettagliato, tra i diversi diritti coinvolti, con il fine di ridurre il value gap, ovvero la differenza fra il valore che alcuni operatori della rete ricavano dallo sfruttamento di contenuti protetti e i proventi versati ai titolari dei diritti.
L’art. 15 della direttiva stabilisce che gli editori hanno il diritto esclusivo di autorizzare la riproduzione e la comunicazione al pubblico delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico da parte dei “prestatori di servizi della società dell’informazione”. Si tratta di un diritto connesso, riconosciuto a protezione degli investimenti per la creazione dell’opera: si vuole che operatori come gli aggregatori di notizie retribuiscano gli editori per l’utilizzo online dei loro contenuti. È vero che tali operatori incrementano la visibilità delle pubblicazioni e portano nuovo traffico (e ricavi pubblicitari) ai siti degli editori, ma quasi la metà dei lettori si limita agli estratti riportati dagli aggregatori senza cliccare sui link ai siti degli editori. Questi ultimi non partecipano alle entrate pubblicitarie che i loro contenuti generano sugli aggregatori, che trattengono quindi buona parte del valore di tali contenuti–con rischi per la sostenibilità degli investimenti dell’editoria e, quindi, per “il pluralismo dei media, il dibattito democratico, la qualità dell’informazione e la diversità culturale”.
L’art. 15 è stato adottato dopo anni di accesi dibattiti. Secondo alcuni, visti gli elevati livelli di concentrazione sul mercato della pubblicità online e dei media, l’introduzione del nuovo diritto avrebbe rafforzato i grandi aggregatori e le maggiori imprese editoriali, a discapito dei players più piccoli. Da una parte, solo gli editori principali avrebbero forza negoziale per ottenere adeguato compenso per lo sfruttamento dei loro contenuti. Dall’altra, i grandi aggregatori avrebbero il potere di svincolarsi: per gli editori sarebbe più dannoso non comparire sui loro servizi che rinunciare alla remunerazione. A sostegno di tale osservazione, sono stati ricordati gli effetti deludenti che l’introduzione di un diritto simile aveva avuto in Germania e in Spagna.
Anche quel che sta accadendo in Francia, che ha recepito l’art. 15 già nel 2019, testimonia la difficoltà nell’attuare le nuove disposizioni a causa dell’enorme potere di mercato dei principali soggetti obbligati. L’esperienza francese sembra evidenziare come l’effettività della tutela introdotta debba essere assicurata facendo leva sul diritto della concorrenza. In Francia, una volta entrato in vigore il nuovo diritto, gli editori avevano visto peggiorare le proprie condizioni: Google aveva deciso di non pubblicare più gli estratti dei loro articoli se non avessero fornito una licenza a titolo gratuito. L’87% degli editori ha autorizzato il gigante di Mountain View a utilizzare i propri contenuti gratuitamente; chi non l’ha fatto, d’altra parte, ha sperimentato una significativa riduzione del traffico sui propri siti. Di qui, una prima pronuncia dell’Antitrust francese, che nel 2020 ha censurato Google per abuso di posizione dominante sul mercato dei servizi di ricerca generalista. Tra le ingiunzioni, figurava l’obbligo di condurre delle negoziazioni in buona fede con gli editori sul compenso per l’utilizzo dei loro contenuti. Poiché le ingiunzioni non sono state rispettate, nel 2021 l’Antitrust ha adottato una seconda pronuncia, con cui ha infitto a Google una sanzione di 500 M di euro.
Conscia dei possibili comportamenti ostili dei soggetti obbligati, l’Italia ha recepito l’art. 15 cercando di mantenere sotto l’alveo pubblicistico le negoziazioni tra prestatori e editori: il nuovo art. 43-bis della l. 633/1941, che prevede che i prestatori devono riconoscere agli editori un equo compenso per l’utilizzo online dei loro contenuti, disciplina un complesso meccanismo di “negoziazione assistita”. Le trattative, da condurre in modo trasparente e nel rispetto dell’obbligo di buona fede, si svolgono nel solco di criteri per la determinazione dell’equo compenso elencati in via esemplificativa dalla legge e poi definiti dall’AGCOM. Se entro trenta giorni dalla richiesta di avvio del negoziato non è raggiunto un accordo, ciascuna parte può rivolgersi all’AGCOM, che indica quale proposta economica formulata considera adeguata (o, in sua mancanza, definisce d’ufficio il compenso dovuto). Ciò anche quando una parte, regolarmente convocata, non si sia presentata. Se non si addiviene comunque alla stipula del contratto, ciascuna parte può adire il giudice, anche per abuso di dipendenza economica.
L’art. 17, risultato di un complesso bilanciamento e pertanto recepito in modo assai fedele in Italia (artt. da 102-sexies a 102-decies della l. 633/1941), ha introdotto un regime speciale di responsabilità per i “prestatori di servizi di condivisione di contenuti online”. Si tratta delle piattaforme che concedono l’accesso a contenuti caricati dagli utenti (ad esempio, Youtube), divenute ormai una delle principali fonti di accesso ai contenuti protetti.
Fin dal 2015, i titolari dei diritti avevano evidenziato che queste piattaforme versavano loro proventi insignificanti rispetto a quelli versati dai prestatori di servizi di streaming (come Spotify). Questa situazione dipendeva dall’incertezza sulla responsabilità delle piattaforme in esame nel contesto normativo pre-direttiva. Innanzitutto, non era chiaro se esse effettuassero atti rilevanti per il diritto d’autore (c.d. “comunicazione al pubblico”), e dovessero quindi ottenere l’autorizzazione dei titolari dei diritti per i contenuti caricati dai loro utenti (art. 3 della direttiva 2001/29/CE). Pertanto, molte non si consideravano tenute ad accordarsi con autori e artisti. Inoltre, era discusso se le piattaforme di condivisione potessero beneficiare della mitigazione di responsabilità prevista per i prestatori di servizi della società dell’informazione che memorizzano contenuti forniti dai terzi (art. 14 della direttiva 2000/31/CE). Pertanto, erano spesso i titolari dei diritti a dover reprimere violazioni al diritto d’autore, notificando ai prestatori i contenuti illeciti.
L’art. 17 ha superato queste incertezze, delineando un nuovo regime speciale di responsabilità per le piattaforme in esame. In particolare, la disposizione prevede che queste compiono “un atto di comunicazione al pubblico” quando concedono l’accesso a contenuti protetti caricati dai loro utenti, e che devono quindi ottenere un’autorizzazione dei titolari dei diritti. Stabilisce inoltre che a queste fattispecie non si applica la mitigazione di responsabilità già menzionata.
In mancanza dell’autorizzazione, le piattaforme di condivisione non sono però necessariamente responsabili dei caricamenti illeciti (d’altronde, è improbabile ottenere autorizzazioni per la totalità di contenuti protetti suscettibili di essere caricati dai loro utenti). Ai sensi dell’art. 17, potranno esimersi dalla responsabilità dimostrando di aver soddisfatto cumulativamente tre condizioni:
- aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione secondo elevati standard di diligenza professionale di settore;
- aver compiuto i massimi sforzi, sempre secondo elevati standard di diligenza professionale di settore, per assicurarsi che non siano resi disponibili contenuti specifici per cui hanno ricevuto le informazioni pertinenti e necessarie dai titolari dei diritti;
- dopo la ricezione di una segnalazione sufficientemente motivata dai titolari dei diritti, avere tempestivamente rimosso i contenuti oggetto di segnalazione e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne il caricamento in futuro.
L’art. 17 non impone ai prestatori l’adozione di misure specifiche per prevenire caricamenti illeciti. Sembra però che gli unici strumenti adeguati siano quelli di riconoscimento automatico, che permettono di comparare ogni contenuto con quelli presenti in un database. Secondo alcuni, questi strumenti rischiano di compromettere la libertà di ricevere o di comunicare informazioni, in quanto suscettibili di generare “falsi positivi” e quindi blocchi eccessivi. D’altronde, questi sistemi rilevano corrispondenze tra i file, e non violazioni al diritto d’autore: ad esempio, non possono valutare se un caricamento è legittimo in virtù di un’eccezione al diritto d’autore (quale la critica o la parodia).
Con questa consapevolezza, e per assicurare un bilanciamento tra diritto d’autore e libertà di informazione ed espressione, la direttiva ha previsto diverse garanzie. Innanzitutto, i prestatori sono tenuti ad istituire meccanismi di reclamo perché gli utenti possano contestare la rimozione dei contenuti caricati. In secondo luogo, gli utenti devono potersi avvalere di determinate eccezioni al diritto d’autore. Le linee guida della Commissione chiariscono il comportamento che i prestatori devono adottare per assicurare che gli usi legittimi siano effettivamente fatti salvi – non è sufficiente che i caricamenti legittimi vengano ripristinati dopo essere stati rimossi. Pertanto, i prestatori dovrebbero predisporre blocchi automatizzati solo per i contenuti di manifesta illiceità, mentre gli altri dovrebbero essere ammessi online, potendo diventare oggetto di verifica umana ex post, qualora i titolari dei diritti inviassero una segnalazione.
Sono previste anche garanzie a tutela della libertà di impresa e della concorrenza, per evitare che gli obblighi compromettano l’ingresso e il consolidamento sul mercato di nuovi prestatori. Operatori meno affermati potrebbero avere, infatti, più difficoltà ad adottare le tecnologie necessarie a conformarsi ai nuovi obblighi. Innanzitutto, il nuovo regime si applica ai “grandi” operatori, quelli che danno accesso a un “grande quantità di contenuti” (art. 2, par. 6) e che “svolgono un ruolo importante sul mercato dei contenuti online, in concorrenza con altri servizi di contenuti online” (considerando 62). È inoltre previsto un regime di responsabilità̀ mitigato per le imprese con un fatturato e un pubblico limitati, che sviluppano nuovi modelli di business. Infine, è previsto che le misure prese da ciascun prestatore vanno valutate alla luce del principio di proporzionalità, tenendo conto di elementi come la “dimensione del servizio” o il “costo” degli strumenti disponibili.
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