Visionari, possibilisti o catastrofici: sono questi gli scenari verosimili – e le relative opzioni – per chi si interessa del binomio tra tecnologia e democrazia. Nei contesti politici e istituzionali (locali, nazionali e sopranazionali) l’innesto della tecnologia sul terreno della partecipazione democratica è in avanzato stato di maturazione. Tra i fronti aperti – e solo in parte esplorati – c’è invece quello relativo all’utilizzo della tecnologia blockchain nell’esercizio del diritto di voto. La domanda che molti si pongono è semplice, ma ancora senza una risposta: le ‘democrazia in sequenza’ sono più sicure e trasparenti?
Si scrive e discute intensamente del binomio tra tecnologie e sistemi democratici (QUI l’area dedicata al tema dell’Osservatorio). Per grandi linee, e con un buon grado di approssimazione, chi si avvicina al tema ha tre possibili opzioni. Può optare per approcci visionari (tecnologie che rendono possibili decisioni pubbliche co-create avvalendosi delle competenze e conoscenze distribuite nella popolazione – di cui abbiamo parlato QUI e QUI); oppure virare verso orientamenti possibilisti (li presidiano autori pragmatici, che nelle tecnologie individuano un mezzo servente la qualità del processo decisionale democratico – ne abbiamo scritto QUI e QUI); oppure cedere all’immaginario catastrofico (in cui prevalgono le preoccupazioni dovute alle diseguaglianze crescenti, la disinformazione dilagante e la polarizzazione delle opinioni – alcuni esempi QUI, QUI e QUI).
Nei contesti politici e istituzionali, l’innesto delle tecnologie sul terreno della partecipazione democratica è in avanzato stato di maturazione, al punto da vantare numerosi esempi, virtuosi e non. Nei contesti locali, ad esempio, troviamo amministrazioni digitali (Madrid e Barcellona, in Spagna, la città di Parigi e, in Italia, le amministrazioni di Torino e Roma) che sfruttano la tecnologia per consultare i cittadini (ne abbiamo scritto QUI).
A livello nazionale e sopranazionale proliferano addirittura le piattaforme (digitali) istituzionali per coinvolgere i cittadini nella costruzione delle politiche pubbliche, in tempo reale. L’idea è vecchia – già nel 1992 Ross Perot, candidato indipendente alle presidenziali statunitensi, immagina la ‘one hour, one issue’: sessanta minuti giornalieri di trasmissione televisiva, al termine dei quali ogni cittadino americano avrebbe potuto esprimere la sua opinione, attraverso il televisore – ma la sua attuazione è recente. Nel contesto dell’Unione europea, ad esempio, la democrazia digitale spazia da vere e proprie piattaforme (la più nota è Futurium) a formule più tradizionali (e decisamente meno interattive) come le consultazioni pubbliche online organizzate dalla Commissione, fino a iniziative ibride – come nel caso della Conferenza sul futuro dell’Europa (di cui abbiamo scritto QUI). A livello nazionale, l’offerta di democrazia digitale include sia iniziative generaliste come il Grand Débat national francese, il We the People statunitense (e, facendo un passo indietro di qualche anno, le consultazioni pubbliche online dei Governi Monti e Letta in Italia) sia sperimentazioni complesse e articolate come vTaiwan.
Ora, al netto delle diverse declinazioni che può avere il binomio tecnologia-democrazia, c’è un elemento ricorrente e, ai nostri fini, importante: cioè l’idea ambiziosa secondo cui quelle conoscenze si possano trasporre all’interno delle decisioni pubbliche, e che questa trasposizione possa strutturarsi, dando così vita a una dialettica stabile (la ‘democrazia continua’ di cui scriveva Stefano Rodotà) tra la ‘Piazza’ e il ‘Palazzo’.
In realtà, alla prova del digitale, molte istituzioni democratiche offrono uno spettacolo (ancora) deludente. A fronte delle potenzialità che promettono di esprimere e della sofisticazione delle tecnologie di cui si servono, la gran parte delle esperienze di democrazia digitale delle politiche ha mancato gli obiettivi che si era posta. Le piattaforme digitali per la partecipazione ricevono perlopiù le sollecitazioni di un ristretto bacino di interessi, peraltro sempre gli stessi. Hanno spesso obiettivi troppo ambiziosi, che inevitabilmente deludono la platea dei destinatari. Oppure esauriscono troppo rapidamente la propulsione iniziale, perché private del necessario sostegno da parte della sfera politica che le aveva sostenute (alimentando di nuovo l’insoddisfazione tra coloro che avevano partecipato – ne abbiamo scritto QUI). Come se non bastasse, molte critiche vengono rivolte alla non-neutralità delle tecnologie cui si affida il funzionamento delle piattaforme digitali per la partecipazione.
Dobbiamo partire da questi problemi per comprendere le potenzialità e i limiti di un’altra tecnologia – la blockchain (di cui abbiamo parlato approfonditamente, in particolare QUI, QUI e QUI) – e verificare se questa sia applicabile, praticabile e, soprattutto, sostenibile, in contesti democratici, specificamente nell’esercizio del diritto di voto. Un articolo apparso sullo European Journal of Risk Regulation nel 2019 raggiunge proprio queste conclusioni: al netto dei problemi tecnici legati all’utilizzo della tecnologia blockchain su larga scala, non sono stati ancora sciolti i nodi relativi alla fiducia dell’opinione pubblica nei confronti dei governi e delle istituzioni e, secondariamente, alla redistribuzione dei poteri decisionali tra i decisori pubblici.
Guardiamo anzitutto i benefici. La tecnologia blockchain consente di tutelare lo scambio di informazioni tra soggetti, vincolandone la circolazione alla certificazione da parte di chi le invia e riceve. In una rete blockchain nessuno è detentore esclusivo di un’informazione e della possibilità di scambiarla. Abbiamo già qualche esempio. Nel Gennaio del 2018 Koinearth, una startup indiana, ha annunciato di aver integrato il sistema di voto tradizionale con la tecnologia blockchain. Già qualche mese prima la non-profit californiana Democracy Earth aveva proposto qualcosa di simile con il progetto Sovereign. L’idea è di appoggiarsi a piattaforme blockchain già esistenti, ma anziché generare criptovalute, queste producono unità di voto. Gli utenti possessori di queste unità possono allocarle a favore di organizzazioni rappresentative di interessi – un partito politico, ad esempio. C’è però il vantaggio di poter discutere con gli altri utenti in merito all’allocazione delle unità, e quella di assegnare un numero più alto di unità allo stesso tema.
Di alcuni problemi abbiamo fatto cenno poc’anzi. A questi se ne aggiungono altri tre (e ne abbiamo scritto approfonditamente QUI): Il primo riguarda la sicurezza complessiva della rete Internet, che blockchain non è in grado di mitigare. Il secondo è di natura tecnica e riguarda le modalità di decrittazione delle informazioni di voto. Il terzo è relativo alla garanzia dell’anonimato dei votanti (cui si oppone la filosofia stessa della tecnologia blockchain, che è basata sulla trasparenza e conoscibilità).
La tecnologia garantisce già la sequenzialità e trasmissibilità dei dati. Le democrazie contemporanee però non sembrano ancora pronte a recepire un cambiamento così radicale.
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