Da sempre l’esercizio della funzione amministrativa adopera le tecnologie di uso corrente. Negli ultimi anni, con l’avvento dell’informatica, l’osmosi tra tecnologia e regolazione pubblica ha subito un’accelerazione importante. Si parla al riguardo di soluzioni ‘Low-Tech’ e le si pone a confronto con innovazioni tecnologiche più avanzate, cui si fa riferimento con l’espressione ‘Regulatory Technology’ – o Reg-Tech. Le soluzioni Low-Tech rappresentano lo status quo dell’amministrazione digitale. Il RegTech figura invece scenari di frontiera, in cui la regolazione adegua il proprio passo a quello degli operatori commerciali nell’acquisizione, trattamento e circolazione delle informazioni. Il Governo australiano ha recentemente pubblicato uno studio che si interroga sulle sfide che aspettano le pubbliche amministrazioni nel processo di transizione verso il RegTech.
L’abaco usato dal cortigiano babilonese per la contabilità, i caratteri mobili per la stampa degli editti e dei proclami, la Lettera 22 in uso presso le amministrazioni italiane del secondo dopoguerra, l’esercizio della funzione amministrativa ha sempre seguito, e adoperato, le tecnologie di uso corrente.
L’avvento dell’informatica ha accelerato l’osmosi tra tecnologia e regolazione pubblica, al punto che oggi si parla di soluzioni Low-Tech (i registri telematici per le transazioni commerciali, ad esempio) e le si pone a confronto con innovazioni tecnologiche più avanzate. A queste ultime si fa riferimento, in generale, con l’espressione Regulatory Technology, o Reg-Tech. Ancora diversi sono i casi del Gov-Tech (ne ho parlato QUI) e del Leg-Tech (di cui invece ho scritto QUI). Anche il primo fa riferimento all’utilizzo della tecnologia nel settore pubblico, ma concentra l’attenzione sui partenariati pubblico-privato. Leg-Tech invece descrive in modo generico gli studi che si occupano di rapporti tra diritto e tecnologia.
Torniamo alle tecnologie Low-Tech e Reg-Tech. Le prime rappresentano lo status quo dell’amministrazione digitale. Il che non significa necessariamente tecnologie a bassa prestazione o incapaci di individuare quali sfide si presenteranno alla regolazione pubblica digitale. A separare profondamente Low-Tech da Reg-Tech c’è l’approccio alla gestione dei problemi. Il Reg-Tech figura scenari di frontiera, in cui la regolazione adegua il proprio passo a quello degli operatori commerciali (soprattutto nel settore finanziario) nell’acquisizione e trattamento delle informazioni. Per questo motivo, il Reg-Tech offre margini più elastici di miglioramento della qualità della regolazione, con un superamento talora netto degli standard attuali.
Il Governo australiano ha recentemente pubblicato uno studio che si interroga sulle prospettive legate alla diffusione del Reg-Tech per i regolatori pubblici. Quello australiano, peraltro, è il terzo mercato più importante per gli operatori del Reg-Tech (pari al 13% del totale – secondo solo al Regno Unito con il 18% e agli Stati Uniti con il 29%).
Gli autori dello studio insistono su due punti. Il primo riguarda le aree di potenziale sviluppo delle tecnologie di avanguardia. Ce ne sono tre: la gestione di scenari complessi, la valutazione del rischio, nonchè l’analisi, monitoraggio e utilizzo dei dati. Non a caso, sono aree fondamentali per gli operatori di mercato. Da tempo costoro si misurano con il potente acceleramento della trasmissione di informazioni finanziarie, nel tentativo di controllarlo. Consapevoli della imprescindibilità di analisi tempestive di massicci flussi di dati, gli operatori finanziari si avvalgono della tecnologia informatica per prendere decisioni, talora cruciali, nell’arco di pochi secondi (si parla di FinTech – ne abbiamo scritto QUI, QUI e QUI). Presidiare efficacemente l’andamento di un mercato non è più soltanto questione di intuizione e spregiudicatezza. Dipende anche dal possesso di una eccellente connessione alla rete e di una solida preparazione nel data analytics. In quale misura questo approccio è utile alle pubbliche amministrazioni? La sensibilità del settore pubblico ai dati non è nuova. La consapevolezza della rapidità con cui si raccolgono e utilizzano questi dati, invece, è più recente. Lo ha mostrato in modo chiaro la pandemia in corso (ne ho scritto QUI e QUI). Lo studio cita un esempio virtuoso: le misure di sostegno economico erogate dal governo australiano a favore di coloro che, durante la prima ondata COVID-19, hanno subito una contrazione del volume d’affari della propria attività imprenditoriale. Il rapido incrocio tra banche dati pubbliche ha consentito la tempestiva erogazione dei sussidi ai richiedenti.
Lo studio si concentra poi sui benefici attesi dal Reg-Tech. Questi possono riassumersi in due grandi famiglie. Da una parte, i miglioramenti di processo (la gestione dei dati, l’interoperabilità e lo scambio delle informazioni); dall’altra invece l’ottimizzazione dei risultati (ad esempio decisioni più rispettose della sfera privata, oppure attente alle diverse esigenze della platea di destinatari delle decisioni, dalla società civile agli operatori economici).
Dati questi benefici, rimangono aperte alcune questioni importanti. Anzitutto quella relativa al processo di transizione dalle tecnologie di uso corrente presso le amministrazioni a quelle d’avanguardia. Gli autori suggeriscono, al riguardo, un approccio graduale e sperimentale. Auspicano cioè interventi mirati e progressivi, che consentano alla struttura presso cui sono introdotti di adeguarsi al cambiamento. Si pensi al caso della mobilità intra-urbana. La tecnologia in uso in Australia (e in molte altre parti del mondo – in Italia è noto come sistema ‘Tutor’) è basata sulla raccolta, a intervalli regolari, dei dati relativi alla velocità media dei veicoli in transito. Il superamento di una media ponderata innesca la sanzione amministrativa. Il South New Wales, che ha sperimentato un sistema basato sulla moltiplicazione delle sorgenti di dati (videocamere, sensori, o droni) ha generato un risparmio netto di 138 milioni di sterline australiane per le casse pubbliche, frutto della riduzione del numero di incidenti mortali.
Emerge qui un secondo punto, quello della complessità. Concetto difficile da definire, secondo lo studio è causa di costi diretti e indiretti per le pubbliche amministrazioni. Una tecnologia più avanzata, sostengono gli autori, faciliterebbe l’interoperabilità dei dati (pilastro delle politiche digitali di molti Paesi, tra cui l’Italia) e quindi il miglior governo della complessità. La via preferibile indicata per raggiungere questo risultato si iscrive nel solco delle esperienze di Gov-Tech: suggerisce cioè il ricorso ad accordi e partenariati con operatori privati (startup e aziende tech in particolare).