Nel 1964, per opera soprattutto del giurista e scienziato politico Giuseppe Maranini, nacque una “Alleanza costituzionale” con l’intento di contribuire a promuovere una riforma delle istituzioni repubblicane attraverso una revisione della Costituzione del 1948. Aderirono alla Alleanza accademici come Guido Astuti, Marello Capurso, Enrico Opocher, Pietro Rescigno, magistrati eminenti quali Mario Berutti, Salvatore Giallombardo, Vincenzo Chieppa, Filippo Romani; e persino un sottosegretario socialista del governo Moro allora in carica, Leonetto Amadei. Nel manifesto costitutivo si proponeva di “sollevare al di sopra delle fazioni politiche il problema tecnico di una riforma delle istituzioni”, si criticava la prevalenza dei partiti e la legge elettorale proporzionale ostacolo al formarsi di maggioranze stabili, si eccepiva che “attuare la Costituzione” rappresentasse una “formula inadeguata”, giacché – si argomentava – “un’attuazione solo meccanica delle parti inattuate potrebbe rivelarsi superata e perfino pericolosa”, mentre si sarebbe dovuta avviare una “revisione del nostro ordinamento”, in particolare quanto al ruolo in esso dei partiti e dei “reciproci rapporti fra i supremi organi dello Stato e della magistratura”.
Paolo Barile (1917-2000), eminente costituzionalista, tenace sostenitore della attuazione piena della Costituzione, respinse subito e decisamente l’appello dell’Alleanza, scrivendone tre pagine di aspra critica nelle pagine della rivista di Beniamino Finocchiaro “Politica e Mezzogiorno”. Vi si possono rileggere oggi i motivi cruciali di una critica alle posizioni di Maranini che all’epoca non fu espressa dal solo Barile, e le ragioni di una cultura profondamente legata alla stagione della Costituente. Nelle proposte dell’Alleanza, per converso, emergevano le prime serie critiche al funzionamento del sistema dei partiti, con qualche asprezza liquidatoria forse, ma allo stesso tempo con qualche sorprendente anticipazione di posizioni destinate a riemergere qualche decennio più tardi.
La critica di Barile non passò però senza suscitare una risposta. Nel numero successivo della rivista uscirono due repliche, rispettivamente di Leonetto Amadei, chiamato in causa per aver sottoscritto l’appello, e dello stesso Maranini. Tranquillizzante il tono del sottosegretario socialista (“Discutere non significa affatto accettare”, si difendeva, accennando a una “diversità” emersa nel gruppo dei firmatari circa il passaggio contrario all’attuazione costituzionale). Più di sostanza la risposta di Maranini, tesa a respingere l’accusa di “eversione” ma ferma nel ribadire la critica: “il sistema cammina male, è poco democratico e se non lo correggiamo in tempo facciamo il giuoco degli avversari della democrazia”. Maranini si protestava poi “non antiregionalista” ma preoccupato di un varo delle Regioni attuato “senza che venga corretta la condizione di labilità dell’esecutivo, senza che vengano ristabiliti i diritti degli elettori per quanto riguarda la determinazione dell’indirizzo politico fondamentale e la scelta dei parlamentari; senza che sia consolidata la Corte costituzionale e davvero garantita l’indipendenza della magistratura”.
In due pagine di chiosa, Barile avrebbe preso atto delle “ragioni” dei suoi interlocutori, ma anche ribadito in fondo le sue critiche al manifesto dell’Alleanza costituzionale: “lo sforzo dialettico del professor Maranini – avrebbe scritto con qualche ironia – non può superare il testo dell’appello, può soltanto, mettendo in rilievo gli inconvenienti della Costituzione vivente, invitare ad un perfezionamento dell’attuazione della Costituzione. Su questo sono d’accordo anch’io”.
Il manifesto conclude con l’invocazione di un’ “urgente revisione del nostro ordinamento”, in particolare sotto i profili dei partiti, dei “reciproci rapporti fra i supremi organi dello Stato” e della magistratura. Un tale atteggiamento è per me (…) inammissibile (…) ed è comunque pericoloso, perché respingere dichiaratamente l’attuazione della Costituzione e proporne senz’altro la revisione a meno di vent’anni dalla sua entrata in vigore vuol dire tentare di scardinare ab imis, in nome di una tecnica, tutta una concezione politica, quella appunto che diede vita alla Costituzione. Si noti: la polemica antipartitocratica non tiene il dovuto conto del principio della pluripartiticità che è uno dei capisaldi della Costituzione (che pur non esclude un intervento del legislatore in proposito); il “pericolo” dell’attuazione integrale della Costituzione si riferisce soprattutto, evidentemente, all’attuazione delle Regioni, quando invece proprio nella mancata istituzione di esse sta una delle ragioni della debolezza del nostro Stato; la polemica antiproporzionalistica è una polemica facile, ma sterile e meramente distruttrice, perché difficile è poi dire che cosa si vorrebbe sostituire al proporzionale, che sicuramente è nello spirito della Costituzione (…); le “modificazioni dei rapporti tra i supremi organi dello Stato” involgono una sicura conversione od eversione dell’intera forma di governo che oggi ci regge (…), significa buttar via una costituzione materiale, non solo formale, e sostituirla con un’altra.
Paolo Barile, Un appello incauto, in “Politica e Mezzogiorno. Rivista trimestrale di studi meridionalistici diretta da Beniamino Finocchiaro”, a. II. N. 4, ottobre-dicembre 1965, pp.371-373 (la cit. è a p. 372).