Nell’articolo si ricostruiscono le ragioni storiche e istituzionali che hanno determinato la mancata o parziale attuazione di alcune disposizioni della Costituzione italiana. Anche se le cause sono state diverse, tale inattuazione ha avuto due effetti «unitari». Il primo è che essa ha prodotto una continuità tra l’Italia repubblicana e quella monarchica. Il secondo è che essa ha rafforzato lo Stato a scapito della società. Ci si interroga, infine, se alcune istituzioni, come la Corte costituzionale o il Presidente della Repubblica, avrebbero potuto sollecitare il legislatore ad attuare le norme costituzionali «dimenticate».
Come avrebbe potuto essere l’Italia oggi se, a partire dal 1948 — come disposto dalla Costituzione —, fosse stata promossa piena parità di genere, fosse stato richiesto a tutti i cittadini l’adempimento del dovere di concorrere al progresso della società, fosse stato garantito asilo in Italia agli stranieri privi delle libertà democratiche, fosse stato garantito ai capaci e meritevoli di raggiungere i gradi più alti degli studi e di avere accesso agli uffici pubblici mediante concorso, fosse stata introdotta la collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, fosse stata affidata a comunità di lavoratori e di utenti la gestione di imprese e categorie di imprese di servizio pubblico e relative a fonti di energia o in situazione di monopolio, fosse stato promosso l’accesso del risparmio popolare al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese, fosse stata assicurata la rieducazione dei condannati, fosse stata salvaguardata l’imparzialità dell’amministrazione?
Queste ed altre sono «promesse» costituzionali non mantenute o tradite, e fanno parte di una vicenda che è stata spesso indagata, quella della lentissima o mancata attuazione della Costituzione. Si cominciò con il riconoscimento della natura «programmatica» di molte norme costituzionali, che rinviava al futuro la loro attuazione, mettendolo nelle mani del legislatore. Poi si passò alla fase della «Costituzione da attuare» e al «disgelo costituzionale», che si chiuse nel 1970, con l’avvio delle regioni, seguita presto, dal 1983, dalla fase della «Costituzione da riformare», sia per modificare norme che non hanno funzionato, come quelle sul governo, sia per introdurre disposizioni o non considerate dai costituenti o rese necessarie dai tempi nuovi. Queste idee riformatrici hanno incontrato molti ostacoli, salvo le minori riforme del 2001 e del 2020, mentre la Costituzione tedesca è stata modificata tre volte di più di quella italiana, nello stesso periodo di tempo.
La Costituzione repubblicana doveva esser una cesura rispetto alla costituzione precedente. È diventato un lungo trapasso, per di più non completato, e che forse non è destinato ad essere mai completato, perché alcune norme costituzionali sono scivolate fuori dall’agenda politica del Paese, sono state «dimenticate», sono — forse — diventate persino inattuali.
Queste norme «dimenticate» fanno parte delle disposizioni più «visionarie» della Costituzione (definite «presbiti», dagli stessi protagonisti della fase costituente, per distinguerle da quelle «miopi» della seconda parte), norme che miravano a ridisegnare i rapporti tra Stato e cittadino, riducendo il divario società civile — poteri pubblici: basti pensare alla socializzazione delle imprese (art. 43), alla cogestione (art. 46), all’azionariato popolare nei grandi complessivi produttivi (art. 47, comma 2), al «people’s empowerment» che si realizza mediante l’accesso all’istruzione fino ai livelli più alti (art. 34, comma 3), ai doveri di solidarietà (art. 4, comma 2), a quella sintesi contenuta nell’espressione «libertà democratiche» (art. 10). Aver «dimenticato» queste ed altre disposizioni ha privato il Paese di una ricchezza di istituzioni che avrebbe potuto condurlo in altre direzioni.
La mancata o parziale attuazione di norme come queste è il frutto di processi diversi. In qualche caso vi è stato un «congelamento» fin dall’inizio, nel senso che non si è neppure tentato di dare ad esse attuazione (basti pensare ai consigli di gestione e alle comunità di lavoratori e di utenti). In altri, di elusioni o aggiramenti, nel senso che l’ordinamento ha preso altre strade (ad esempio, le norme sulla registrazione, sull’ordinamento interno democratico e sulla rappresentatività dei sindacati). In altri di disapplicazioni o di parziali applicazioni (come nel caso della parità di genere o dell’accesso mediante concorso agli uffici pubblici), o persino di indolenza legislativa (come nel caso del diritto di asilo). In altri casi è il frutto di una pluralità concorrente di motivi.
Anche il processo storico che ha portato all’accantonamento di queste norme è stato diverso da caso a caso, e non è stato lineare. Si pensi soltanto al decentramento e al riconoscimento delle autonomie, che ha fatto lentamente passi avanti, poi autentici balzi, per poi ritornare indietro durante le emergenze.
Più importanti cause ed effetti delle diverse elusioni costituzionali. In qualche caso, la storia ha preso direzioni diverse. Un esempio è quello che vede congiuntamente l’accentramento sindacale, l’abbandono dell’articolo 49 della Costituzione e l’accantonamento della cogestione (che avrebbe eroso il potere delle centrali sindacali), tutte parti di una stessa storia, quella che ha visto la rinuncia dello Stato a svolgere propri compiti nella materia sindacale, aperta e accompagnata dallo sviluppo della cultura del settore, che ha grandemente facilitato tale storia di astensionismo legislativo a favore dei sindacati, la cui organizzazione interna «a base democratica» non è stata mai controllata dallo Stato, nonostante gli importanti compiti rappresentativi che quest’ultimo ha ad essi delegato o lasciato svolgere. In altri casi, la causa della «dimenticanza» va cercata in lentezze culturali (così in materia di parità di genere) o in vere e proprie resistenze, anche dovute al mutare delle condizioni materiali (così in tema di diritto di asilo, in presenza del moltiplicarsi di richiedenti, per l’accentuarsi del fenomeno migratorio). È però anche accaduto che le norme non attuate fossero deboli, per timidezza dei costituenti, come nel caso delle socializzazioni e che il compromesso iniziale, che apriva la porta a più soluzioni (in particolare, la pubblicizzazione e la statizzazione) abbia consentito il prevalere di queste ultime, più rispondenti alla tradizione istituzionale italiana, che conosceva da lungo tempo le partecipazioni statali. Non tutte le elusioni costituzionali vanno quindi attribuite a volontà contrarie o a resistenze, emerse dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Insomma, sono stati all’opera molteplici fattori, dalle tradizioni prevalenti (e, quindi, la continuità) ai cambiamenti di culture (e quindi, la discontinuità).
Pur avendo tante cause diverse e non un disegno complessivo e unico (anche perché dietro ad essa non vi sono state le stesse forze), la mancata traduzione della carta costituzionale in una costituzione vivente ha tuttavia prodotto alcuni effetti che si possono definire unitari. Il primo effetto è stato quello di aver accentuato l’elemento della continuità tra Stato monarchico e Repubblica. La storia repubblicana riprende alcuni caratteri dell’assetto precedente, non dando attuazione interamente al disegno contenuto nel progetto costituzionale. Il passaggio rappresenta così una cesura meno profonda, la discontinuità presente nella adozione di una Costituzione è meno forte.
Un secondo effetto è di aver rafforzato lo Stato rispetto alla società. Aver messo da parte la cogestione, la proprietà diffusa dei grandi sistemi produttivi, le comunità di lavoratori e utenti, un più diffuso e intenso diritto all’istruzione, l’accesso agli uffici pubblici aperto a tutti mediante i concorsi, ha rappresentato uno sbilanciamento dell’ordinamento a favore dello Stato con contemporanea perdita di peso della società, a favore dei vertici politico-sindacali e a sfavore delle comunità.
Dunque, complessivamente, questa inattuazione non corrisponde a un disegno complessivo, pur producendo effetti che rispondono a paradigmi unitari di continuità e di prevalenza dello Stato, per cui la storia istituzionale dell’Italia repubblicana, se le norme «dimenticate» fossero state invece attuate, avrebbe potuto essere diversa, più accentuatamente differente da quella del Regno e meno dominata dallo statalismo.
Molte delle norme «dimenticate», specialmente quelle in materia economica, però, rispondevano all’idea, diffusa subito dopo la Seconda guerra mondiale, che occorresse superare il liberalismo e la democrazia, nella direzione di una democrazia sociale. La partecipazione dell’Italia all’Alleanza atlantica e poi alla Comunità economica europea ha condotto in altra direzione l’attuazione costituzionale, tanto che ora, anche a causa del fallimento del modello comunista, appare utopistico pensare che tali norme possano trovare attuazione.
A questa divaricazione tra carta costituzionale e «living Constitution», tra Costituzione formale e Costituzione in senso materiale, avrebbe potuto porre rimedio la Corte costituzionale, il guardiano della Costituzione? Il giudice delle leggi è intervenuto episodicamente e interstizialmente allo scopo di promuovere l’attuazione di norme «dimenticate», come quella per cui la pena mira alla rieducazione del condannato. Ma ha avuto un limite intrinseco dell’attività giudiziaria, che è «re-active», non «pro-active». Avrebbe potuto intervenire a colmare la lacuna, tuttavia, se non avesse scelto di porre a sé stessa quei limiti che ne fanno un organo solo di giustizia, quasi come se fosse parte dell’ordine giudiziario.
Avrebbe potuto intervenire l’altro organo chiamato dalla Costituzione a esercitare una sorta di supervisione del funzionamento dell’ordinamento, il Presidente della Repubblica? Una risposta positiva a questa domanda potrebbe esser trovata nell’articolo 91 della Costituzione stessa, secondo il quale il Presidente, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune. Deve darsi a questa norma una interpretazione puramente rituale o essa ha un significato più sostanziale, nel senso che tra le funzioni del Presidente c’è anche quella di agire come difensore della Costituzione e come promotore della sua attuazione? Non è questa interpretazione confermata dalla convenzione costituzionale formatasi sull’articolo 74 della Costituzione, secondo la quale il rinvio alle Camere per richiedere una nuova deliberazione, un potere di cui la Costituzione non definisce né presupposti né motivazione, ha innanzitutto il suo fondamento nell’assicurare il rispetto della Costituzione?
In conclusione, siamo abituati a pensare e studiare la Costituzione come un corpo unitario di regole entrate in vigore nel 1948, mentre, in realtà, essa ha seguito strade diverse, alcune interrottesi subito (caso raro nella storia del costituzionalismo comparato). Resterebbe da chiedersi se l’inattuazione di alcune norme abbia condotto alla loro inattualità, nel senso che esse siano ora divenute obsolete. Certo è, invece, che il disegno complessivo della Costituzione voluto dai costituenti sia stato tradito.