In tema di pubblica amministrazione vi sono ormai numerose voci critiche. Alcune esprimono l’insofferenza di chi detiene il potere politico e pretende che l’amministrazione sia la fedele e meccanica esecutrice della sua volontà; altre sono più preoccupate dell’effettiva capacità dell’amministrazione di svolgere i suoi compiti; altre ancora reagiscono all’eccessivo peso di regole e controlli. In questo quadro, molteplici sono i fattori di crisi, alcuni di origine esterna alle amministrazioni, i restanti provenienti dallo stesso corpo amministrativo. Essi causano, nel complesso, un significativo restringimento del perimetro di azione delle pubbliche amministrazioni, a sua volta frutto di una più generale tendenza a considerare il diritto amministrativo come un campo dominato solo da due tensioni, quella tra legge e amministrazione e quella tra giudice e amministrazione.
Sommario: 1. I segnali di crisi. — 2. I fattori di crisi. — 3. Conclusioni.
1. Le pubbliche amministrazioni italiane e i giudici amministrativi attraversano un periodo difficile. Ne sono testimonianza i giudizi negativi che raccolgono da tutte le parti, in particolare dalla classe politica. Vengono ritenuti il regno del bizantinismo, delle complicazioni, della corruzione. Sono criticati perché non funzionali al processo economico. Sono sotto accusa perché si oppongono agli indirizzi di governo.
L’ex Presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi l’11 agosto del 2013 («Il Messaggero»), ha proposto di «abolire Tar e Consiglio di Stato per non legare le gambe all’Italia». Il 5 Settembre del 2015 («La Repubblica»), gli ha fatto eco il Presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi, che ha espresso l’opinione seguente: «non è possibile che i Tar decidano su tutto, dall’iscrizione all’asilo alla chiusura di un’ambasciata; bisogna ridurre il loro raggio d’azione». Renzi, il 17 ottobre 2015 («Il Corriere della sera»), è ritornato sul tema affermando che l’università va tolta «dal perimetro della pubblica amministrazione perché non si governa con gli stessi criteri con cui si fa un appalto in una Asl: il modello deve essere Boston, gli atenei inglesi o quelli in Oriente». A sua volta, l’ex ministro delle finanze Vincenzo Visco, il 4 novembre 2015 («Lavoce.info»), ha criticato il «formalismo giuridico» che concepisce «la pubblica amministrazione come un tutt’uno», senza lasciare autonomia gestionale alle agenzie fiscali.
Il libro di Carlo Cottarelli, «La lista della spesa» (1), contiene una frase: «non possiamo morire di diritto amministrativo», che è stata ripresa più volte nel dibattito politico e culturale recente da coloro che hanno suggerito di liberarci del diritto amministrativo e del suo giudice (l’autore è tornato in un libro successivo, «I sette peccati capitali dell’economia italiana» (2), sul tema dell’eccesso di burocratismo, ma lamentando solo numero delle leggi, vincoli alle imprese, costo degli adempimenti burocratici, peso eccessivo dello Stato).
Più di recente, il ministro Riccardo Fraccaro ha osservato che «c’è chi tenta di ostacolare l’azione di governo» e che «nei palazzi c’è sempre chi difende lo status quo» (26 agosto 2018) e il vicepresidente del Consiglio dei ministri Luigi Di Maio ha definito la burocrazia «il lato oscuro dello Stato», lamentando che «il sistema dei mandarini di Stato ci rema contro» («La Repubblica», 23 settembre 2018). Lo stesso giorno il portavoce del Presidente del Consiglio dei ministri esprimeva, in forma più volgare e aggressiva, le stesse opinioni nei confronti del vertice amministrativo del Ministero dell’economia e delle finanze. Infine, il Ministro dell’economia e delle finanze, il 7 novembre 2018, dichiarava a «IlSole24Ore»: «[…] La pubblica amministrazione non funziona per un eccesso sbagliato di regole e per l’avvicendarsi troppo frequente di ministri. Ogni volta che cambia governo, il funzionario pubblico si sente dire dal ministro che le regole cambieranno. Per cambiarle, tuttavia, ci vuole tempo e il funzionario pubblico sa che il governo successivo le cambierà ancora. Il suo comportamento razionale è perciò di non cambiare nulla». «Non esiste più il genio civile, non esistono più i comitati tecnici. Non c’è più niente. Si è passati da una pubblica amministrazione che fa ad una che delega all’esterno. Questo in sé non sarebbe sbagliato, ma una pubblica amministrazione che per un lungo periodo non fa, finisce per non saper fare. E chi non sa fare, non sa far fare agli altri». «Se non ha le strutture tecniche che gli diano sicurezza, l’amministratore si costruisce un sistema di procedure che lo garantiscono. […] Tra codice degli appalti e sistema anticorruzione, il sistema difensivo si è ribaltato contro chi lo ha costruito e siamo alla paralisi. L’amministratore pubblico che deve firmare qualcosa senza essere garantito sulla sua correttezza tecnica, alla fine non firma».
Queste voci critiche hanno radici e motivazioni diverse. Alcune esprimono l’insofferenza di chi detiene il potere politico e pretende che l’amministrazione sia la fedele e meccanica esecutrice della sua volontà e che i giudici amministrativi non siano di intralcio. Altre sono più preoccupate dell’effettiva capacità dell’amministrazione di svolgere i suoi molteplici compiti. Altre, infine, reagiscono a quello che appare l’eccessivo peso di regole e controlli sia sull’attività di governo, sia sull’azione amministrativa, sia sull’esercizio delle attività economiche private.
2. Di rado nel corso della storia italiana si sono sentite tante voci critiche delle pubbliche amministrazioni, provenienti da parti politiche diverse, che hanno avuto o hanno responsabilità di governo.
Perché critiche tanto radicali? Quelli che oggi dicono «non possiamo morire di diritto amministrativo» hanno qualche ragione dalla loro parte? Non è facile rispondere a questa domanda, perché le con-cause dell’attuale stato del diritto amministrativo e della relativa giustizia sono molte e hanno origini in parti diverse del sistema politico amministrativo.
Il primo fattore di crisi è comune ad altri sistemi politici contemporanei, ed è costituito dal carattere democratico degli ordinamenti costituzionali sviluppatisi soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo. Questi consentono l’espressione di domande politiche di diversa natura, spesso confliggenti, e, quindi, canonizzano interessi collettivi che le amministrazioni pubbliche debbono curare, così aumentando la complessità degli apparati e dei processi di decisione. Un esempio è citato dal costituzionalista americano Samuel Issacharoff, il quale ha ricordato che per costruire il terzo terminale dell’aeroporto di Pechino e il quinto di quello dell’aeroporto Heathrow di Londra, affidati allo stesso architetto, si sono impiegati quattro anni in Cina, venti nel Regno Unito (3). Se in quest’ultimo Paese si debbono curare interessi vari, quello della qualità dell’aria quello dell’inquinamento del suolo, quello urbanistico, quello della qualità delle acque, quello della concorrenza, i processi di decisione e di esecuzione divengono necessariamente più complessi e lunghi.
Peculiare dell’Italia è un secondo fattore di crisi. Poiché ogni pubblica amministrazione è anche la sua storia, aver optato per la continuità, escludendo la discontinuità di regolazioni, apparati, processi di decisione, nei tornanti della storia politico—costituzionale, ha prodotto invecchiamento amministrativo. Poiché ogni amministrazione è al centro della società, se non ne eguaglia il dinamismo, diventa una forza frenante. La freccia della storia è rallentata.
In terzo luogo, accanto alle leggi-provvedimento, oggi vi sono provvedimenti in forma legislativa e un diffuso «amministrare per legge». Da un terzo a due terzi del contenuto delle leggi è la traduzione in norma di un dettato amministrativo. L’ambizione di molti legislatori, diffidenti nei confronti dell’amministrazione, è di adottare leggi «autoapplicative», come se il legislatore potesse esser autosufficiente, ignorando che il Parlamento non è adatto al disbrigo di compiti amministrativi. Si è giunti a disporre la chiusura della sede di un ministero a Roma per legge, quando bastava una decisione dirigenziale. Il problema era di provvedere rapidamente, da parte di un governo che sapeva di essere transeunte, e quindi aveva bisogno di adottare nello stesso tempo un atto legislativo e un atto amministrativo.
L’attrazione nell’area legislativa delle negoziazioni che sarebbero altrimenti fatte dal governo e dall’amministrazione comporta frequenti «catture» del regolatore da parte dei regolati e diminuzione del tasso di «epistocrazia» nel decidere (se all’amministrazione si può chiedere di essere competente, non ci si può aspettare lo stesso dai componenti del corpo legislativo).
Dunque, la sofferenza dell’amministrazione ha origine dal Parlamento: esso amplia l’area della legislazione, per soddisfare un bisogno dei governi, che deriva dal modo in cui è strutturato il sistema costituzionale italiano. Di qui un malessere del diritto amministrativo, che è sostanzialmente discrezionalità, adattamento continuo dell’amministrare alla realtà, non meccanica applicazione di norme. Così si produce un irrigidimento dell’amministrazione, una riduzione del suo potere di decisione, e la necessità di altre leggi per modificare quelle precedenti, con un continuo ampliamento dell’area legislativa, senza tuttavia aumentare l’imparzialità dell’amministrazione, anzi riducendola.
Il «continuum» governo — Parlamento, che prende decisioni allo stesso tempo legislative e amministrative, generali e particolari (basti ricordare che i commi — in realtà articoli — delle ultime leggi finanziarie e di bilancio hanno superato i mille) marginalizza l’amministrazione, sottraendole la funzione esecutiva che la Costituzione le attribuisce. È, infatti, vero che «non può ritenersi preclusa alla legge […] la possibilità di attrarre nella propria sfera oggetti o materie normalmente affidate all’azione amministrativa» (Corte cost., sent. n. 66/2018), ma è anche vero che «la legislazione […] non è il mezzo per conferire forza di legge […] a qualunque volontà». Altrimenti, si ha «abuso di funzione legislativa» (4).
L’esondazione legislativa produce molte conseguenze. La prima è quella di sollevare il governo del compito di dare indirizzi e controllare, come previsto da norme che risalgono molto indietro e furono codificate nel 1992-1993, ma vengono attuate molto male, con atti di indirizzo talora di mera assegnazione di funzioni, talora meramente procedurali, talora descrittivi dell’esistente, talora generici; sempre, comunque, molto burocratico — formali. Avendo assorbito il compito amministrativo dentro la funzione legislativa, viene ritenuto irrilevante o inutile indirizzare e controllare. Nello stesso tempo, però, il governo viene bloccato dall’alto numero di norme, e la sua attenzione viene rivolta o alla loro interpretazione o alla loro modificazione, con la conseguenza di distogliere la sua attenzione dai grandi problemi della società e di trasformare il Consiglio dei ministri in un collegio produttore di norme, invece che di politiche.
La seconda è quella di spingere il giudice amministrativo ad agire più in profondità. Esso è il controllore della legittimità dell’azione amministrativa ed è quindi naturale che, espandendosi l’area coperta dalla legge, sia chiamato a verificare un’area sempre più estesa. Ciò che esso fa anche perché l’espansione legislativa aumenta la politicità indotta nell’amministrazione dal corpo politico e quindi la necessità dell’intervento giudiziario come garante dell’imparzialità amministrativa. Quindi, come osservato da Alessandro Pajno, «non è il giudice a fare politica; è la politica che demanda al giudice la composizione del conflitto» (5).
A questi si aggiunge un altro paradosso: la redazione tecnica della maggior parte delle leggi è opera degli uffici amministrativi, i quali, per evitare responsabilità, a scopo difensivo, scaricano volentieri sul Parlamento l’onere della decisione alla quale poi essi debbono dare applicazione. Per cui legislatore e amministrazione collaborano nell’accrescere la rigidità dell’amministrazione e nel restringere l’area della discrezionalità amministrativa, innescando un circolo vizioso pericoloso.
L’inflazione legislativa, poi, dequota la legge e richiede continui interventi correttivi negli interstizi tra legge e legge e all’interno di singole leggi (infatti, più leggi regolano la stessa materia, con norme successive che si aggiungono a quelle precedenti, senza abrogarle espressamente; deroghe rendono incerta l’applicazione delle disposizioni generali), per cui quella che dovrebbe essere una scelta normativa richiede adattamenti in sede amministrativa e giudiziaria (dove quindi viene svolta una funzione para-normativa).
Da ultimo, appare paradossale che un meccanismo innescato dal corpo politico, che ha l’effetto di marginalizzare l’amministrazione, conduca poi, in ultima istanza, alle critiche antiburocratiche, addossando così, agli occhi dell’opinione pubblica, tutte le colpe ad una impersonale «burocrazia».
In quarto luogo, la separazione tra politica e amministrazione, oltre ad essere influenzata dall’amministrare legiferando, è stata annullata o superata dall’introduzione del cosiddetto «spoils system». La distinzione tra indirizzo e controllo, affidati ai vertici politici, e gestione, affidata all’amministrazione era contenuta nel d.lg. n. 29/1993 e poi ripetuta nel d.lg. n. 165/2001. Alla separazione formale si è sostituita la commistione, per motivi che attengono in parte al contesto, e quindi estranei all’amministrazione, e in parte attinenti alla stessa amministrazione.
Lo «spoils system» (o, meglio, le sue diverse versioni) ha liberato l’organo politico del peso delle responsabilità, mentre ne ha rafforzato l’incidenza nelle decisioni amministrative (nella gestione), a causa della «dipendenza» dell’alta e media amministrazione dal livello politico. Come già notato, gli atti di direzione sono ridicoli, l’attività politica di controllo inesistente. Si è venuta a produrre una zona indistinta nella quale l’alta burocrazia incide spesso sugli indirizzi di governo e i governi interferiscono con l’amministrazione /gestione, con gravi danni per la neutralità del servizio pubblico. Lo spoils system, infine, aumenta la sudditanza della burocrazia verso la politica.
Un quinto ordine di limiti alla discrezionalità amministrativa deriva dall’interno dell’amministrazione, dai controllori, in particolare dalle sezioni di controllo e dalle procure della Corte dei conti e dall’ANAC, che operano come minacce permanenti, senza però che la loro azione sia realmente efficace, sia per la gestione finanziaria, sia per la corruzione. Allo spauracchio della Corte dei conti, privata in parte dei controlli preventivi per dotarla di quelli successivi, di nuovo ritornata ai controlli preventivi, con le procure che scimmiottano le procure penali, si aggiunge il nuovo custode della legalità, l’ANAC, che mette insieme prevenzione della corruzione, trasparenza, controllo dei contratti ed altro, e concentra compiti normativi, esecutivi e sanzionatori, abusando delle linee guida, che non dettano linee e non guidano, oltre ad essere modificate o rinnovate continuamente. Inseguendo l’indimostrato mito dell’Italia corrotta, ed agitandone lo spauracchio per prevenire la corruzione, si privilegia il non fare rispetto al fare.
Un sesto fattore di crisi amministrativa è costituito dall’ordine giudiziario. Le procure hanno un effetto deterrente, ma esercitano competenze tecniche nei più diversi settori nei quali entrano, dal «rating» dei debiti sovrani al governo del territorio, alla tutela dell’ambiente, con tempi lunghi. La giustizia amministrativa è strumento necessario, ma debordante e contraddittorio. Anche i giudici amministrativi si ergono a tutori dei più diversi interessi e divengono esperti di tutto, valutando il mercato rilevante o il tasso di inquinamento, e provocando un pericoloso «forum shopping». Il giudice del lavoro, con ripetute sentenze di reintegro, contribuisce a rendere ancor più difficile il licenziamento dei dipendenti pubblici, mentre la supplenza del giudice penale nei confronti dell’amministrazione si va sempre più estendendo, con interferenze e implicazioni sulla capacità decisionale della pubblica amministrazione.
Vi sono, poi, i fattori di crisi che provengono dallo stesso corpo amministrativo (oltre a quelli già indicati). Gli spazi di decisione che, nonostante l’esondazione legislativa, i condizionamenti politici e lo spauracchio dei controllori, restano agli amministratori pubblici, non vengono da questi sfruttati. La fuga dei tecnici dagli uffici pubblici costringe questi ultimi a far ricorso sempre di più ad esterni. Gli amministratori pubblici hanno in larghissima prevalenza una preparazione giuridico — formale. Quindi, l’amministrazione, più che fare, fa fare. Ai suoi margini vi sono quasi sempre organismi, piccoli o grandi, in funzione servente (si pensi solo al Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e alle sue frange, costituite dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario della ricerca-ANVUR, dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione e di formazione-INVALSI, e dall’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa-INDIRE), a cui si aggiungono le autorità amministrative indipendenti, un altro caso di «fuga dallo Stato». L’amministrazione pubblica, sempre più dominata da amministrativi, piuttosto che da tecnici, si depaupera di competenze tecniche settoriali, a favore di generalisti «bon à tout faire», con preparazione giuridico-formale, come già notato. L’invecchiamento rende impossibile introdurre nuove tecnologie, senza delle quali è difficile decidere e gestire. L’ossificazione amministrativa trasforma l’amministrazione, spaventata, rallentata, in assenza di incentivi e in presenza di impedimenti, in una forza ostativa, dove domina l’inerzia.
L’amministrazione si difende: l’atteggiamento diffuso del funzionario è diretto a premunirsi rispetto ad eventuali future responsabilità, non decidendo, rinviando, chiedendo pareri, evitando l’innovazione laddove pericolosa e preferendo aderire a «precedenti», assicurandosi per la responsabilità amministrativa.
Si aggiunga che gli uffici pubblici non hanno l’«expertise» necessaria, il personale è vecchio, non più formato, e privo di ricambio. Che nelle amministrazioni vi sono persone scelte male, poco motivate, mal gestite, talora anche oziose o recalcitranti. Che gli uffici hanno pochi mezzi strumentali. Che le loro sedi sono spesso obsolete. Che le dotazioni tecnologiche sono insufficienti. Che le procedure amministrative sono usate in chiave garantistica e difensiva, piuttosto che in funzione di organizzazione dei fattori necessari per decidere.
L’azione amministrativa appare sempre più stretta nella tenaglia costituita, da un lato, dall’invasione della scelta politico-legislativa e, dall’altro, dalla minaccia della responsabilità e dei controlli. L’amministrazione per legge e il governo delle procure (penali, contabili, o amministrative, come l’Autorità nazionale anticorruzione) negano in radice la possibilità di una buona gestione pubblica, che invece avrebbe bisogno di competenza tecnica, flessibilità operativa, riconoscimento sociale.
Le pubbliche amministrazioni, dunque, attraversano un periodo difficile per un complesso di cause che partono dall’assetto costituzionale e si riflettono nell’opinione pubblica e sui servizi che l’amministrazione rende al cittadino. Non si può disconoscere, quindi, che i critici abbiano qualche buon argomento a loro favore.
A questo stato di cose si cerca di rimediare con continui programmi di riforma, che innescano a loro volta circoli viziosi. Il primo riguarda la corta durata dei governi e della loro azione, sempre inadeguata ai tempi necessariamente lunghi delle riforme amministrative, ma anche immemore di tutti i tentativi di riforma precedente (chi ricorda le proposte Medici e quelle Giannini, chi le due ricerche Formez, chi il progetto finalizzato sull’organizzazione e il funzionamento della pubblica amministrazione del Consiglio nazionale delle ricerche?). Il secondo riguarda origini e disegni delle riforme, che nascono nel corpo politico, che è però inadeguato, per scarsa durata e scarsa conoscenza dell’amministrazione. Donde il fenomeno per cui chi sa non parla e chi parla non sa. Il terzo riguarda il silenzio dell’amministrazione, dal quale non partono iniziative di riforme o proposte dirette a innovare, nell’attesa di iniziative del corpo politico.
3. C’è ora da chiedersi se quello indicato sia un fenomeno soltanto italiano. Secondo Pierangelo Schiera, infatti, si tratta di un fenomeno che si registra anche altrove (6). Pare certo che segni preoccupanti vi siano negli Stati Uniti, dove si è parlato di «antiadministrativism» (7), di sviluppo di una «presidential administration» e del «presidential unilateralism», con ruolo crescente del Presidente a spese dell’amministrazione; incremento dell’influenza politica sui vertici amministrativi, spesso sostituiti; «disregard of expert knowledge» e accantonamento del «professionalism» (8), mentre il controllo dei giudici diventa meno rilevante (9). Quindi, i segni sono gli stessi, estensione e cause diverse.
La marginalizzazione dell’amministrazione non sarebbe rilevante se non fosse parte di una più generale tendenza di più lungo periodo e di portata più ampia a considerare il diritto amministrativo come un campo dominato solo da due tensioni, quella tra legge e amministrazione e quella tra giudice e amministrazione, per cui il diritto amministrativo è considerato solo in funzione di limite dell’azione amministrativa.
Le riflessioni qui solo accennate andrebbero sviluppate alla luce di tre punti illustrati, in aree culturali e tempi molto diversi, da Jean-Jacques Rousseau, da James Landis e da Jerry Mashaw. Il primo, nella sua opera maggiore, il «Du contrat social» (1762), poneva l’amministrazione fuori del circuito popolo-sovranità nei seguenti termini: «la puissance exécutive ne peut appartenir à la généralité comme Législatrice ou Souveraine; parce que cette puissance ne consiste qu’en des actes particuliers qui ne sont point du ressort de la loi, ni par conséquent de celui du Souverain, dont tous les actes ne peuvent être que des loix. Il faut donc à la force publique un agent propre qui la réunisse et la mette en oeuvre selon les directions de la volonté générale, qui serve à la communication de l’Etat et du Souverain, qui fasse en quelque sorte dans la personne publique ce que fait dans l’homme l’union de l’ame et du corps. Voilà quelle est dans l’Etat la raison du Gouvernement, confondu mal à propos avec le Souverain, dont il n’est que le ministre. Qu’est-ce donc que le Gouvernement ? Un corps intermédiaire établi entre les sujets et le Souverain pour leur mutuelle correspondance, chargé de l’exécution des loix, et du maintien de la liberté, tant civile que politique» (10). Il secondo, nel suo scritto fondamentale sull’«Administrative Process» (1938), scriveva orgogliosamente: «the administrative process is […] our generation’s answer to the inadequacy of the judicial and the legislative process» (11). Esprimeva, quindi, la sua fiducia nella competenza, nell’indipendenza, nella professionalità, nello spirito di servizio della burocrazia. Un passo avanti è stato fatto da Jerry Mashaw nella sua opera su «Bureaucratic Justice» (1983) (12). Per lo studioso americano il vero diritto amministrativo deve essere l’«Internal Administrative Law» perché solo l’amministrazione ha le conoscenze e l’esperienza necessarie a gestire. Il Parlamento può stabilire indirizzi a larghi tratti, senza specificare. Solo l’amministrazione ha la professionalità necessaria e può fondare le sue decisioni sulla razionalità burocratica. Mashaw si è di conseguenza espresso contro la formulazione di norme legislative analitiche e a favore dell’autogenerazione di norme da parte dell’amministrazione stessa.
Alla necessità di un progressivo riconoscimento della sfera di azione propria del potere esecutivo si contrappone solo il punto di vista scettico sulla distinzione tra determinazione di regole e discrezionalità di un noto economista, Paul Samuelson, secondo il quale «le regole sono fissate con discrezionalità, sono abbandonate con discrezionalità e sono manipolate con discrezionalità» (13).
(1) Milano, Feltrinelli, 2015.
(2) Milano, Feltrinelli, 2018, 65 ss.
(3) S. ISSACHAROFF, Democracy’ Deficits, in «Nellco Legal Scholarship Repository», Working Papers no. 9, 2017, 24-25.
(4) G. ZAGREBELSKY, Diritto allo specchio, Torino, Einaudi, 2018, 271.
(5) Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario presso il Consiglio di Stato, 30 gennaio 2018.
(6) P. SCHIERA, Colloquio su Stato, Diritto e Costituzione, con F. Pedrini, in Lo Stato, 2018, gennaio-luglio, 306-307.
(7) G. METZGER, The Administrative State under Siege, in 131 Harvard Law Review (2017), 4.
(8) E. KAGAN, Presidential Administration, in 114 Harvard Law Review (2001), 2245; S. GADINIS, From Independence to Politics in Financial Regulation, in 101 California Law Review 2 (2013), 327-406; D.A. FARBER, Presidential Administration Under Trump (August 8, 2017). UC Berkeley Public Law Research Paper, consultabile su https://ssrn.com/abstract=3015591 o http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3015591. Più in generale, I. WURMAN, Constitutional Administration, in 69 Stanford Law Review (2017), 359.
(9) N.R. PARRILLO, The Endgame of Administrative Law: Governmental Disobedience and the Judicial Contempt Power, in 131 Harvard Law Review (2018), 685 ss. e N.R. PARRILLO, Introduction in ID. (ed.), Administrative Law from the Inside Out. Essays on Themes in the Work of Jerry L. Mashaw, Cambridge Mass., Cambridge University Press, 2017, 1 ss.
(10) J.-J. ROUSSEAU, Du contrat social, Paris, Flammarion, 1966, 97-98 (libro III, capitolo I).
(11) J. LANDIS, The Administrative Process, New Haven, Yale Univ. Press, 1938, 46. Sulla linea di Landis, J. MICHAEL, Constitutional Coup: Privatization’s Threat to the American Republic, Cambridge Mass., Harvard University Press, 2017 (su cui la recensione di K. S. RAHMANN, Reconstructing the Administrative State in an Era of Economic and Democratic Crisis, in 131 Harvard Law Review (2018), 1671 ss.).
(12) J.L. MASHAW, Bureaucratic Justice: Managing Social Security Disability Claims, New Haven, Yale Univ. Press, 1983, su cui si consiglia di leggere N. R. PARRILLO (ed.), Administrative Law fom the Inside Out, cit.
(13) P.A. SAMUELSON, Principles and Rules in Modern Fiscal Policy. A Neo -Classical Reformation, in The Collected Papers of P. A. Samuelson, II, Cambridge Mass., The MIT Press, 1966, 1271-1290.