La pubblica amministrazione è stata per molto tempo una forza trainante del progresso italiano, contribuendo allo sviluppo giuridico, sociale ed economico del paese. Ad un certo punto, tuttavia, gli apparati pubblici sono diventati un ostacolo allo sviluppo. Fin dall’età giolittiana, l’amministrazione è stata così frammentata da non garantire un coordinamento tra ministeri, enti periferici e altri enti pubblici. Negli ultimi trenta anni, la moltiplicazione di organismi globali e l’emergere di nuovi interessi collettivi hanno reso ancora più difficile governare tale frammentazione. Nel corso del tempo, inoltre, i nuovi compiti e le accresciute dimensioni assunte dalla pubblica amministrazione avrebbero richiesto una modernizzazione delle tecniche gestionali secondo i principi del taylorismo, ma ciò non è accaduto. Ancora oggi i metodi di lavoro delle amministrazioni sono inadeguati e le numerosissime leggi in materia sono state inefficaci. Il personale amministrativo è per lo più di provenienza meridionale e tra ceto politico e classe amministrativa esiste uno iato profondo. La dirigenza amministrativa, pur potendo contare su una serie di garanzie, non riesce a promuovere i necessari miglioramenti organizzativi. L’amministrazione, infine, è ancora caratterizzata da una cultura giuridica troppo formalistica e dalla mancanza di saperi tecnico-scientifici. Ciò si ripercuote negativamente sulla capacità dell’amministrazione di guidare i procedimenti di dotazione infrastrutturale del paese e sugli adempimenti richiesti per lo svolgimento delle attività produttive, che andrebbero semplificati e razionalizzati. Si auspica che l’amministrazione sappia adattarsi alle trasformazioni sociali per tornare ad accompagnare lo sviluppo civile.
Sommario: 1. L’Italia: com’era e com’è. — 2. L’orchestrazione e le strutture. — 3. I metodi di lavoro e le capacità operative. — 4. Il personale. — 4.1 Le amministrazioni di stato maggiore. — 4.2 La dirigenza. — 5. Le carenze dei saperi. — 6. L’amministrazione repubblicana non vive in sintonia con la nazione. — 6.1 Le opere pubbliche bloccate. — 6.2 Le difficoltà di iniziare un’attività imprenditoriale. — 7. Come uscirne?
1. L’Italia: com’era e com’è. — Nei 158 anni dall’Unità, il numero degli abitanti della penisola è quasi triplicato, se si considerano anche le annessioni territoriali successive. La longevità degli italiani, misurata dalla speranza di vita alla nascita, è passata da meno di 30 a 82 anni. Il numero degli italofoni da poco più del 2 al 95 per cento della popolazione. Il numero degli aventi diritto al voto dal 2,5 (di cui solo la metà votava effettivamente) a quasi l’80 per cento della popolazione (di cui tre quarti partecipano al voto). Il reddito medio degli italiani è cresciuto di quasi tredici volte, quasi il doppio di quello del Regno Unito e più di quello degli Stati Uniti. Questi successi postunitari, certamente non pieni, hanno invertito un declino della penisola che durava da due secoli, da quando l’Italia centro settentrionale era la regione più ricca d’Europa e quindi, forse, del mondo (1).
La pubblica amministrazione ha accompagnato, favorito o frenato questo straordinario progresso, o questo si è realizzato fuori dell’involucro amministrativo, nonostante e contro questo?
Espongo subito la conclusione di questo scritto. Lo Stato e la sua amministrazione sono stati per un lungo tratto una forza trainante del progresso, l’hanno reso possibile provvedendo sia alla sua infrastrutturazione giuridica, sia alla sua promozione e regia. Ad un certo punto della storia unitaria, si è però verificata una divaricazione tra progresso civile — economico — sociale e apparati pubblici, e questi hanno preso una direzione diversa, diventando una forza frenante piuttosto che propulsiva (2).
Questa divaricazione si è realizzata in momenti diversi, a seconda che si considerino le strutture e la forza di orchestrazione, i metodi di lavoro e le capacità operative, e il personale pubblico dello Stato. Per questo motivo, la prima parte di questo scritto sarà dedicata a questi tre temi.
2. L’orchestrazione e le strutture. — «L’amministrazione centrale dello Stato sarà concentrata nei ministeri. I ministri provvederanno ai relativi servizi per mezzo di uffici posti sotto l’immediata loro direzione». Così disponeva la legge con la quale Cavour modificava nel 1853 l’assetto del Regno Subalpino scelto più di un secolo prima da Vittorio Amedeo. Il modello ministeriale, di ispirazione francese, che subentrava a quello misto ministri — aziende, costituirà, con straordinaria continuità, per un secolo e mezzo, il cardine dell’orchestrazione del nuovo Stato, servirà egregiamente ai bisogni dell’unificazione e dell’uniformità degli ordinamenti dei sette Stati preunitari, nonché a quello di dare una guida unitaria al Paese.
Ma Cavour non ebbe tempo per mettersi alla guida del nuovo Stato (il suo coetaneo Bismarck gli sopravvisse per quasi un quarantennio, di cui venti trascorsi come Cancelliere della Germania unita) e, a un certo punto, il passato divenne un peso. Invece di abbandonare il modello iniziale, si preferì agire per addizioni e deroghe. Vennero prima le leggi speciali per il Mezzogiorno, poi gli enti pubblici e le società private in mano pubblica, più tardi le regioni, le autorità amministrative indipendenti e le agenzie. Fu la fuga dallo Stato. Le esigenze del progresso richiedevano una diversa orchestrazione, si preferì invece continuare con quella iniziale, salvo deroghe e addizioni di modelli organizzativi diversi.
Giannini e Barbara, in preparazione della Costituzione, proposero, sull’esempio franco-inglese, l’amministrazione per servizi, ma si preferì quello che Leopoldo Elia ha definito continuismo.
Le esigenze erano interamente mutate, l’Italia era cambiata, non cambiò l’amministrazione. Lo notò, nelle sue memorie, del 1991, Mariano Rumor: «è una manchevolezza di cui si deve far carico la classe politica dirigente di allora: la restitutio in integrum del vecchio apparato dello Stato».
Inoltre, la coesistenza di ministeri e di altri apparati centrali e periferici richiedeva un coordinamento che i primi non riuscivano e i secondi non potevano assicurare.
Dalla fine dell’età giolittiana, l’amministrazione, da fattore di sviluppo divenne un impedimento allo sviluppo. Si moltiplicarono i surrogati, che divennero a loro volta un problema. I ministeri restarono, ma svuotati, e circondati da organismi ausiliari o collaterali della più varia natura, sul lungo periodo ulteriore fattore di debolezza, perché un’amministrazione che non fa, ma fa fare, alla lunga non sa più che cosa bisogna fare.
Questa frammentazione non governata ha incrociato nell’ultimo trentennio due ulteriori problemi. Quello della moltiplicazione degli organismi globali, della cui attività le amministrazioni statali debbono darsi carico, e quello della moltiplicazione degli interessi collettivi, tra di loro in conflitto, prodotta da ogni democrazia matura, che richiede strutture amministrative capaci di cooperare, se non vogliono rimanere bloccate (si pensi solo alle tristi vicende delle conferenze di servizi e a quella che gli studiosi americani chiamano «regulatory fatigue» e «ossified administrative process», proponendo di abbandonare le procedure a favore del «Dealmaking State») (3).
3. I metodi di lavoro e le capacità operative. — All’Unità d’Italia, si scelse, sul modello germanico, di affidare la strumentazione operativa della pubblica amministrazione all’impero del diritto, dominato dalla legge e dal regolamento. Ma i due tipi di atti, uno proprio del Parlamento, l’altro del governo, non vennero privati, come è successo dopo, di ogni riferimento contenutistico (4). Il primo serviva a dettare norme generali e astratte. Il secondo a regolare metodi di lavoro e operazioni amministrative. Il diritto, la legge, il regolamento servirono egregiamente a regolare e guidare il «modus operandi» di una amministrazione di piccole dimensioni che aveva il pesante compito di realizzare di fatto l’unità, dotando la nuova nazione di una rete ferroviaria, sopperendo dal centro alle difficoltà finanziarie dei comuni, mantenendo il controllo delle comunità locali.
Dopo mezzo secolo, ampliamento dei compiti dello Stato, nuove tecniche, personale nuovo, richiedevano un nuovo orologiaio, che dettasse procedure e tempi. Nelle amministrazioni private e in molte amministrazioni pubbliche straniere si adottarono, a partire dal primo decennio del nuovo secolo, i criteri dettati da Frederick Taylor, poi diffusi da Ford e ripresi da Fayol. Un consigliere di Stato francese, Léon Blum, nel 1918 propose di adottare anche per lo Stato lo «scientific management» (lo farà lui stesso venti anni dopo, quando divenne primo ministro). L’amministrazione italiana, nonostante qualche isolato sforzo, rimase estranea al progresso delle scienze organizzative, non riuscì a coniugare l’impero del diritto con quello dell’efficienza, restò in una fase pre-tayloristica, anche quando l’amministrare con il metodo scientifico si sviluppò, fece progressi, diventò un criterio di gestione di applicazione universale. Legalità e economicità non andarono di pari passo, non dialogarono.
Emerse una nuova divaricazione: i nuovi compiti e le accresciute dimensioni avrebbero richiesto una modernizzazione delle tecniche gestionali che non ci fu, con la conseguenza che gli uffici pubblici cominciarono ad andare al rimorchio del progresso sociale ed economico e divennero lentamente una forza frenante.
Oggi, i grandi servizi pubblici, come il sistema scolastico e il servizio sanitario, le procedure amministrative, le pratiche gestionali delle pubbliche amministrazioni, restano ferme all’idea che la legge basti per «imbrigliare» e guidare, rimangono estranee al progresso dell’economia applicata all’amministrazione, anche agli ultimi sviluppi della «behavioral economics». La crisi fiscale dello Stato degli anni Novanta e la crisi economica mondiale del 2008 hanno aumentato la richiesta di efficienza dell’amministrazione, ma questa è stata incapace di assicurarla, nonostante lo sviluppo di una «scatola degli attrezzi» a livello universale (basti pensare al «New Public Management») (5) e alle istituzioni, come l’Ocse, che stanno dedicando un grande impegno alla diffusione di moderni criteri di gestione pubblica.
Le norme sovranazionali e quelle costituzionali consacrano il «buon andamento» e il «diritto ad una buona amministrazione», ma l’efficienza giuridificata rimane una promessa. L’amministrazione rimane in una fase pre-tayloristica: il Parlamento svolge funzioni amministrative, privando il concetto di legge di ogni riferimento contenutistico; il regolamento arretra; le procedure vengono affiancate l’una all’altra; quando vi sono esigenze speciali, invece di modificare le regole, si aggiungono deroghe, che poi diventano, nel giro di qualche anno, la regola; quando emerge un malfunzionamento, si aggiunge un altro controllo, in modo che l’amministrazione non è aiutata, ma impedita; tutto questo in una continua rincorsa di leggi scritte da chi non sa. L’arretratezza organizzativa fa diventare l’amministrazione un freno al progresso del Paese.
4. Il personale. — Per circa mezzo secolo dopo l’Unità, il personale pubblico ha conservato una notevole omogeneità, caratterizzata da tre tratti: piemontesismo, osmosi politica — amministrazione, partecipazione all’«establishment». Con l’amministrazione giolittiana, la situazione cambiò: alla prevalenza dei piemontesi si sostituì la meridionalizzazione; all’osmosi la separazione; alla presenza dei vertici amministrativi nella classe dirigente, un distacco.
Queste tre caratteristiche saranno destinate a durare per tutta la restante parte della storia italiana. Oggi, se centro e meridione rappresentano circa un terzo della popolazione, i centro-meridionali sono circa due terzi dei dipendenti pubblici. Tra classe politica e classe amministrativa c’è uno iato profondo, con rari passaggi dall’una all’altra, e difficoltà di far sentire la voce della seconda nella prima. Questa divaricazione produce una differenziazione dei ruoli tra staff ministeriali, alta burocrazia, «bassa forza».
Prima di passare all’esame di queste tre componenti, diamo, però, uno sguardo d’insieme al personale pubblico, facendolo precedere da due avvertenze. La prima è che nessuna delle due rilevazioni, quella della Ragioneria generale dello Stato e quella censuaria dell’Istat, comprende il personale delle istituzioni satelliti, ai margini dello Stato, per cui il numero totale è ampiamente sottostimato. La seconda è che i dati dell’Istat che saranno qui riportati sono stati pubblicati il 17 dicembre 2019, ma risalgono al 2017. Il personale comprende 3.516.461 unità, delle quali 56,9 per cento donne (il settore pubblico è più femminilizzato di quello privato) e 476.566 persone appartenenti a forze armate, di sicurezza e delle capitanerie di porto. Il 95,5 per cento è personale dipendente, l’86 per cento è personale a tempo indeterminato. Il numero è rimasto sostanzialmente stabile nel periodo 2011 — 2017, essendo stata la diminuzione dei dipendenti a tempo indeterminato compensata dall’incremento di quelli a tempo determinato. Più della metà ha più di 50 anni. Più della metà ha una formazione in discipline socio-umanistiche, meno del 10 per cento in discipline scientifiche. Il 90 per cento ha avuto una formazione «ad hoc» dall’amministrazione e l’87,9 per cento utilizza il «web», ma la formazione è di tipo tradizionale e la cultura digitale elementare.
Nel complesso, il personale pubblico vive una vita staccata dalla società, pur essendo una parte cospicua della forza lavoro. Le «voci di dentro» non sono ascoltate all’esterno. Quindi, la pubblica amministrazione ha un grande impatto sociale (è il maggiore datore di lavoro: ha alle sue dipendenze un quinto della forza lavoro), nessuna influenza sull’opinione pubblica.
Al suo interno, il corpo amministrativo è stato incapace di autocorreggersi o di promuovere correzioni ed ha coltivato più i diritti che i doveri, nonostante che una parte cospicua (non esistono dati sicuri) non sia stata reclutata nel modo previsto dalla Costituzione, ma con procedure che premiano le competenze generalistico — teoriche a danno di quelle specialistico — operative, e costituzionalmente illegittime, quali l’assunzione di idonei, detta anche scorrimento delle graduatorie (che vengono prorogate anche per decenni, a favore di decine di migliaia di persone che hanno «passato un concorso», ma senza vincerlo; al 30 aprile 2015 risultavano vigenti e utilizzabili le graduatorie di più di 14 mila procedure concorsuali).
Per lungo tempo sottratto a una diretta influenza della politica, da circa un quarto di secolo è sottoposto a un meccanismo di patronato politico che influenza direttamente i vertici e indirettamente gli strati intermedi e bassi. In larga misura composto di funzionari amministrativi, ha assistito senza reagire alla fuga dei tecnici (le tecnostrutture sono poche, discusse e indebolite) (6).
Infine, il corpo amministrativo, quando è selezionato, è scelto con modalità poco selettive, ha retribuzioni e sistemi di carriera che remunerano poco istruzione e competenza, passa attraverso procedure rigide che — come osservato — sono orientate alla assunzione di generalisti, gode di incentivi ad applicazione indifferenziata, senza contestuali sistemi di riorganizzazione (7).
4.1 Le amministrazioni di stato maggiore. — Alle carenze del personale e all’instabilità governativa suppliscono le organizzazioni di stato maggiore, espressione francese per indicare i gabinetti o uffici di diretta collaborazione.
Questi programmano e preparano l’attività legislativa, coordinano quella amministrativa, svolgono ogni specie di supplenza e il ruolo di «trouble-shooter». Si tratta di personale proveniente in larga misura da quattro corpi (Consiglio di Stato, Avvocatura dello Stato, Corte dei conti, burocrazie parlamentari) oppure dall’università. Sono chiamati di «staff», quale contrapposto a «line», e le norme prevedono che non debbano interferire nei rapporti verticali ministri — alti funzionari, ma in realtà sono anelli essenziali della catena di comando. È singolare che solo nei grandi ministeri «de puissance», quali Interno, Esteri, Difesa, Giustizia, si faccia meno ricorso a personale esterno per queste funzioni.
Alcuni «gabinettisti» hanno compensato la breve durata dei governi assicurando continuità alle politiche governative: basti ricordare Francesco Bartolotta con De Gasperi, Ferdinando Carbone con Einaudi, Franco Piga con Rumor, nonché Gaetano Stammati, Giovanni Torregrossa, Giuseppe Manzari, Giorgio Crisci, Nino Freni.
4.2 La dirigenza. — La vicenda della dirigenza è nota. Inizialmente non individuata perché faceva parte del personale direttivo, svolgeva una funzione ausiliaria del vertice politico, con notevoli poteri, ma senza uno «status» riconosciuto. Nel 1972 ottenne un proprio «status», diverso e superiore a quello del personale direttivo, ma senza autonomi poteri, che vennero invece assegnati nel 1993, quando indirizzo e controllo furono separati dalla gestione e questa venne affidata ai dirigenti, i primi al corpo politico. Ma i poteri vennero poi ridotti quando, nel 1998 e successivamente nel 2002, lo «spoils system» erose «status» e potere dei dirigenti, indeboliti perché precarizzati e posti alla mercé dei vertici politici (8). L’ulteriore riforma del 2015 — 2016 rimase sulla carta a causa dell’intervento della Corte costituzionale.
Nel complesso, la dirigenza, fino alla riforma del 1993, ha preferito barattare potere contro sicurezza di carriera (9). Poi, «ha preferito non giocare il ruolo di anello tra politica e amministrazione e giocare un’altra partita, con meno responsabilità, ma autoescludendosi dal circuito nazionale delle élite» (10).
L’attività del dirigente, che dovrebbe consistere nello specificare gli obiettivi, nell’indicare le priorità e i tempi, nell’individuare le modalità operative, nell’organizzare gli uffici e nello scegliere il personale, nell’assegnare le risorse, nel verificare lo svolgimento delle attività e nell’eventuale sua correzione, nel controllo dei risultati e nella indicazione delle modifiche conseguenti necessarie, gestendo i vincoli e segnalando le difficoltà realizzative, si riduce ad alcune soltanto di queste attività, considerando l’insieme dei vincoli che derivano dalla legislazione e dai controllori.
La conclusione è che «sono pochi i Paesi che riconoscono per legge una posizione particolare alla dirigenza amministrativa, come l’Italia; ma sono pochissimi quelli, come l’Italia, nei quali la dirigenza abbia uno “status” così basso, tale da non spingere i migliori ad accedervi» (11).
La conseguenza è che vi sono dirigenti che non dirigono (quelli incaricati di compiti di studio e quelli sanitari, per i quali la attribuzione della qualifica dirigenziale ha solo uno scopo retributivo) e che il rapporto dirigenti / dipendenti oscilla tra 1 e 8 (nella Presidenza del Consiglio dei ministri), 1 e 50 (nei ministeri) e 1 e 150 (negli enti locali).
La dirigenza amministrativa italiana, in conclusione, si differenzia nettamente da quella di altri Paesi, come il Regno Unito e la Francia, dove l’accesso è fondato esclusivamente sul merito, misurato mediante selezioni comparative ed è assicurato un «fast track», per cui si accede ai vertici anche se giovani (12). In questi due Paesi si può a ragione affermare che la dirigenza amministrativa concorre ad assicurare il progresso della società. Non altrettanto si può dire per l’Italia dopo il periodo giolittiano.
5. Le carenze dei saperi. — Il quadro non sarebbe completo se non menzionassi le carenze dei saperi, che riguardano sia la cultura organizzativa diffusa, sia gli studi.
La cultura organizzativa diffusa è carente, per l’insufficiente sviluppo, in Italia, dei grandi educatori, quali gli stabilimenti industriali e le caserme. L’organizzazione industriale, specialmente dopo la diffusione del fordismo, e gli eserciti, prima dell’abbandono della coscrizione obbligatoria, sono stati grandi educatori, sia per quanto riguarda l’organizzazione — gerarchia e coordinamento — sia per quanto riguarda l’attività — sequenze e, quindi, procedimento.
Gli studi hanno sofferto per la carenza di ricerche non giuridiche sull’amministrazione, dovuta alla circostanza che la cultura amministrativa si è sviluppata quasi esclusivamente sul lato giuridico.
Nel 1862 non ebbe seguito la proposta di Carlo Matteucci, preoccupato del proverbio «buon legista, mediocre amministratore», di creare nella facoltà giuridica una laurea in scienze giuridiche e una laurea in scienze politico — amministrative. Nel 1875 Ruggero Bonghi introdusse la scienza dell’amministrazione nella facoltà giuridica (e il regolamento venne scritto da Angelo Messedaglia, professore dal 1858 di economia politica e di scienza dell’amministrazione, a Padova, fondatore della scuola economico — amministrativa), ma questa venne prima accorpata con il diritto amministrativo da Michele Coppino nel 1885, poi cancellata nel 1935 da Cesare Maria De Vecchi (13).
Accanto all’incerto statuto giuridico, la cosiddetta scienza dell’amministrazione, i cui padri nobili erano Lorenzo von Stein e Giandomenico Romagnosi, nonostante le sue grandi ambizioni, soffriva di molti malanni: incerta definizione del campo, insufficiente rigore scientifico, eclettismo.
Primo titolare dell’insegnamento, a Pavia e a Padova, fu Carlo Francesco Ferraris, fortemente influenzato dal von Stein (al quale venne conferito il dottorato «honoris causa» nel 1888 a Bologna), il cui interesse andava all’attività sociale dello Stato, mentre l’altro indirizzo, quello che faceva capo a Vacchelli, si interessava principalmente delle tecniche applicative.
Sul finire del secolo acquistò un ruolo dominante il giurista Vittorio Emanuele Orlando, il quale scacciò dal tempio i non giuristi (a Guido Cavaglieri, nel 1900, una commissione presieduta da Orlando negò la cattedra) e, contemporaneamente, venne istituita la IV Sezione del Consiglio di Stato (atto di nascita della giustizia amministrativa in Italia).
La scienza dell’amministrazione rivivrà dalla metà del secolo successivo con le riviste «La tecnica dell’organizzazione della pubblica amministrazione» (dal 1954), «Amministrare» (dal 1963) e «Problemi di pubblica amministrazione» (1972), ma colonizzata da giuristi, fino a che non emerse la scuola bolognese con Vittorio Mortara e Giorgio Freddi, ispirati dagli studi americani.
6. L’amministrazione repubblicana non vive in sintonia con la nazione. — Tutti gli elementi fin qui raccolti segnalano la cesura costituita dal fascismo. È nel ventennio fascista che si sviluppano le «cinque burocrazie» (in particolare quella parastatale, quella sindacale, quella del Partito unico), che mettono in crisi la burocrazia statale. È in quel periodo che si erode la legittimazione dello Stato, a dispetto del risorgente nazionalismo. È in quel periodo che si esaurisce la spinta risorgimentale e viene messa a tacere la disunità d’Italia (lo storico lucano Raffaele Ciasca scrive nel 1934 che «di una questione meridionale non si può più, oggi, legittimamente parlare», a causa dei provvedimenti del governo fascista per «elevare il tono dell’Italia agricola specialmente meridionale» (14).
L’amministrazione dovrebbe essere il punto di raccordo tra Stato e società; viene invece oggi ritenuta una «zavorra» per il Paese. C’è un difetto di coesione, un distacco tra autorità e cittadini, sospetto della classe politica nei confronti della burocrazia, accuse mosse ad essa dalle procure.
I sondaggi d’opinione mettono molto in basso la burocrazia, ad eccezione delle forze dell’ordine, e sui media le amministrazioni sono menzionate solo per la loro inefficienza e lentezza (ad esempio, le somme stanziate e non spese per lavori pubblici). La fiducia e il grado di soddisfazione degli utenti nei confronti dei servizi pubblici essenziali sono bassi e diminuiscono nel tempo (15). L’amministrazione viene presentata come casta e assimilata alle critiche alla élite.
Secondo l’ultimo Rapporto Censis (2019) <(16), la terza causa del rancore sociale, in Italia, è «una burocrazia inefficiente e troppo costosa» (18,4 per cento). La prima è il malfunzionamento della giustizia (25) e la seconda la crescente disuguaglianza (23,7). Seguono, al quarto posto, l’ingresso incontrollato di stranieri (15,2), al quinto le promesse di crescita disattese (12,2) e al sesto e ultimo la perdita di potere delle istituzioni nazionali (5,5). Questo sembra suggerire che gli indirizzi populistici suscitano timori — gli stranieri, la perdita di sovranità — che non sono, però, le principali preoccupazioni degli italiani e che le radici del c.d. «populismo» stanno nella mancata soluzione di altri problemi. Gli italiani sono tra i cittadini europei che si fidano meno (29 per cento) della pubblica amministrazione del loro Paese. Peggio di noi solo Grecia (25) e Croazia (24). La media europea è 51. La percentuale francese è 57, quella tedesca 67.
Parlamento e governo hanno scarsa fiducia e talora trattano con sospetto gli uffici pubblici, con critiche pubbliche all’amministrazione e cercando di farne a meno con leggi «autoapplicative», trasformando il Parlamento in amministratore; moltiplicando i controlli (c’erano quelli della Corte dei conti, si aggiungono quelli dell’Autorità nazionale anticorruzione; nel 2017 la confisca di prevenzione viene estesa dai reati di mafia a quelli di corruzione); restringendo i margini di discrezionalità amministrativa; moltiplicando le procedure. Questo produce iperlegalismo (si pretende di amministrare legiferando), eccesso di controlli, fuga dalle responsabilità, trasformazione dei mezzi in fine (non importa raggiungere i risultati, ma rispettare le regole e le procedure).
La discrezionalità amministrativa non è solo limitata dall’esondazione legislativa, ma anche dall’attività delle procure tutto fare, gestori del diritto penale totale (17), che diventano amministratori di ultima istanza, ordinano perizie, impongono attività, prendono il posto persino delle amministrazioni tecniche, o ne impediscono l’attività. Poiché tutti temono i poteri delle procure, spesso mosse da desiderio di protagonismo e da ambizioni politiche, si cerca di difendersi con ogni mezzo, da ultimo con la sottoposizione volontaria degli uffici al controllo preventivo della Corte dei conti, in modo da impedire la «colpa grave» (una nuova specie di garanzia dei funzionari, sia pure a carattere limitato) o con la proposta di abolire il reato di abuso d’ufficio.
Diventa frequente il circolo vizioso: norme minacciose e controlli eccessivi, quindi inutili, fermano la burocrazia; i vuoti sono colmati dalle procure; queste intimoriscono e bloccano ulteriormente gli uffici esecutivi.
L’insieme di questi fattori condizionanti (se c’è un’area nella quale le osservazioni di Bertrand Russell sui limiti delle ricerche di cause ed effetti e sulla necessità di ricerche olistiche, questa è quella dell’amministrazione italiana e, in generale, dello Stato), dunque l’assenza di un chiaro disegno organizzativo, nel quale siano fissate le linee di comando, i metodi di lavoro pre-tayloristici, l’assenza di un’alta burocrazia, la povertà degli studi, hanno una influenza, e non secondaria, a partire dal fascismo o dalla Repubblica, a seconda dei tempi di azione dei diversi fattori, sul contributo dell’amministrazione al progresso economico e sociale.
Per esaminare il modo in cui amministrazione, economia e società interagiscono, ho prescelto due campi, quello dello Stato esecutore di opere pubbliche, una delle prime funzioni dell’amministrazione, e quello dello Stato come regolatore, una delle funzioni pubbliche che si sono sviluppate di recente.
6.1 Le opere pubbliche bloccate. — L’amministrazione ha, direttamente o indirettamente, governato la dotazione infrastrutturale del Paese per almeno un cinquantennio (si pensi solo alla rete ferroviaria nel periodo che va dal 1861 al 1905, data del riscatto delle concessioni). Ha più tardi provveduto, anche in questo caso, sia direttamente sia indirettamente, ad altre infrastrutture (si pensi solo a quelle del Mezzogiorno, mediante l’apposita Cassa, istituita nel 1950, o alla rete autostradale dorsale – Autosole, realizzata in 8 anni).
Negli ultimi decenni, è invece emerso un deficit infrastrutturale. Il livello di dotazione media di infrastrutture dell’Italia risulta di cinque punti inferiore alla media dei cinque Paesi più evoluti d’Europa. Tra il 2007 e il 2016, il settore delle costruzioni ha subito una contrazione di circa il 37 per cento (18). I tempi medi di realizzazione delle opere sono cresciuti: 15 anni per una grande opera, di cui 8 per i tempi amministrativi (19). Secondo l’Istat, gli investimenti pubblici realizzati negli ultimi anni sono diminuiti del 5 per cento. I pagamenti per la realizzazione di infrastrutture, dal 2004, si sono dimezzati. È significativo notare che, mentre sono diminuiti i contratti pubblici per lavori, sono aumentati quelli per forniture e servizi amministrativi: l’amministrazione acquista invece di far fare. Dei 37 miliardi e mezzo del Fondo di sviluppo e coesione stanziati per il 2014-2020, nel 2019 risultavano impegnati poco meno del 12 per cento e spesi poco meno del 3 per cento (20).
Un riscontro di questa stasi dell’amministrazione contraente o banditrice si può notare nella crescita del fatturato estero delle imprese italiane di costruzione. Quello delle maggiori 43 imprese di costruzione si è quintuplicato dopo il 2004. Quello dei principali 4 gruppi è nettamente superiore al fatturato estero delle imprese di altri Paesi con analoghe cifre di affari (21). Insomma, come i laureati italiani, così anche le imprese italiane di costruzione vanno all’estero per cercare lavoro.
Questa situazione di blocco non può esser attribuita all’assenza di risorse, che sono disponibili, né al contenzioso, perché il Consiglio di Stato ha dimostrato che vi è un progressivo e costante smaltimento dei ricorsi arretrati, un minor numero di ricorsi pendenti, un minor numero di ricorsi sopravvenuti.
All’origine di questo stallo sta un groviglio di vincoli e fattori limitanti: incerta allocazione delle responsabilità, scarsità di dotazioni tecniche, disegno barocco di procedure che si intersecano e doppiano (è stato calcolato che siano necessarie 36 tappe per aprire un cantiere), eccesso di controlli (ma tutti «cartolari»), da ultimo soprattutto l’inserimento, come «deus ex machina» delle opere pubbliche, dell’Autorità nazionale anticorruzione. Questa è direttamente o indirettamente menzionata in metà dei 220 articoli del codice dei contratti pubblici vigente. La sua attività preventiva si sovrappone a quella della Corte dei conti. Si interessa di troppe materie: anticorruzione, trasparenza, contratti pubblici, incompatibilità e conflitti di interessi, spesa sanitaria, codici di comportamento dei dipendenti pubblici, oltre ad altri compiti occasionali. Svolge sette diversi tipi di compiti, per i quali non è attrezzata: regolatore di secondo grado, controllore, gestore di albi e banche dati, organo di vertice del sistema di qualificazione, organo di gestione o di supporto delle attività arbitrali, organo quasi giurisdizionale, organo sanzionatorio, oltre ad altre funzioni minori. È attributaria di attività nuove, come quella di dare «pareri di precontenzioso» o quella di svolgere funzioni di c.d. «vigilanza collaborativa» (22).
La disciplina dei contratti pubblici, costruita in funzione dei controlli e non dell’efficienza, ha finito per svolgere una funzione impeditiva, di frenare piuttosto che di accelerare l’affidamento e l’esecuzione di infrastrutture.
Per rimediare a questa situazione di stallo, vengono periodicamente riproposte soluzioni che la peggiorano, come nuove norme, quasi che siano esse ad aver virtù salvifica, invece che la qualità dell’amministrazione; un nuovo accentramento delle decisioni nel Comitato interministeriale della programmazione economica – Cipe; un rafforzamento di organismi ausiliari del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (Investitalia e Strategia Italia), invece che dello stesso Ministero; la adozione di procedure derogatorie (di urgenza e di somma urgenza) e di commissari straordinari, che costituiscono scorciatoie, producono incertezza, finiscono per rallentare.
Insomma, l’assetto attuale contiene incentivi negativi al decidere e all’eseguire, la normativa è costruita per impedire, invece che per costruire infrastrutture, gli uffici pubblici sono sotto il peso di troppe norme, impauriti dai controllori e dai profili penalistici delle leggi, depauperati di tecnici. Si aggiunga che la classe politica ha negato l’esistenza di questa situazione di blocco: il ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha affermato il 23 febbraio 2019 che «in Italia non esistono opere pubbliche bloccate».
Per concludere, quando la pubblica amministrazione non ha le forze per eseguire essa stessa le infrastrutture, si rivolge a terzi e ricorre a contratti per regolare i propri rapporti con questi. Ma, se non riesce neppure ad esternalizzare il servizio pubblico di costruzione di opere, è condannata all’inazione. Questa «condanna» non dipende soltanto dall’amministrazione stessa, perché non è essa che fa le leggi, e non danneggia solo l’amministrazione, frena anche il progresso del Paese.
6.2 Le difficoltà di iniziare un’attività imprenditoriale. — Per iniziare un’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande (quello che chiamiamo correntemente bar) occorrono fino a 72 adempimenti, che coinvolgono fino a 26 enti pubblici, con un costo di 15 mila euro. Numeri simili valgono per le gelaterie e per le falegnamerie, mentre per iniziare un’attività di autoriparatore si sale fino a 86 adempimenti, a 30 enti coinvolti e un costo di 18.500 euro. Inoltre, i tempi sono diversi da comune a comune (fino a tre volte) e così pure i costi (fino a cinque volte), e variano anche le regole applicate (alcuni comuni chiedono la Segnalazione certificata di inizio di attività – Scia, altri si accontentano della sola comunicazione alla Camera di commercio). Al centro di queste procedure vi sono lo Sportello unico delle attività produttive – Suap, lo Sportello unico per l’edilizia – Sue e l’Autorizzazione unica ambientale – Aua, ma nessuna delle loro procedure è veramente unificata, o, se è unificato l’organo, non sono unificate le procedure. La stessa Scia è unica e duplice (unica e condizionata).
I controlli sono molti: ambientali, sanitari, attinenti ai beni culturali, alla sicurezza del lavoro, allo smaltimento dei rifiuti, agli scarichi delle acque reflue, all’inquinamento atmosferico, ai prelievi idrici, all’apertura di passi carrabili, alla verifica di impianti elettrici, alla verifica della adeguatezza dei locali, alla potabilità dell’acqua, all’impatto acustico, alle autorizzazioni paesaggistiche. Sono tutti necessari, ma potrebbero esser meglio ordinati (per esempio, in parallelo e non in sequenza), esser svolti in coordinamento dalle diverse autorità titolari delle funzioni e senza scaricare sui richiedenti l’onere di adempimenti preliminari (esibizione di planimetrie, di fotografie, di certificati di prevenzione incendi, di autorizzazioni), accollando ad essi i relativi costi, oppure sopprimendo adempimenti superflui, facendo ricorso a collegamenti informatici. Anche le norme di semplificazione intervenute non sono state attuate sollecitamente o sono insufficienti, non solo per inerzie e resistenze di amministrazioni, ma anche per difficoltà fatte da privati in difesa di loro interessi corporativi o di categoria (23).
Un altro esempio di intralci amministrativi con effetti impeditivi è costituito dalle procedure alle quali sono sottoposte le attività di somministrazione non assistita (le cosiddette tavole calde, o self-service). Anche in questo caso, occorre avere almeno une ventina di autorizzazioni o nulla osta varî, da parte di più autorità, e sono altrettanti gli organi che possono effettuare accertamenti e controllo. La materia sarebbe sottoposta alla direttiva liberalizzatrice europea (Bolkestein), finita in un marasma di norme e circolari italiane, nazionali e locali, tra di loro contraddittorie, che regolano minutamente arredi e attrezzature, stoviglie, bevande, superfici, servizi igienici. Anche in questo caso, si sommano scarsa chiarezza di indirizzi, pressioni di amministrazioni e di privati (i ristoratori, che hanno chiaramente interessi contrari), poca cooperazione tra amministrazioni pubbliche, assenza di cabina di regia, di standardizzazione e di interoperabilità (24).
7. Come uscirne? — È in corso una rivoluzione non solo tecnologica e scientifica, ma anche sociale. Al posto degli stabilimenti industriali vi sono le «global value chains». Alla catena di montaggio lavorano robot. L’intelligenza artificiale sostituisce quella naturale. Figure professionali tradizionali scompaiono e ne appaiono di nuove. Agli scienziati è richiesto di uscire dalle loro torri d’avorio perché il progresso attraversa le barriere disciplinari (25).
Alle amministrazioni pubbliche è richiesto di non restare estranee da questo processo, anzi di farsene protagoniste, sia perché su di esse gravano i maggiori compiti dello Stato moderno, sia perché sono sempre più frequenti i vuoti lasciati dal corpo politico: se non avessero amministrazioni con robuste tradizioni e capaci di mettersi alla guida del progresso sociale, come avrebbero potuto sopravvivere nazioni come il Belgio, rimasto con un governo provvisorio, senza pieni poteri, per 540 giorni consecutivi, nel 2010-2011, e la Spagna, dove si sono succedute quattro elezioni politiche in quattro anni (2015-2019)?
Se l’amministrazione italiana si modernizzasse, la nazione potrebbe sopravvivere alla incompetenza programmatica della politica («uno vale uno»), all’assenza di conoscenze tanto diffusa nel corpo politico (quelli che parlano dello Stato non sanno, quelli che sanno non parlano), al prevalere del breve termine in politica.
Invece, mentre c’è bisogno di una azione razionalizzatrice quotidiana e continua, una politica di lungo termine, perché la riforma amministrativa è da considerare come le politiche estera e di difesa, che scavalca i governi, resta attuale la diagnosi di Francesco De Sanctis (1865): «le lotte politiche hanno tolto il tempo alle riforme amministrative»; «nessun Ministero è durato tanto da compiere ed attuare il suo programma» (26).
Le risorse finanziarie ci sono o si trovano. Nella società vi è una crescente attenzione per l’amministrazione, con proposte di semplificazione che partono dal basso, dagli utenti e dalle organizzazioni di categoria, ormai abituati all’idea che denunciare o ribellarsi non basta e che è necessario un piano di interventi di brevissimo, di breve, di medio e lungo periodo. Vi è anche la convinzione che, proprio per le condizioni di arretratezza descritte, da un’opera razionalizzatrice possono venire risultati notevoli, se ad essa riesce quel balzo in avanti che è possibile. Occasioni e possibilità ci sono, quindi. Spetta a una nuova dirigenza sfruttarle.
Ma mancano tre condizioni, la prima nell’amministrazione, la seconda nella classe politica e nell’ordine giudiziario, la terza nella cultura.
Nell’amministrazione mancano quelli che un documento dell’Ocse del 2017 ha definito «Core Skills for Public Sector Innovation»: «iteration (incrementally and experimentally developing policies, products and services); data literacy (ensuring decisions are data-driven and that data isn’t an after thought); user centricity (public services should be focused on solving and servicing user needs); curiosity (seeking out and trying new ideas or ways of working); storytelling (explaining change in a way that builds support); insurgency (challenging the status quo and working with unusual partners)».
Il dirigente, in particolare, deve saper e poter fare il falegname e il giardiniere. Il falegname che modella, lavora, porta fino in fondo l’opera, di cui ha un pieno controllo. Il giardiniere, che disegna, pianta, concima, pota, ma deve anche tener conto della terra, del clima, dei venti, delle piogge, tutti fattori di cui non ha il controllo diretto.
Nella classe politica e nell’ordine giudiziario manca il rispetto della separazione dei poteri, viste le continue esondazioni del legislatore e delle procure nell’attività amministrativa. Per ambedue dovrebbe valere il ricordo di quanto è scritto nell’articolo 16 della «Déclaration de droits de l’homme et du citoyen» del 1789: «Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution».
Nella cultura v’è bisogno di quella che viene chiamata interdisciplinarità, ma che è molto di più, perché richiede di superare le frontiere, di dedicarsi alle intersezioni, di creare nuovi territori a cavallo delle frontiere: come è stato più volte ripetuto, le amministrazioni sono passate dalla piramide alla rete. Richiede di recarsi negli Iperborei, dove robotica ed etica, medicina e fisica, diritto e statistica, storia e sociologia, si incontrano dando luogo a nuove aree, come le scienze della vita, in cui confluiscono conoscenze diverse, la biologia molecolare, le biotecnologie, il digitale.
(1) Una buona parte di questi dati è in In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità ad oggi, a cura di G. Vecchi, Bologna, il Mulino, 2011, spec. XXIII.
(2) Parzialmente diversa l’idea di E. Felice, A. Nuvolari e M. Vasta, Alla ricerca delle origini del declino economico italiano, in L’Industria, 2019, 2, 197 ss., secondo i quali l’Italia sarebbe esempio di un «fallimento istituzionale» che ha radici lontane e si aggrava nell’ultimo decennio.
(3) S.M. Davidoff Solomon e D. Zaring, Regulation by Deal: The Government’s Response to the Financial Crisis, in 61 Administrative Law Review (2009), 463 ss.
(4) L’espressione è usata nel libro famoso di C. Schmitt, Legalità e legittimità, scritto nel 1932, riflettendo sulla crisi della Costituzione di Weimar (trad. it., Bologna, il Mulino, 2018, 61 e 132, nonché 57, 100, 134-135).
(5) In questo toolkit mancano peraltro spesso coordinate concettuali, prevale un certo «provincialismo» (la chiusura anglofona), si ripete l’errore dei giuristi, quello di arroccarsi nella autonomia della propria disciplina e del proprio metodo, questa volta a danno degli apporti delle discipline giuridiche.
(6) L. Saltari, Che resta delle strutture tecniche nell’amministrazione pubblica italiana?, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 249 ss.
(7) C. Giorgiantonio, T. Orlando, G. Palumbo e L. Rizzica, Incentivi e selezione del pubblico impiego, Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, luglio 2016, 342.
(8) S. Cassese, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione costituzionale, in Giorn. dir. amm., 2002, 1341 ss. e S. Battini e B. Cimino, La dirigenza pubblica italiana tra privatizzazione e politicizzazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 1001 ss.
(9) S. Cassese, Grandezza e miserie dell’alta burocrazia in Italia, in Pol. dir., 1981, 219.
(10) G. Melis, La dirigenza pubblica in Italia: anello (mancante) di congiunzione tra politica e amministrazione, in Scienza & politica, 2014, 95 ss.
(11) S. Cassese, Trasformazioni dell’amministrazione, in Reg. gov. loc., 1990, 217 ss.
(12) Scuola nazionale di amministrazione, Sistemi di selezione e valutazione dei dirigenti pubblici in Europa. Spunti per la riforma in Italia, Roma, s.d.
(13) A. Rapini, Una scienza “per” lo Stato o una scienza “sullo” Stato? Qualche ipotesi sulla storia della scienza dell’amministrazione in Italia, relazione non pubblicata, passim.
(14) R. Ciasca, Questione del Mezzogiorno, in Enciclopedia italiana, ad vocem.
(15) Ocse, Government at a Glance, 2019.
(16) Censis, Rapporto sulla situazione sociale del Paese, Roma, 2019, 58-59. Ivi si vedano le tabelle 25 e 26.
(17) F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Il diritto penale senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, il Mulino, 2019.
(18) Rapporto Assonime, Politica delle infrastrutture e degli investimenti; come migliorare il contesto italiano, s.d.
(19) I. Visco, Investimenti pubblici per lo sviluppo dell’economia, relazione al 64° Convegno di studi amministrativi, Varenna, 22 settembre 2018.
(20) Rapporto Svimez 2019 sull’economia e la società nel Mezzogiorno, 2019.
(21) S. Filippetti, L. Galvagni e M. Mangano, Costruzioni, crisi da 0,5% del Pil, in Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2018.
(22) La nozione di «vigilanza collaborativa», svolta da un controllore esterno, quale l’Autorità nazionale anticorruzione, è contraddittoria: il controllore esterno dovrebbe vigilare, non collaborare; altrimenti, la sua attività diventa una forma di «cogestione forzata». La nozione di «controllo collaborativo» è stata oggetto di numerose interpretazioni, soprattutto in rapporto ai caratteri del controllo sulla gestione e dei controlli sugli equilibri economico-finanziari degli enti territoriali, svolti dalla Corte dei conti. Rimane, tuttavia, una definizione ambigua, che ha prodotto nella prassi numerose disfunzioni: per una loro analisi, E. D’Alterio, I controlli sull’uso delle risorse pubbliche, Milano, Giuffrè, 2015, spec. 381 ss.
(23) Tutti questi dati in Cna, Comune che vai burocrazia che trovi. Osservatorio che misura il peso della burocrazia sull’avvio di impresa, I rapporto 2018.
(24) Cna, Comune che vai burocrazia che trovi. Cibo ad ostacoli, Osservatorio 2019.
(25) M.C. Carrozza, L’istruzione al tempo della quarta rivoluzione industriale. Sulla necessità di evocare competenze trasversali ed il pensiero interdisciplinare negli studenti italiani, relazione non pubblicata, 7.
(26) F. De Sanctis, L’Italia sarà quello che sarete voi. Discorsi e scritti politici (1848-1883), Sant’Angelo dei Lombardi, Delta edizioni, 2014, 91-92.