Le tecnologie di tracciamento rappresentano a livello globale uno sforzo comune di prevenzione reciproca, ma non si possono ignorare i pericoli che tali dispositivi di iper-regolamentazione dei comportamenti umani comportano. Qual è il ruolo dei pubblici poteri? Come tutelare la salute e insieme la privacy? In che modo deve avvenire il bilanciamento tra i diritti? Che peso hanno le posizioni dell’Unione europea? E, infine, le applicazioni per il tracciamento dei contatti e prevenire la diffusione del Covid-19 minacciano le garanzie dello Stato di diritto?
Sono molti gli aspetti di interesse connessi alle applicazioni di tracciamento per contrastare l’espandersi dell’epidemia. Si può discutere dei riflessi della tecnologia sulla tutela della privacy. Alcune app identificano i contatti di una persona tracciando i movimenti del telefono usando il GPS o la triangolazione dai ripetitori dei cellulari vicini e cercando altri telefoni che hanno occupato del tempo nella stessa posizione. Altri sistemi utilizzano il “proximity tracking” più facile da anonimizzare, in cui i telefoni scambiano gettoni criptati con qualsiasi altro telefono vicino tramite Bluetooth. Altre ancora il DP-3T, acronimo di tracing di prossimità decentralizzato che preserva la privacy, un protocollo open-source per il tracciamento basato sul Bluetooth in cui i registri dei contatti di un singolo telefono sono memorizzati solo localmente, in modo che nessuna autorità centrale possa sapere chi è stato esposto (ne abbiamo parlato qui). Si può dibattere del rapporto con la propaganda: se l’unico sistema per mantenere la salute pubblica è quello di lasciarsi controllare è logico che tra coronavirus e sorveglianza si scelga la seconda. Oppure può essere approfondito il tema della procedura di selezione per la scelta della migliore soluzione tecnologica per il tracciamento dei positivi.
Qui si intendono aggiungere ulteriori considerazioni rispetto alle garanzie dello Stato di diritto a partire dal fatto che tale app, funzionale a notificare un contatto rivelatosi pericoloso, rappresenta pur sempre un dispositivo di iper-regolamentazione dei comportamenti umani, modellato «attraverso atti d’autorità che aprono e chiudono, concedono e vietano, impongono e consigliano, disapprovano, esortano e raccomandano» (Gustavo Zagrebelsky, La Repubblica 29 aprile 2020).
Primo: questa tecnologia di sorveglianza usata in vari modi nei paesi è decisa o supportata dallo Stato. Sono state mappate più di venticinque tecnologie di tracciamento automatizzato dei contatti a livello globale promosse dagli Stati (un conteggio delle iniziative pubbliche, private e miste e le scelte degli Stati in merito è disponibile qui). Almeno per una volta non può essere usata la retorica della burocrazia come nemica della ripartenza, perché sono gli apparati pubblici in connessione con i servizi sanitari ad imprimere un’accelerazione a questi fenomeni di condotte virtuose per convivere con il virus. Certo la pubblica amministrazione non dispone di queste conoscenze tecnologiche, ma si serve dei privati per progettare e realizzare soluzioni di “notifica di esposizione” dirette ad informare gli utenti se qualcuno è stato potenzialmente esposto a covid-19. Da qui emergono altre criticità cui si è in parte fatto cenno. I privati come sono stati scelti? Le piattaforme private offrono garanzie di imparzialità?
Secondo: come tutelare la salute e insieme la privacy? Come garantire la sicurezza dei cittadini, ma anche la loro libertà? Che rapporto c’è tra il diritto alla salute e il diritto alla privacy? Un conflitto irrisolvibile o una possibile conciliazione? È ovvio che qualunque soluzione tecnologica incidente sulla libertà di movimento estende la sfera di controllo dei pubblici poteri e tende a indebolire il sistema democratico (ne abbiamo parlato qui). Ragionando in questi termini sembra emergere tra i due diritti un irrisolvibile conflitto, dal momento che il diritto alla privacy impone un obbligo negativo dello Stato di non interferire in alcun modo nella vita privata degli individui, mentre le applicazioni di tracciamento presentano pur sempre rischi di scivolamento verso regimi di sorveglianza di massa. Ma se la sicurezza dei cittadini viene prima di tutto è chiaro che occorre escogitare soluzioni dirette a bilanciare i diritti in conflitto tra loro all’interno di un contesto in cui beni essenziali e costituzionalmente protetti possono venire limitati. Allora la conciliabilità diviene necessaria e la messa in atto del contact tracing deve avvenire assicurando la temporaneità e la proporzionalità e permettendo il controllo sui movimenti dei contagiati solo nella misura che sia sufficiente per raggiungere la finalità di prevenzione e indispensabile per arginare la diffusione del virus secondo un criterio di gradualità.
Terzo: a chi compete questo bilanciamento dei diritti? Chi valuta quale restrizione è giustificata alla luce dell’interesse costituzionalmente tutelato della sanità ed incolumità pubblica? Chi è impegnato a valutare, anche in termini di analisi costi-benefici, i beni sacrificati e quelli tutelati? La risposta è facile e può essere solo una: il legislatore. È stato il decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, difatti, a ponderare tra l’interesse collettivo alla salute e l’interesse individuale alla privacy sulla scorta del fatto che l’esigenza di salute pubblica può prevalere sulla libertà individuale da limitare in nome della sicurezza, secondo la tecnica tipica del giudizio di ragionevolezza. Così facendo il legislatore fissa le linee guida per il funzionamento del sistema da rendere operativo (come è avvenuto) con un decreto ministeriale previo parere dell’Autorità garante della privacy tenuta ad una specifica valutazione preventiva di “impatto”. Il decreto legge, in pratica, ha tradotto nel concreto i principi di precauzione e prevenzione stabilendo: la gestione e la titolarità pubblica del programma informatico; il livello di informazione, trasparenza e di quantità di dati raccolti; il divieto di utilizzo per finalità diverse; le regole di conservazione dei dati; l’anonimizzazione; l’uso su base volontaria e la proibizione di limiti all’esercizio dei diritti fondamentali per coloro che non la impiegheranno; l’interruzione all’utilizzo dell’applicazione nel momento in cui sarà decretata la cessazione dello stato di emergenza.
Quarto: come sempre più spesso accade il legislatore italiano non ha operato in modo solitario. Le scelte di bilanciamento cui si è fatto cenno emergono da un percorso comune europeo, delineato prima dalla Presidente della Commissione europea e dal Presidente del Consiglio europeo, poi dalla raccomandazione (UE) 2020/518 relativa a un pacchetto di strumenti comuni dell’Unione per l’uso della tecnologia e dei dati al fine di contrastare la crisi Covid-19 e, infine, dal “Common EU Toolbox for Member States” dell’eHealth Network. Tutti documenti che sono stati utili a definire una strada comune nell’ambito delle misure di contenimento per sistemi di tracciamento dei contatti e dei contagi coerenti con il modello democratico e funzionali ad arginare potenziali derive autoritarie.
Non a caso il premier ungherese Viktor Orbán, che da tempo ha trasformato l’Ungheria in una sorta di democrazia autoritaria, nelle settimane dell’emergenza ha sovra-rappresentato i rischi derivanti dalla pandemia per sospendere le norme europee per la protezione dei dati. Ma le tecnologie di tracciamento possono essere compatibili con i diritti fondamentali. Basta monitorare se l’app sia volontaria ossia opt-in, se ci sono limitazioni su come i dati vengono utilizzati, se i dati saranno distrutti dopo un certo periodo di tempo, se la raccolta dei dati è ridotta al minimo, se il codice è trasparente e disponibile al pubblico. Insomma fronteggiare l’emergenza non vuol dire sopprimere le garanzie dello Stato di diritto.