Antibiotici, machine learning e Albert Bruce Sabin

Il machine learning ha fornito una prova dirompente delle sue potenzialità. Sul piano tecnico, lo scenario è ancora in evoluzione e molto altro ci sarà da osservare. Su quello sociale e giuridico, la nuova scoperta pone quesiti fondamentali, relativi alla distribuzione dei benefici.

 

La notizia arriva forte come un tuono: il machine learning è riuscito a trovare un nuovo antibiotico, senza aiuti umani, in base alla mole di dati a disposizione e alle capacità di calcolo teorico.

In attesa da lustri, la ricerca su nuovi antibiotici era sostanzialmente ferma quanto a nuove scoperte. Oggi, una forma estremamente evoluta di algoritmi ha dato prova di tutta la sua forza. Con una operazione impensabile per le forze tradizionali, è stato compiuto un passo fondamentale per contrastare il fenomeno della resistenza agli antibiotici. Seguendo i metodi conosciuti di sperimentazione, gli esiti avrebbero richiesto anni; al contrario, ampliando le ipotesi chimiche e il numero di test, una macchina di apprendimento ha potuto sondare con estensione vastissima, in tempi contenuti, le possibili risposte. Come affermato dalla Prof.ssa Regina Barzilay, che insegna Ingegneria elettronica e Computer Science al MIT, “[t]he machine learning model can explore, in silico, large chemical spaces that can be prohibitively expensive for traditional experimental approaches”.

Il risultato è l’individuazione di un antibiotico nuovo, che ha caratteristiche chimiche e cellulari tali da superare il problema serissimo della resistenza. Il potenziale degli algoritmi predittivi è così svelato. L’innovazione tecnica è straordinaria, se si considera, come anticipato, che negli ultimi decenni nessun nuovo antibiotico era stato individuato.

In un momento in cui l’emergenza del coronavirus ha richiesto sforzi notevoli, simili episodi assumono una rilevanza sociale primaria. Sono già analizzate le AI che possono seguire il flusso delle pandemie, con il fine di predirne i movimenti (e che pongono problemi, a loro volta, di altra natura, come la sorveglianza e il controllo sanitario, che però sembrano recessivi dinanzi al diritto alla salute). La Stanford University ha anche lanciato un programma su scala internazionale, il Folding@Home: si tratta della possibilità di condividere dei propri apparati elettronici (privati), da mettere rete al fine di aumentare le possibilità di calcolo delle macchine a disposizione dei ricercatori, al fine di condividere maggiori informazioni, raccogliendo dati di ausilio nel trovare l’augurata cura alla pandemia che sta segnando il 2020.

Sul il piano tecnico, il risultato resta affascinante e misterioso; su quello sociale e istituzionale presenta domande notevoli e di importanza anche maggiore. A chi appartiene tale scoperta? Quale il beneficio sociale? Come poter condividere gli effetti di una simile scoperta, a beneficio della collettività?

Alla fine degli anni Novanta, quando si dischiusero le possibilità su vasta scala di marcatura completo del genoma umano, furono molti gli interrogativi e si sostenne a ragione che il beneficio doveva essere collettivo.

Nel caso degli algoritmi, le domande sono analoghe. Ora divengono di dominio pubblico, ma fluttuano da tempo. Dovrebbe prevalere un approccio corale, che remuneri gli sforzi dei ricercatori, ma che al tempo stesso non limiti i benefici e si estenda a tutta la popolazione. La ricerca è spesso frutto del ruolo promotore dello Stato (come insegna Mariana Mazzucato). La tematica, inoltre, dovrebbe essere inquadrata in modo costituzionalmente forte, prediligendo la tutela dei diritti fondamentali, tra i quali primeggia il diritto alla salute.

Gli esempi non mancano e possono esser di ausilio nel fornire risposte puntuali o scrivere una nuova cornice giuridica. Albert Bruce Sabin, con una decisione storica,  rese noto che “[t]anti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo.

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