Una battuta, poco più di due-tre righe. Ma questa previsione di tono pessimistico e al tempo stesso accorato del grande storico Adolfo Omodeo (1889-1946), datata dicembre 1918 (si sono appena spenti gli echi della Grande Guerra), rivela molto sul tumultuoso dopoguerra che già si annuncia e anche sull’esplosione della questione sociale degli impiegati, che saranno protagonisti nel biennio rosso imminente di grandi scioperi e manifestazioni di piazza molto partecipate. La guerra, bloccando i concorsi, aveva aperto una pagina nuova, del tutto inedita e carica di incognite, nella storia della burocrazia italiana: i rientri agli uffici dei combattenti e la loro richiesta pressante perché fossero subito licenziate le donne che in alcuni settori li avevano degnamente sostituiti; la pochezza degli stipendi, letteralmente erosi dalla inflazione galoppante; la suggestione più o meno vasta delle idee rivoluzionarie messe in circolo dalla vittoria bolscevica in Russia; e non ultime le proposte radicali delle correnti modernizzatrici (ci furono anche quelle: i “tayloristi della scrivania”) perché si adottassero anche nelle amministrazioni di Stato modalità di lavoro a tempo, con premi per i più meritevoli e rapporti modellati su quelli dell’industria privata (e le resistenze – per converso – di chi nella burocrazia nulla voleva si cambiasse e anzi chiedeva di ritornare all’antico).
Tutto fa credere che si tornerà alla vecchia Italia, con una burocrazia affamata e rivoluzionaria e un governo debole e imprevidente. Certo, quelle degli impiegati non son maniere; ma anche il patrio governo, per quanto impegnato in guerra, poteva capire che una simile situazione non poteva durare per gli impiegati, e decidersi una buona volta a una riforma che ne diminuisse il numero ed elevasse gli stipendi.
Adolfo Omodeo, Lettere 1910-1946, Torino, Einaudi, 1963, p. 349, dalla lettera alla moglie, Eva Zona, da Carbonera, 15 dicembre 1918.