Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 15% della popolazione mondiale ha una qualche forma di disabilità; visitare o spostarsi in città è, per queste persone con particolari necessità, una delle principali preoccupazioni. Stando ai dati stilati dall’ANMIL (Associazione Nazionale fra lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro), anche se sono sempre di più i comuni italiani che, sensibili alle esigenze di tutti, promuovono iniziative orientate all’abbattimento delle barriere architettoniche e sociali, la strada da percorrere per rendere le nostre città davvero pienamente accessibili è ancora lunga. Eppure, l’intervento sulle città, sulla loro forma e sui principi che le governano è necessario, in quanto è atto ad assicurare il soddisfacimento pieno degli interessi della persona: il miglioramento delle condizioni di vita, in qualunque parte del mondo, passa necessariamente per il miglioramento delle città, perché la maggior parte dell’umanità vive all’interno di esse. È abbastanza chiaro, quindi, che del tema dell’accessibilità urbana debba tenersi debitamente conto nel momento in cui si progettino le cd. smart cities, nuovo paradigma dello sviluppo urbano.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 15% della popolazione mondiale ha una qualche forma di disabilità; visitare o spostarsi in città è, per queste persone con particolari necessità, una delle principali preoccupazioni.
Stando ai dati stilati dall’ANMIL (Associazione Nazionale fra lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro), in Italia vi sono città in cui le persone disabili non hanno grossi problemi e altre che invece si mostrano ancora molto ostili al tema; in ogni caso, anche se sono sempre di più i comuni italiani che, sensibili alle esigenze di tutti, promuovono iniziative orientate all’abbattimento delle barriere architettoniche e sociali, la strada da percorrere per rendere le nostre città davvero pienamente accessibili è ancora lunga. Gli interventi apprestati, quando apprestati, sono spesso complessivamente inadeguati; e ciò dipende sia dalla crisi dell’equilibrio finanziario dei conti pubblici, sia dalla frammentazione normativa, che certamente non aiuta chi debba applicare le disposizioni a districarsi nel labirinto delle regole.
Le persone maggiormente vulnerabili difficilmente riescono quindi a partecipare alla prosperità derivante della rivitalizzazione urbana. Non tutti i residenti, in quest’ottica, riescono ad avere un eguale accesso ai servizi della città, a partecipare al processo decisionale comunale e a beneficiare della crescita economica della città.
Si tratta di un problema che incide negativamente sul diritto fondamentale alla salute di queste persone: poter disporre di luoghi fruibili con facilità e sicurezza, infatti, facilita la mobilità e amplifica la rete delle relazioni sociali.
Invero, come attestano gli studi di economia aziendale sul punto, una città piena di ostacoli è una città diseconomica: l’accessibilità urbana deve essere quindi letta come un investimento, non come una spesa: essa, se davvero garantita, non solo alimenta senza dubbio il fenomeno del turismo, facendolo diventare inclusivo (accessibile) e competitivo, capace di favorire sviluppo economico, culturale e sociale in tutto il territorio; ma consente più in generale alle persone disabili residenti -abitanti dei territori- di sviluppare pienamente la propria personalità, ex art. 2-3 Cost., oltre che, tra le altre cose, di contribuire (ovvero, di continuare a contribuire, qualora la disabilità sia sopravvenuta) al progresso materiale o spirituale della società tramite l’esercizio del proprio diritto al lavoro (la cui effettività dipende dalla promozione delle condizioni da parte della Repubblica, ex art. 4 Cost.).
L’intervento sulle città, sulla loro forma e sui principi che le governano, in questo senso, è atto ad assicurare il soddisfacimento pieno degli interessi della persona: il miglioramento delle condizioni di vita, in qualunque parte del mondo, passa necessariamente per il miglioramento delle città, perché la maggior parte dell’umanità vive all’interno di esse.
È abbastanza chiaro, quindi, che di questo problema debba tenersi debitamente conto nel momento in cui si progettino le cd. smart cities, nuovo paradigma dello sviluppo urbano.
Il concetto di smart city non può infatti essere limitato soltanto alla digitalizzazione o legato esclusivamente alle problematiche ambientali. Esso implica al contrario una vera e propria rivoluzione di come concepire il rapporto tra uomo, ambiente e territorio.
In altre parole, sarebbe erroneo assimilare in senso pieno (e asettico) smartness e digitalization, posto che nella costruzione di una nuova realtà urbana risultano centrali numerosi altri fattori (umani, sociali, istituzionali). Una città non è intelligente sol perché tecnologica; una città è intelligente quando, pur se tecnologica (e grazie al fatto di essere tecnologica), riesce a soddisfare gli interessi e i diritti (recte, a facilitare il soddisfacimento degli interessi e dei diritti) di chi la abita (e, più in generale, di chi la frequenta).
Le Smart Cities devono creare le condizioni di governo, infrastrutturali e tecnologiche, per produrre anche innovazione sociale. Solo se davvero “sensibili” perché inclusive le città del futuro potranno essere definite effettivamente intelligenti. Tali necessità sembra siano state messe in evidenza anche dalle Nazioni Unite, le quali, tra i principi per la implementazione della New Urban Agenda del 2016, precisato che «le città sono per la gente», hanno incluso anche quello di “providing equal access for all to physical and social infrastructure and basic services”.
Ciò significa arricchire la digitalization (indispensabile, per lo sviluppo futuro del tessuto urbano) di significati; vuol dire prendere contezza del fatto che la tecnologizzazione delle attività e dei servizi è un mezzo, e non un fine.
In termini generali, come l’esperienza tristemente ci insegna, le tecnologie, seppure capaci di contribuire allo sviluppo di una società più efficiente, veloce e globalizzata, diventano purtroppo spesso fonte di emarginazione e di diseguaglianze: si pensi, a titolo esemplificativo, ai disequilibri sociali che sono venuti a sostanziarsi nel corso della pandemia, alla luce del differenziale digitale proprio delle famiglie italiane, di cui abbiamo parlato qui.
Si tratta di un tema centrale, di cui occorre sempre tenere debitamente conto nel portare avanti gli studi sull’innovazione tecnologica, la quale pone dunque una questione sociale, un vero e proprio problema di accessibilità: lo strumento tecnologico (che è sempre meno strumento e sempre più centro decisionale capace di mutare gli equilibri) diventa possibile causa di differenziazione tra le persone, posto che non tutti possono ad esso liberamente accedere (su questi aspetti, si v. il volume di E. Caterini, recensito QUI).
È indubbio che grazie all’IA, le città riusciranno a offrire servizi pubblici migliori, disponibili ovunque e in qualsiasi momento: ciò, come rilevato in altra occasione, è evidente laddove si consideri ad esempio il fenomeno “chatbot” (il software progettato per consentire all’utente di un servizio di conversare con un “agente intelligente” come se stesse dialogando con un umano).
Tuttavia, se è vero che questi servizi ridurranno i passaggi amministrativi e veicoleranno le richieste/segnalazioni presso i reparti giusti (quindi, più rapidamente), che ne sarà di quelle persone che hanno poca dimestichezza con la tecnologia e non riusciranno per questo ad assoggettarsi al meccanismo dell’IA? Dovranno esse forse rinunciare a priori a usufruire di certi servizi pubblici, che non saranno altrimenti accessibili, se non digitalmente? Problema da non sottovalutare in Paesi come il nostro, dove il livello di digitalizzazione, stando ai dati dell’indice DESI (di cui abbiamo dato conto QUI), non è ancora del tutto ottimale (e influisce, dunque, sul divario digitale esistente).
Evidentemente, il problema si accentua qualora si analizzino i rapporti tra digitalizzazione e soddisfacimento degli interessi delle persone disabili: la tecnologia, secondo logiche di mercato, viene normalmente progettata e programmata per un’utenza priva di disabilità; in tal modo, crea delle barriere virtuali che sono perfettamente equiparabili a quelle (più evidenti, ma non per questo più gravi) cd. architettoniche. Si consideri, a titolo esemplificativo, il tema della accessibilità delle persone disabili agli strumenti informatici delle pp.AA. Allo stato, come rilevato in un altro post di questo osservatorio, sono numerosi i casi in cui le persone disabili non riescono ad accedere liberamente ai siti della pubblica amministrazione italiana, ovvero ai documenti che in questi stessi siti sono inseriti.
Si dovrà dunque lavorare con attenzione al fine di evitare che la tecnologia continui ad essere causa di un aggravamento delle differenze.
Contestualmente, essa dovrà essere utilizzata con il fine di agevolare attivamente l’inclusione all’interno del contesto sociale e, consequenzialmente, con lo scopo di rendere i contesti urbani luoghi di reale “inclusive smart living”: si potrà ad esempio investire su interventi tecnologici all’avanguardia che consentano alle persone disabili di tenere traccia dei percorsi accessibili tramite un aggiornamento costante delle informazioni legate all’accessibilità dei luoghi.
In altri termini, è necessario che la digitalizzazione, evitando di innalzare nuovi muri per chi abbia difficoltà e bisogni particolari, si ponga al servizio del soddisfacimento di questi interessi particolari e diventi veicolo di uguaglianza.
In verità, l’investimento sulla “digitalizzazione inclusiva” dovrà essere proceduta (o quantomeno accompagnata) da un importante investimento sulla cd. alfabetizzazione digitale: il rischio è che, altrimenti, coloro i quali potranno usufruire di questi strumenti all’avanguardia, non saranno messi nella condizione di poterli “sfruttare” appieno a loro vantaggio.
Nonostante il Consiglio dell’Unione Europea, nel maggio 2018, in costanza della pubblicazione delle nuove competenze chiave per l’apprendimento permanente, abbia qualificato il digitale come “competenza di base”, accanto al leggere e allo scrivere, nel nostro Paese, l’alfabetizzazione digitale dei singoli cittadini, come dimostrano i dati del suddetto indice DESI sul punto, non è stata debitamente assicurata: occorre invece puntare sulla educazione di base dei cittadini, i quali, allo stato, sono per lo più privi di competenze digitali (o, anche quando astrattamente capaci di comprendere il funzionamento di certi strumenti, rinunciano a usufruirne, perché diffidenti; come rilevato in una ricerca condotta dall’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità della School of Management del Politecnico di Milano con riferimento al settore della sanità, ad esempio, 8 cittadini su 10 non usano, allo stato, i servizi sanitari via web).
L’investimento sulla tecnologia, come precisato anche dal CNB e dal CNBBSV nel parere espresso su richiesta del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui abbiamo dato conto QUI, va dunque condotto sempre nel prisma dei valori della persona (fulcro dell’ordinamento, intesa in una prospettiva assiologica e ontologica): l’innovazione non deve smarrire la dimensione sociale dell’umanità e deve al contrario sviluppare, nelle sue potenzialità, la capacità di cooperazione tra gli uomini. Tramite l’innovazione può essere davvero garantita l’effettività dei diritti e dei doveri dell’uomo.
In quest’ottica, appare di rilievo l’impegno del giurista, che deve impegnarsi per agire affinché il diritto accresca il tasso di socialità, assumendo una posizione interpretativa che sia coerente con la legge fondamentale della Repubblica. L’intelligenza artificiale, di cui tanto si farà uso nel rendere intelligenti le comunità, dovrà configurarsi quindi strumento di sostenibilità sociale; dovrà essere, cioè, grazie alla sua capacità di guardare al futuro, un facilitatore che sospinge e agevola le azioni verso la sostenibilità, da intendersi quale principio generale dell’ordinamento italo-europeo secondo il quale la fenomenologia giuridica del presente deve rispettare e conservare la futurità.
Importante e indispensabile sarà poi probabilmente il ruolo attivo dei pubblici poteri, i quali si ritiene che non dovranno limitarsi a concedere finanziamenti pubblici per promuovere lo sviluppo delle città intelligenti, ma dovranno svolgere una specifica attività di indirizzo e programmazione, individuando, dall’alto (top-down), le misure da adottare per ottenere un grado elevato di innovazione anche sociale.
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