A passeggio con l’informatica – 20. Non avrai intelligenza al di fuori di me!

Ventunesima puntata del nostro viaggio


Mentre nel
post precedente abbiamo messo a fuoco alcune caratteristiche dell’intelligenza delle macchine, in questo mi concentro su alcuni aspetti peculiari dell’intelligenza umana, che la rendono diversa da quella che ho suggerito di chiamare “intelligenza meccanica” e che, quindi, ritengo impossibile da realizzare attraverso meccanismi artificiali.

Si tratta di alcuni elementi  che caratterizzano in modo specifico e unico la comunità di individui in carne e ossa, e rispetto ai quali le macchine cognitive sono intrinsecamente diverse da noi.

Una prima differenza deriva dal fatto che le informazioni sul mondo che noi acquisiamo mediante i sensi diventano rappresentazioni, cioè dati, per le nostre elaborazioni, attraverso il filtro del nostro cervello, che quindi ci fa percepire una realtà che non necessariamente è oggettiva, ovvero universalmente condivisa. Però, avendo le persone una stessa natura umana, pur nella loro diversità individuale, si può raggiungere un qualche grado di accordo sull’oggettività di ciò che viene percepito, anche grazie all’ausilio del linguaggio che ci permette di spiegare e condividere le descrizioni delle sensazioni provate. Questo non accade tra noi e altre specie animali. A maggior ragione, non si applica a una macchina cognitiva che riceve rappresentazioni già definite da qualcuno (in base a criteri da questo stabiliti ma che magari non sono noti e quindi difficilmente condivisibili) oppure le deve costruire attraverso sensori fisici di acquisizione, anch’essi governati da altri automi. È arduo sostenere che questo consenta di avere rappresentazioni condivise tra uomini e macchine.

Una seconda differenza risiede nel fatto che, come già detto, le macchine cognitive non hanno un corpo fisico, e quindi non possono trattare tutti quegli aspetti emotivi che dipendono intrinsecamente da esso. Le più recenti acquisizioni delle neuroscienze ci dicono che quando abbiamo paura o siamo felici, queste emozioni sono prima di tutto reazioni fisiche che avvengono in modo involontario nel nostro corpo a causa di eventi percettivi (ma possono essere scatenate anche dall’attivazione di un ricordo) e che hanno lo scopo, giustificato in base all’evoluzione, di mantenere l’equilibrio del corpo stesso, per esempio facendoci fuggire da una situazione di pericolo o permanere in una condizione positiva. Il ruolo delle emozioni è fondamentale nel determinare la nascita e la crescita delle relazioni sociali e nella valutazione delle situazioni. La loro assenza nelle macchine cognitive è una differenza che le mette in modo insuperabile in una classe a parte. Connessa a questa mancanza vi è l’assenza dell’autocoscienza, cioè della coscienza di se stessi, elemento fondamentale per poter “sentire le emozioni”. Non si può escludere, in linea teorica, la possibilità che, grazie agli sviluppi delle tecniche di intelligenza artificiale, si riesca a creare delle macchine cognitive che sono in qualche modo coscienti di se stesse. Ma, anche se questo dovesse accadere, e mi sembra molto improbabile, si tratterebbe sempre dell’autocoscienza di una specie aliena rispetto alla razza umana, perché basata su materiali fisici differenti.

Una terza differenza è quella della creatività, dell’intuizione, di ciò che in modo sotterraneo, subconscio, ci rende possibile “uscire dagli schemi” e trovare chiavi di lettura decisive per scenari apparentemente indecifrabili. Essa deriva, in modi assolutamente non chiari – allo stato attuale dell’indagine scientifica, dall’interazione tra il livello della coscienza, ovvero il “luogo della mente” in cui abbiamo le rappresentazioni del corpo fisico, e il livello del corpo fisico. Poiché le macchine cognitive non hanno né l’una né l’altro sembrano essere chiaramente escluse da questa possibilità.

Certamente vi sono i recentissimi sistemi di intelligenza artificiale generativa che, a partire dal 2021, sono in grado di sintetizzare, a partire da una descrizione testuale, un’immagine fotografica o artistica, o anche una sequenza video, che realizza tale descrizione. Tralasciamo il fatto che questi sistemi, non avendo una reale comprensione a livello simbolico di ciò che rappresentano, possono facilmente generare immagini o video erronei rispetto alle conoscenze tacitamente accettate e condivise dall’umanità (p.es.: il fatto che le persone non hanno né tre braccia né tre gambe o che se due gattini stanno giocando non può spuntare dal nulla in mezzo a loro un terzo gattino). Il punto centrale è che la cosiddetta creatività che viene attribuita a questi sistemi risiede in realtà nella formulazione di ciò che le si chiede di realizzare.

Tutto il resto non è che l’automazione di un’attività di tipo cognitivo, estremamente sofisticata e che non sto in alcun modo sminuendo: va però considerato che tale automazione sta alle capacità intellettive dell’essere umano nello stesso modo con cui una fabbrica automatizzata sta alle sue capacità fisiche. Chiaramente, il fatto che tutto ciò accade ad un livello che, fino a qualche decennio fa, era riservato alla specie umana ci lascia un po’ sconcertati, però sempre di un’attività meccanica si tratta.

Il fatto che ci siano macchine cognitive a svolgere lavori di questo tipo è certamente un aspetto positivo. In questo senso sono completamente d’accordo con l’opinione di Charles W. Eliot, che è stato per quarant’anni presidente dell’Università di Harvard, dal 1869 al 1909, trasformandola in una delle più importanti università americane: «Un uomo non dovrebbe essere usato per un compito che può essere svolto da una macchina».

( I post di questa serie sono basati sul libro dell’Autore La rivoluzione informatica: conoscenza, consapevolezza e potere nella società digitale, al quale si rimanda per approfondimenti. I lettori interessati al tema possono anche dialogare con l’Autore, su questo blog interdisciplinare, su cui i post vengono ripubblicati a partire dal terzo giorno successivo alla pubblicazione in questa sede. )