Il Fanfani “scongelato”: nella nuova lingua del leader democristiano l’annuncio della svolta politica degli anni Sessanta

Umberto Segre (Cuneo, 1908-Milano, 1969) è stato un intellettuale italiano attivo (e anche prolifico) tra gli anni Venti e i Sessanta, collaboratore di riviste, inserito nelle file del Partito d’Azione essendosi schierato idealmente con quella linea di pensiero che accomunò i Carlo Rosselli, i Guido Calogero, gli Aldo Capitini e tanti altri. Collaboratore de “Il Ponte”, la rivista ch’era stata di Piero Calamandrei, poi diretta da Enrico Enriques Agnoletti e, al tempo di questo scritto, da Corrado Tumiati, traccia nel 1959 un vivace ritratto di Amintore Fanfani, uno dei “cavalli di razza” della Dc. Il momento storico (estate 1959) segue di poco la caduta del secondo governo presieduto dal leader toscano (luglio 1958-gennaio 1959, coalizione Dc-Psdi) e la nomina a presidente del Consiglio, per la seconda volta, di Antonio Segni (monocolore Dc). Oltre al gustoso incipit sulla “lingua di Fanfani” finalmente “scongelata” (tutto da leggere), si coglierà qui la percezione di un mutamento politico che preludeva (superata nel 1960 la parentesi a destra di Tambroni) all’apertura a sinistra e ai governi di centro-sinistra. Il primo dei quali, ancora sostenuto solo dall’esterno dalla astensione socialista, realizzò la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la scuola media unificata. E fu presieduto per l’appunto da quel Fanfani “scongelato” di cui parlava Segre.

Abbiamo avuta occasione, questa estate, di sentire parlare Fanfani da qualche parte, in uno dei colloqui di “periferia” con i quali egli viene verificando la profondità e la diffusione della fedeltà della base democristiana. A noi, vogliamo testimoniarlo subito, non dispiacque cogliere nella sua parola qualche tratto diverso del tutto insolito in lui.

Intanto diremmo che la sua oratoria si è come scongelata. Ci siamo domandati tante volte dove mai Fanfani attinga abitualmente il modello di quella sua parlata notarile, polivalente, guardinga, reinterpretabile a volontà: una sintassi scolastica, una disposizione sempre uguale del discorso, l’immancabile, banale, consacrato aggettivo dinanzi al nome; e il gusto della metafora – che è in lui una propensione morale, quasi a frapporre un velo di tattica al significato univoco degli impegni. Dicono che Riccardo Bacchelli, prima della fatica giornaliera dello scrivere, si faccia la mano ogni mattina su qualche pagina del Guicciardini: qual è il modello di prosa didattica toscana al quale si ispira Amintore Fanfani?

Correggiamo: si ispirava; perché, appunto, ciò che ci ha sorpreso ascoltandolo, era di poter adesso decifrargli un altro, immediato gusto della parola e dell’immagine: un gusto popolaresco, che probabilmente è quello dei momenti in cui ha deciso di non farsi fraintendere, di impegnarsi più risolutamente.

Ma non è solo questione di linguaggio.

Fanfani viene esplorando con l’intelletto e con l’azione delle terre addirittura incognite per la politica democristiana. Ha scoperto la “periferia”, quella zona del partito che, negli altri grandi organismi di massa siamo soliti chiamare la base: viene finalmente domandandosi da che risulti la volontà politica del partito, quale sia il rapporto effettivo fra avanguardie dirigenti e iscritti e militanti. (…) Secondo noi questo sarà, se Fanfani ci andrà a fondo, il fatto nuovo nella storia della Dc. (…).

Che cosa viene dicendo l’uomo nuovo? Viene dicendo che egli può ricostituire una maggioranza di partito solo su una linea politica, non più su una combinazione di potere; viene dicendo che lo “stato di necessità” è un periodo di attesa che più presto finisce e meglio è. Viene infine rendendosi conto che dal momento che il partito si fa guidare dal gruppo parlamentare, e questo dai rapporti di equilibrio fra governo e gruppi extracostituzionali, il partito si svuota della propria vita ideologica, e perde poco a poco la sua tradizione, le sue prospettive, il suo significato.

Ma questo significa aver finalmente capito che un partito è un impegno di creazione morale e ideologica; che non è più questione di notabili e di organizzazione, è questione di democrazia interna.

Umberto Segre, Il “nuovo” Fanfani, in “Il Ponte”, XV, n. 7-8, luglio-agosto 1959, pp.  903-904.