Progetto di ricerca IRPA-IGT “LE ASIMMETRIE TRA STATO ED ECONOMIA”

Progetto di ricerca IRPA-IGT “LE ASIMMETRIE TRA STATO ED ECONOMIA”

 

Fino a tempi relativamente recenti, territori, Stati, sistemi giuridici e mercati sono pensati come fenomeni integrati: il potere sovrano di uno Stato si esercita all’interno di un determinato territorio e i confini nazionali segnano i limiti del mercato interno. Da questa impostazione discende che il diciannovesimo è stato il secolo del colonialismo: gli imperi coloniali erano innanzitutto mercati distinti tra loro in competizione. L’attuale fenomenologia, diversamente, mostra come i mercati internazionali siano caratterizzati da una maggiore apertura e la competizione si svolge soprattutto tra imprese in un’arena economica divenuta pressoché globale. Peraltro, in alcuni settori come i mercati digitali, soggetti privati operano senza un legame diretto con un determinato territorio e si tratta di settori economici che rivestono un’importanza pari, se non superiore, a quella dei mercati fisici[1].

La globalizzazione ha comportato anche una trasformazione dell’assetto delle imprese. In passato, queste ultime adottavano modelli organizzativi di tipo fordista, riuscendo a gestire al proprio interno l’intero processo produttivo, dalla progettazione alla commercializzazione. Oggi, invece, dominano le cosiddette «catene globali del valore» (c.d. global value chains), con le aziende che esternalizzano diverse fasi della produzione ad altre imprese situate in varie parti del mondo, limitandosi spesso alla fase di assemblaggio del prodotto finito[2]. Più recentemente, a seguito della pandemia da Covid-19, si sta verificando anche un fenomeno di parziale ritorno delle attività produttive nei Paesi di origine, noto come reshoring, che però non ha una portata tale da rimettere in discussione in radice l’assetto della globalizzazione[3].

Nel secondo dopoguerra, gli Stati hanno cooperato per rendere i mercati sempre più interconnessi, come dimostrano per un verso i casi dell’Unione europea e di altre organizzazioni macroregionali, per un altro le normative globali stabilite dall’Organizzazione mondiale del commercio. Grazie alla globalizzazione, sono emersi operatori economici multinazionali che hanno l’obiettivo di investire in Paesi dove ci si attende di ottenere profitti più elevati.

In questo contesto, il ruolo degli Stati è mutato e tende ad una continua modificazione: gli Stati accettano di cedere parte della loro sovranità a enti regolatori globali, ma al contempo acquisiscono nuove forme di sovranità, grazie alla loro capacità di influire e partecipare alle regolamentazioni internazionali[4]. Tutto ciò ha anche contribuito alla formazione di valori condivisi a livello transnazionale[5].

La globalizzazione, comunque, non procede in maniera lineare. Sono molteplici, infatti, le contraddizioni, gli arretramenti e le reazioni di chiusura. Esaminando il fenomeno dalla prospettiva politico-sociale può evincersi come nei Paesi emergenti la globalizzazione stia contribuendo a far uscire milioni di persone dalla povertà, mentre in quelli sviluppati sta facendo emergere nuove condizioni di disuguaglianza[6]. E questo non è privo di conseguenze. Le tensioni sociali ingenerate si stanno riverberando sui sistemi politici e, in particolare, sugli ordinamenti democratici. Per ellissi può osservarsi come la globalizzazione, erodendo la sovranità statale, da un lato ha contribuito a mettere in crisi il modello stesso di democrazia che si era andato affermando negli Stati nazionali[7]; dall’altro, sta alimentando pulsioni populiste che tendono a fondersi con istanze sovraniste proprio in reazione oppositiva[8]. Questo sintetico inquadramento dei cambiamenti politici, economici e sociali indotti dalla globalizzazione mostra la crisi di alcuni pilastri fondamentali del costituzionalismo, come il ruolo dello Stato nell’economia, nella redistribuzione delle risorse o nell’erogazione di servizi pubblici nel perseguimento dell’uguaglianza in senso sostanziale[9].

All’aumento della disuguaglianza tra classi sociali all’interno degli Stati si è affiancata anche una rinnovata competizione internazionale tra gli Stati stessi. Da una parte, si avverte l’esigenza di tutelare taluni settori produttivi nazionali esposti alla concorrenza sleale e a fenomeni di dumping sociale. Ciò conduce alla moltiplicazione e all’estensione dei meccanismi di controllo degli investimenti esteri[10]. Dall’altra, le tensioni geopolitiche hanno riportato in auge fenomeni di integrazione e contrapposizione tra blocchi di Stati[11]. Si pensi, in questa prospettiva, agli accordi commerciali macroregionali e all’imposizione di dazi che colpiscono le importazioni provenienti da determinati Paesi. Peraltro, può dubitarsi che queste politiche protezionistiche possano produrre effetti davvero positivi per le economie nazionali[12]. Per alcuni Stati, per esempio, è molto più conveniente favorire gli investimenti per la crescita e la modernizzazione del sistema produttivo che chiudere le frontiere: questo vale certamente per l’Italia che, essendo povera di risorse naturali, non potrebbe prosperare senza una stretta integrazione con i mercati internazionali[13].

La globalizzazione, poi, è al contempo causa ed effetto di almeno altri due fenomeni che generano insieme interdipendenze e dinamiche contraddittorie: si pensi all’immigrazione e alla digitalizzazione. La globalizzazione, connettendo le parti del modo, nonostante il miglioramento delle condizioni di molte aree arretrate, tende a rendere strutturale l’immigrazione definita economica. Sono crescenti i flussi di persone che si spostano da un Paese all’altro alla ricerca di migliori condizioni di vita. Del resto, i flussi migratori possono divenire necessari per il corretto funzionamento dei mercati: le imprese e i sistemi economici più avanzati hanno bisogno di essere alimentati da manodopera specializzata o da ingaggiare a costi più contenuti anche in considerazione dell’enorme differenziale demografico che separa il sud dal nord del mondo. La reazione avversa delle opinioni pubbliche nazionali spinge tuttavia gli Stati a contrastare l’immigrazione qualificata come illegale e clandestina, favorendo solo l’arrivo di persone più pronte a contribuire alla sostenibilità e alla produttività del sistema economico. Si considerino in questa prospettiva, per esempio, le politiche di incentivi di tanti Stati che mirano ad attirare talenti di ogni nazionalità per accelerare l’innovazione tecnologica.

Anche di fronte alla trasformazione digitale della società gli Stati alternano posizioni di favore ad altre di netta ostilità. È indubbio, infatti, che nella transizione digitale vi siano numerose opportunità, derivanti dall’enorme mole di dati e di informazioni che può essere messa a disposizione di imprese e utenti, dalla velocizzazione degli scambi commerciali, dalla facilità di movimento dei capitali. Allo stesso tempo, però, l’esistenza di grandi piattaforme digitali, che si pongono come veri e propri oligopoli verticalmente integrati, pone sfide sempre più serie agli ordinamenti democratici[14]. Ci si interroga, infatti, sulle regolazioni da adottare per prevenire la disinformazione di massa e, più in generale, per riconoscere diritti digitali soggettivi[15], sui modelli di intelligenza artificiale che gli attori privati possono impiegare per gestire i dati di miliardi di individui[16], sull’imposizione fiscale che dovrebbe gravare in modo coordinato sui giganti del digitale[17].

In questo contesto, pare opportuna una riflessione sulle vecchie e sulle nuove asimmetrie tra lo Stato e l’economia.

Le differenze tra i poteri pubblici e gli attori privati sono sempre esistite e alcune di esse sono inevitabili. Anche fenomeni come l’integrazione dei mercati a livello globale e l’innovazione tecnologica non sono del tutto inediti. Tuttavia, è indubbiamente nuova l’intensità con cui si manifestano tali asimmetrie. In particolare, appare evidente una discrepanza tra le azioni dei poteri pubblici e quelle delle imprese private, soprattutto per quanto riguarda la «territorialità» delle politiche e degli interessi statali, anche quando gli Stati operano nei mercati internazionali, e la «logica globale» delle grandi multinazionali. Dalla tensione tra politiche statali di ambito territoriale e le dinamiche globali delle imprese sorge un complesso intreccio di relazioni tra attori pubblici e privati, in cui è difficile distinguere quando lo Stato governa l’economia e quando, al contrario, è l’economia a orientare in modo determinante le decisioni dei poteri pubblici.

In questo contesto, l’Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione (Irpa) ha promosso un’indagine sui profili di asimmetria tra Stato ed economia, che si sviluppa attraverso un’analisi induttiva di casi particolarmente utili a mettere in evidenza un moto contraddittorio: gli Stati si aprono alla globalizzazione, ma intensificano i controlli alle frontiere; accettano la formazione di poteri «deterritorializzati», salvo rivendicare la sovranità territoriale quando sono in gioco gli interessi nazionali[18]. Queste contraddizioni sono evidenti in tutti e quattro i settori su cui la globalizzazione di norma incide, ossia la circolazione delle persone, delle imprese, delle merci e dei capitali. I confini degli Stati avanzano o arretrano, esistono solo sulla carta o costituiscono barriere fisiche insormontabili, a seconda delle diverse circostanze: gli Stati scoraggiano l’immigrazione clandestina, ma attraggono forza lavoro qualificata; proteggono l’economia nazionale da investimenti predatori di imprese straniere, ma favoriscono i rilevanti investimenti delle multinazionali; rimuovono dazi e altre barriere all’importazione di merci da Paesi alleati, ma alzano muri contro imprese di Paesi considerati avversari; consentono l’afflusso di capitali stranieri, quando questo serve a creare crescita economica, ma si avvalgono di poteri di interdizione quando quegli stessi capitali potrebbero rappresentare un rischio per la sicurezza nazionale.

Più in dettaglio, la ricerca si articola nel modo seguente.

Flavio Valerio Virzì analizza i meccanismi di controllo statale della circolazione delle persone, riflettendo soprattutto sulle politiche di gestione dell’immigrazione irregolare da parte degli Stati. In questa prospettiva, approfondisce tre casi. Il primo è quello relativo alle strategie di shifting borders impiegate dagli Stati Uniti per rendere più facili respingimenti ed espulsioni dei migranti. Il secondo è il tentativo fallimentare di esternalizzare la funzione di controllo sugli ingressi da parte del Regno Unito. Il terzo caso riguarda l’approccio italiano alla questione migratoria, che si declina in vari modi: nell’arretramento della frontiera, con il respingimento differito, la finzione di non ingresso e il trattenimento di fatto nelle zone di transito territoriale; nell’avanzamento della frontiera, con i respingimenti verso la Libia e il trattenimento in Albania; nell’affidamento esterno dei controlli sugli ingressi, con i respingimenti delegati alle autorità libiche.

Dario Bevilacqua esamina i movimenti dei capitali a livello mondiale. L’attenzione, in particolare, si concentra sui nodi determinati dagli investimenti stranieri. In questo campo, la regolamentazione globale si sovrappone alle discipline nazionali, gli interessi degli Stati talvolta coincidono con quelli degli investitori stranieri, talaltra divergono. Da un lato, gli investimenti di capitali stranieri possono innescare la crescita economica, dall’altro, però, possono anche impedire il consolidarsi di attività produttive nazionali. Questi investimenti consentono occasioni di sviluppo per i Paesi poveri, ma vi è il rischio che siano condotti senza alcun riguardo per i diritti delle popolazioni locali. Le asimmetrie tra Stato ed economia, sotto questo profilo, sembrano quindi generare un inevitabile sacrificio non tanto tra interessi pubblici e privati, quanto tra interessi ancorati a un territorio (la produzione nazionale, i diritti delle comunità locali) e interessi economici globali (il profitto che si ritiene di ricavare dall’investimento e dalle delocalizzazioni).

Maria Giusti analizza le tensioni e le contraddizioni che emergono in un contesto segnato dalla crisi del multilateralismo e dalla proliferazione di accordi preferenziali di libero scambio. A questo fine, prende in esame i casi dell’Unione europea (Ue), degli Stati Uniti (Usa) e della Cina. Si tratta dei tre principali attori del commercio internazionale, i quali, sebbene protagonisti di numerosi accordi con altri Paesi, non hanno raggiunto intese tra loro. L’autrice individua quattro tipi diversi di asimmetrie. La prima riguarda l’uso discriminatorio dei confini economici, i quali sono abbattuti verso Stati «amici» o alleati, mentre si trasformano in barriere verso altri Stati percepiti come avversari. La seconda asimmetria si manifesta nel divario tra benefici geopolitici e costi economici: l’apertura o chiusura dei mercati verso alcuni Stati può essere guidata da motivazioni geopolitiche, generando tuttavia costi economici significativi per alcuni degli attori coinvolti. La terza asimmetria emerge dalla disconnessione tra vicinanza economica e vicinanza politica o sociale: talvolta i confini si annullano per imprese e capitali, ma non per le persone. La quarta asimmetria concerne la distribuzione diseguale dei benefici e dei costi delle intese all’interno dei singoli Paesi o aggregati sovranazionali, come l’Unione europea.

Valerio Bontempi si sofferma sull’azione politica e normativa dell’Unione europea relativa agli approvvigionamenti delle c.d. terre rare, essenziali per garantire la doppia transizione ecologica e digitale che costituisce la linea strategica più importante per l’Unione nei prossimi anni. Poiché i giacimenti di terre rare sono del tutto assenti dal suolo europeo, l’Unione ha bisogno di importare liberamente questi materiali da altri Paesi. Il problema sorge quando questi Paesi adottano limiti alle esportazioni di tali materie prime. L’asimmetria tra Stato ed economia, quindi, è del tutto evidente: gli Stati ricchi di terre rare cercano di proteggersi da acquisizioni straniere e pongono restrizioni al libero mercato; l’Unione europea, che in altre occasioni adotta anch’essa politiche restrittive, nel caso delle terre rare, al contrario, sostiene la piena circolazione dei beni a livello globale, con accordi bilaterali, partenariati, ricorsi alle istituzioni sovranazionali e propri regolamenti.

Livia Baldinelli illustra le asimmetrie tra Stato ed economia nel peculiare settore dei giochi e delle scommesse, osservando come l’assenza di un quadro di regolazione internazionale condiviso porti alla moltiplicazione di variegate discipline nazionali. Il risultato è che le multinazionali del settore si trovano a sostenere costi differenti di compliance, come accade nel caso della società Igt. Le asimmetrie di regolazione non solo impongono oneri differenziati per gli operatori economici, ma favoriscono anche gli arbitraggi regolamentari e risultano inadeguate a colpire il fenomeno dell’offshore gambling, ossia dei siti illegali, spesso gestiti da organizzazioni criminali.

Anna Pirri Valentini considera il caso Stellantis come emblematico dei rapporti tra Stati e grandi aziende private nazionali che, con il passare del tempo, diventano vere e proprie multinazionali. L’asimmetria deriva dal fatto che una grande impresa privata nazionale è solitamente sostenuta dallo Stato per via dei livelli occupazionali che garantisce, del valore aggiunto che produce, del volume di indotto che crea in un dato territorio. Quando, tuttavia, quella stessa impresa diviene un operatore economico globale per effetto di fusioni successive, il legame con il territorio dello Stato si spezza, la logica degli investimenti diventa quella delle multinazionali e i sussidi o le agevolazioni statali rischiano di disperdersi o di non garantire i ritorni economici che le autorità si attendevano. Sono gli Stati, quindi, a trovarsi a competere tra loro per attirare gli investimenti di questi attori multinazionali.

Giorgio Mocavini indaga le asimmetrie tra Stato ed economia legate al caso dello stabilimento siderurgico dell’ex Ilva di Taranto. Data la lunga storia dell’Ilva, individua tre tipi di asimmetrie per le tre diverse fasi del ciclo di vita dell’impianto tarantino. Nella prima fase, quella della gestione della Finsider, lo Stato aveva fatto propria la logica dell’impresa, poiché le esigenze produttive e occupazionali avevano indubbiamente guidato l’investimento pubblico a scapito di altri interessi, come quelli relativi alla protezione dell’ambiente e della salute. Nella seconda fase, che può essere fatta coincidere con il periodo che va dalla prima privatizzazione dell’Ilva alla prima amministrazione straordinaria, le ragioni produttive dell’impresa si sono scontrate con le normative di carattere ambientale e sanitario. Nella terza fase, che è quella attuale e che ha preso avvio con il contratto di affitto stipulato tra l’amministrazione straordinaria dell’ex Ilva e la multinazionale franco-indiana di Arcelor Mittal, i poteri pubblici hanno nuovamente esternalizzato la gestione dello stabilimento, senza che questo consentisse di giungere a un effettivo contemperamento tra esigenze economico-sociali e ambientali e sanitarie, tanto che si è giunti alla seconda amministrazione straordinaria dello stabilimento.

Rosaria Morgante descrive l’esercizio del golden power da parte dello Stato italiano in relazione all’investimento del gigante cinese ChemChina in Pirelli. Il caso è particolarmente interessante perché permette di illustrare almeno due asimmetrie tra Stato ed economia. La prima è inquadrabile anzitutto nello squilibrio a monte tra Stato e Stato in quanto in Cina, diversamente da quanto avviene nei Paesi occidentali, vi è una gestione accentrata delle partecipazioni statali e un diretto controllo dello Stato sugli investimenti esteri effettuati da società cinesi in territori stranieri. L’investimento estero di una società cinese, dunque, potrebbe porre rischi alla sicurezza nazionale. La seconda può essere ricondotta al fatto che, a causa della normativa sugli aiuti di Stato, gli operatori economici dell’Unione europea non hanno facile accesso ai capitali pubblici, subendo quindi un trattamento deteriore rispetto ai concorrenti provenienti da Paesi extra-Ue, prima fra tutti la Cina. Il golden power, dunque, si presenta come strumento non solo per riaffermare la sovranità dello Stato sull’economia, ma anche per garantire il corretto funzionamento del mercato, alterato dall’azione predatoria di operatori economici di altri Stati.

Salvatore Milazzo, attraverso l’analisi delle attività delle agenzie di rating, chiarisce quanto i giudizi espressi da imprese private sulla sostenibilità del debito pubblico degli Stati possa influenzare l’andamento economico degli Stati stessi. Questi ultimi, dunque, non possono fare a meno delle valutazioni del mercato e, in buona misura, dipendono da esse. Le agenzie di rating svolgono certamente attività imprenditoriali inerenti a interessi generali, influenzando in maniera rilevante il funzionamento dei mercati finanziari. L’asimmetria, quindi, è a tutto vantaggio del mercato. Per ribilanciare il peso delle agenzie, l’ordinamento, specialmente sovranazionale ed europeo, prevede modalità di registrazione e strumenti di vigilanza, oltre che poteri sanzionatori, affidati a specifiche autorità pubbliche indipendenti.

Gianluca Buttarelli affronta le asimmetrie tra Stato ed economia che emergono in un settore ontologicamente privo di confini, quello delle attività delle grandi piattaforme digitali, che per struttura, attività prestate e servizi erogati costituiscono ordinamenti giuridici potenzialmente autosufficienti. Il vincolo territoriale cui è soggetto l’esercizio dei poteri sovrani degli Stati è l’elemento che con maggiore efficacia evidenzia lo squilibrio esistente tra la diversa estensione e sfera di influenza dei poteri pubblici e privati nel mondo digitale. Sebbene la legislazione nazionale fatichi a ricevere un riconoscimento nei non-territori digitali, gli approcci regolatori al fenomeno si sono moltiplicati e l’autore si sofferma, in particolare, sul caso degli Stati Uniti, dell’Unione europea e della Cina. Ciascuno di questi ordinamenti, infatti, ha adottato modelli distinti di regolazione delle piattaforme digitali.

[1] «A gennaio 2024, nel mondo accedevano a Internet due persone su tre, ossia 5,35 miliardi (il 66,2%) della popolazione mondiale, con un aumento del 15% rispetto al 2021. L’incremento degli utenti dei social media è ancora più rapido: all’inizio del 2024 erano 5,04 miliardi di persone, pari al 62% della popolazione mondiale, con un aumento di oltre il 10% rispetto al 2021. Alla fine del 2023 gli indirizzi Internet (i c.d. nomi di dominio) erano oltre 360 milioni, mentre nel 2008 erano 160 milioni. Anche i numeri della piattaforma Facebook sono impressionanti: nell’aprile 2023, gli utenti attivi mensili hanno superato i 3 miliardi e continuano a crescere» (così L. Casini, Il futuro dello Stato (digitale), in Riv. trim. dir. pubbl., 2024, n. 2, p. 434).

[2] L’esistenza di mercati aperti e integrati a livello internazionale, infatti, consente ai sistemi produttivi nazionali di specializzarsi in alcune fasi delle catene globali del valore, come spiegato da E. Moretti, La nuova geografia del lavoro, Milano, Mondadori, 2013, 39 ss.

[3] Come chiarito da S. Cassese, Stato e globalizzazione: chi vince e chi perde?, in Riv. trim. dir. pubbl., 2024, n. 2, 531 ss., secondo il quale «il reshoring è limitato ed è per lo più un nearshoring o un friendshoring: ad esempio, le imprese degli Stati Uniti si rivolgono al Messico piuttosto che alla più lontana Cina» (p. 532). In generale, sul parziale rientro, a seguito della pandemia da Covid-19, di attività produttive in passato delocalizzate si veda P. Boccardelli e D. Iacovone (a cura di), Lo scenario economico dopo il Covid-19. Un piano strategico per ripartire, Bologna, il Mulino, 2020.

[4] Su questo si veda il volume di S. Cassese, A World Government?, Siviglia, Global Law Press, 2018 (spec. 47 ss.), in cui l’autore ha raccolto molti dei propri scritti precedenti in tema di global administrative law. Sul tema si cfr. anche L. Casini, Lo Stato (im)mortale. I pubblici poteri tra globalizzazione ed era digitale, Milano, Mondadori, 2022, 38 ss.

[5] Il ruolo dello Stato nella produzione del diritto, quindi, non è più monopolistico, come osservato di recente anche da N. Lipari, Elogio della giustizia, Bologna, il Mulino, 2021. Non manca chi addirittura arriva a sostenere che, grazie alla globalizzazione, si sarebbe giunti a una «civiltà planetaria» fondata sui principi giuridici della tradizione occidentale: in questo senso si legga A. Schiavone, L’occidente e la nascita di una civiltà planetaria, Bologna, il Mulino, 2022, 104 ss.

[6] Il fenomeno è ampiamente noto ed è stato osservato che, a partire dagli anni Ottanta del ventesimo secolo, in concomitanza con i fenomeni della globalizzazione e dell’informatizzazione, crescita economica e diminuzione delle diseguaglianze nei Paesi sviluppati sono sembrati obiettivi non più conciliabili e tra loro addirittura alternativi. In questo senso si legga C. Trigilia (a cura di), Capitalismi e democrazie. Si possono conciliare crescita e uguaglianza?, Bologna, il Mulino, 2020. Sulle nuove disuguaglianze generate dalla globalizzazione si rinvia a S. Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Bologna, il Mulino, 2015.

[7] In particolare, si è fatto spesso riferimento alla presenza di poteri economici di carattere globale in grado di trascendere la volontà dei poteri pubblici ancorati ai confini nazionali. Così sono oggetto di critica le grandi oligarchie finanziarie (M.L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2011, 21 ss.) e i poteri privati o ibridi, protagonisti di un processo «di nascondimento, o di vero e proprio inabissamento del potere» nella governance globale (così M.R. Ferrarese, Poteri nuovi. Privati, penetranti, opachi, Bologna, il Mulino, 2022, p. 32).

[8] Sulla crescita dei movimenti populisti e sovranisti per effetto della globalizzazione e dell’affermazione del neoliberalismo si rinvia a: Y. Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico, Bologna, il Mulino, 2019, 157 ss.; C. Galli, Sovranità, Bologna, il Mulino, 2019; L. Morlino e F. Raniolo, Disuguaglianza e democrazia, Milano, Mondadori, 2022.

[9] Come illustrato da A. Poggi, Oltre la globalizzazione. Il bisogno di uguaglianza, Modena, Mucchi, 2020.

[10] Si è parlato, in proposito, del ritorno dello «Stato doganiere» e della «febbre del golden power»: sul punto si vedano G. Napolitano, L’irresistibile ascesa del golden power e la rinascita dello Stato doganiere, in Giorn. dir. amm., 2019, n. 5, 549 ss. e A. Sandulli, La febbre del golden power, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, n. 3, 743 ss.

[11] La globalizzazione, in particolare, avrebbe subito un rallentamento a causa di una sempre più marcata concorrenza tra sistemi economici nazionali o macroregionali, come osservato da S. Amorosino, Concorrenza versus osmosi tra ordinamenti nelle “regolazioni economiche”, in I luoghi dell’economia. Le dimensioni della sovranità, a cura di A. Antonucci, M. De Poli e A. Urbani, Torino, Giappichelli, 2019, 95 ss.

[12] Una posizione critica nei confronti delle chiusure selettive ai mercati da parte degli Stati nazionali è assunta, di recente, da A. Saravalle e C. Stagnaro, Contro il sovranismo economico, Milano, Rizzoli, 2020. Le aggregazioni macroregionali, dunque, dovrebbero servire a rafforzare il coordinamento intestatale per superare eventuali crisi globali, come osservato da I. Cipolletta, La nuova normalità. Istruzioni per un futuro migliore, Roma-Bari, Laterza, 2021.

[13] A questo proposito si è dimostrato che l’Italia, da un lato, non potrebbe mai essere autosufficiente e vivere senza sbocchi sui mercati internazionali, dall’altro, però, essa non può competere nel mondo solo con un sistema pulviscolare di piccole e medie imprese a conduzione familiare. Pertanto, i poteri pubblici dovrebbero facilitare la formazione di grandi imprese. Questa considerazioni sono tratte da A. Giunta e S. Rossi, Che cosa sa fare l’Italia. La nostra economia dopo la grande crisi, Roma-Bari, Laterza, 2017, 93 ss.

[14] Sugli oligopoli verticalmente integrati delle piattaforme digitali si rinvia a L. Torchia, Lo Stato digitale. Una introduzione, Bologna, il Mulino, 2023, 22 ss.

[15] In tema si veda G. Finocchiaro, Intelligenza artificiale. Quali regole?, Bologna, il Mulino, 2024, 71 ss.

[16] Sulla dipendenza delle piattaforme digitali dall’impiego di modelli di intelligenza artificiale sempre più sofisticati si rinvia a H. Kissinger, E. Schmidt e D. Huttenlocher, L’era dell’intelligenza artificiale. Il futuro dell’identità umana, Milano, Mondadori, 2023, 82 ss.

[17] Sul punto si cfr. M. Pacini, La tassazione delle multinazionali digitali nell’arena globale degli interessi economici, in Gior. dir. amm., 2019, n. 1, 35 ss.

[18] Si tratta di contraddizioni già colte da S. Cassese, Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati?, Bologna, il Mulino, 2016, 72 ss.