Il vecchio Minculpop, l’epurazione mancata, la “carità cristiana” di Giulio Andreotti. Una testimonianza poco conosciuta sulla tranzione del dopoguerra

Tra i libri usciti all’indomani del fascismo, quando le acque agitate della minacciata epurazione si furono calmate, e molti degli epurandi furono (amnistia Togliatti ecc.) riassunti in servizio nell’amministrazione dello Stato, ci fu anche il volumone (quasi 900 pagine) di Giorgio Nelson Page, “L’Americano di Roma”, edito per Longanesi nel 1950. Page non era un personaggio qualunque: era nato a Roma nel 1906 da padre americano e madre italiana (discendeva da una delle più importanti e blasonate famiglia della Virginia), nipote di ammiragli e diplomatici, nel 1933, dopo una giovinezza di spensierato disimpegno tra viaggi, balli, amori, pratica intensa di sport come l’ippica, aveva preso la cittadinanza italiana e aveva aderito al fascismo. Fu un funzionario e poi un dirigente di punta nel Ministero della cultura popolare (il Minculpop), forte della benevolenza di Galeazzo Ciano che quel dicastero aveva creato facendone un suo feudo, prima di passare agli Esteri. Page divenne un protagonista fisso – sulla scia del suo protettore e delle sue molte amanti – delle interminabili notti romane, prima e dopo la dichiarazione di guerra. Ottimo giornalista, peraltro, sapiente utilizzatore nel mestiere anche delle sue relazioni mondane; e penna sciolta e pronta, piacevole a leggersi. Si era insomma segnalato come uno degli astri nascenti di un regime che, però (Page lo capì ben presto ma non ebbe la forza di trarne le conseguenze), aveva viceversa frattanto imboccato il corso del suo declino. Per questo, e per aver diretto in tempo di guerra i servizi radiofonici italiani, in particolare quelli indirizzati alla propaganda all’estero, caduto il fascismo, Page venne rinchiuso dagli Alleati nel campo d’internamento di Padula. Ma poi, calmatasi la bufera dell’epurazione, ritornò come tanti al suo lavoro e sarebbe stato confermato direttore capo-divisione dell’Ufficio Stampa dello Spettacolo presso la Presidenza del Consiglio, uno dei centri nevralgici della influenza dei governi De Gasperi sulla cultura italiana. Il suo non fu un caso isolato: se si scorre l’annuario dello Stato negli anni 1948 e successivi si constaterà facilmente la piena continuità del gruppo di specialisti provenienti dal Minculpop. Tutti passati dal servizio dello Stato fascista a quello della Repubblica.

Il brano che qui si propone riguarda però specialmente colui che, in particolare nel settore della cultura (teatro, cinema soprattutto), aveva per così dire raccolto l’eredità del fascismo, assumendo in seno alla Presidenza del Consiglio degasperiana la responsabilità diretta di quelle materie: il giovanissimo sottosegretario e principale braccio destro di De Gasperi, Giulio Andreotti. Su di lui e sul suo ruolo rispetto alla censura abbiamo già pubblicato in queste nostre “schede” un polemico giudizio, più o meno coevo a questo di Page, dello scrittore Vitaliano Brancati. Ma Page, viceversa, ne tesse le lodi, memore di una “comprensione” che – scriveva – non aveva trovato altrove.

Il sottosegretario in carica, all’atto della mia ripresa di servizio, era l’onorevole Andreotti. Il più giovane membro del governo De Gasperi. Un giovane precoce per serietà ed equilibrio. E per quanto mi riguardasse personalmente, di non comune cortesia nel tratto, oltre che nell’animo. Io fui l’ultimo capo-divisione a riprendere il mio posto in servizio. I procedimenti epurativi erano durati a lungo, nei confronti della massa dei funzionari. (…) Fu merito di Andreotti se i vecchi funzionari poterono sottrarsi a persecuzioni che, sotto la veste di epuratori di fascisti, una masnada di ex-fascisti, ma costanti voltagabbana, avevano intentate per finalità esclusivamente carrieristiche. Andreotti, democristiano, diede una lezione di civismo e di vera carità cristiana, impedendo il consolidamento delle mene persecutorie all’ombra dell’esarchia, condita di acceso pepe comunista. Fu Andreotti a richiamare a via Veneto dalle strade di Roma, che percorreva dal 1944 con abiti logori e con gli occhi sbarrati, l’ex direttore generale del teatro fascista, Nicola De Pirro. Un richiamo azzardato per un sottosegretario democristiano, per quanto De Pirro si fosse dichiarato in grado di esibire meriti partigiani che per lo meno avevano stupito i suoi stessi nuovi compagni di fede.

 

Giorgio Nelson Page, L’Americano di Roma, Milano, Longanesi, 1950, pp. 862-863.