La direttiva UE sulla gig economy: nuove tutele per i lavoratori delle piattaforme digitali

Si va verso nuove tutele per i lavoratori delle piattaforme digitali. Approvata dalla plenaria del Parlamento europeo la proposta di direttiva del 2021 relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali. Dopo la ratifica del Consiglio, gli Stati membri avranno due anni di tempo per il suo recepimento. Corretta determinazione delle situazioni occupazionali ai fini del riconoscimento dei diritti in materia e più trasparenza nell’uso degli algoritmi per la gestione delle risorse umane, gli obiettivi principali della nuova normativa.

Il 24 aprile 2024 la plenaria del Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza le norme contenute nella proposta di direttiva relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali, frutto di una trattativa durata più di due anni, conclusasi l’11 marzo 2024 con la conferma da parte dei ministri dell’Occupazione e degli affari sociali dell’UE dell’accordo raggiunto tra la presidenza del Consiglio e i negoziatori del Parlamento europeo.

Prima di accennare ai punti salienti della nuova normativa viene, però, da chiedersi: che cosa si intende per “lavoro mediante piattaforme digitali”?

Questa locuzione, spesso sostituita dall’espressione “gig economy“, fa riferimento ad una modalità lavorativa, che avviene su richiesta, basata sull’abbinamento di domanda e offerta di servizi di vario genere ad opera delle piattaforme online (siti web o applicazioni). Si considerano, a tal proposito, rientranti nei lavori di gig economy: il lavoro on-demand tramite app (Deliveroo, Uber, Foodora), il Crowdwork o lavoro della folla (Freelancer, Amazon Mechanical Turk, CrowdFlower, Vicker), l’Asset rental (affitto e il noleggio di beni e proprietà) e la sharing economy (BlaBlaCar, AirBnb), (ne abbiamo già discusso QUI). Tali lavori si prestano, di conseguenza, ad offrire una moltitudine di potenziali servizi: si va dalla consegna di cibo alle riparazioni casalinghe, dal trasporto di persone e/o cose ai servizi di assistenza a bambini ed anziani, fino alle traduzioni e moderazione dei contenuti dei social network.

Il settore su cui si è deciso di intervenire in sede europea è, dunque, di estrema rilevanza. Basti pensare che nell’analisi condotta dalla Commissione europea nel 2021 è stato rilevato che esistono più di 500 piattaforme di lavoro digitali attive, con fatturati in costante crescita, i quali hanno raggiunto nel 2020, sotto la spinta dell’emergenza pandemica Covid 19, i 14 miliardi di euro. Non si può non considerare, inoltre, il punto di vista occupazionale: la gig economy coinvolge ad oggi oltre 28 milioni di persone in Europa (di cui si stima circa 213 mila in Italia), numeri destinati a crescere e a raggiungere i 43 milioni entro il 2025. Secondo la Commissione, la maggioranza dei 28 milioni di lavoratori risulta formalmente inquadrata nella categoria di lavoro autonomo, con il rischio, però, per 5,5 milioni di loro di classificazione sbagliata, in quanto sostanzialmente lavoratori subordinati, che dovrebbero godere dei diritti derivanti da tale status.

Proprio la situazione occupazionale classificata molto spesso in modo errato (se ne è scritto QUI), associata a cattive condizioni di lavoro e accesso inadeguato alla protezione sociale, il controllo ad opera delle piattaforme digitali anche mediante gestione “algoritmica” delle prestazioni di lavoro (ne abbiamo parlato QUI), le difficoltà nell’applicazione degli obblighi normativi, motivate da questioni di trasparenza e tracciabilità del lavoro mediante piattaforme digitali, anche in situazioni transfrontaliere, sono state le ragioni che hanno spinto verso questa esigenza di regolamentazione europea del fenomeno, che ha condotto appunto al compromesso di direttiva recentemente approvato, su cui adesso ci si soffermerà.

La direttiva si applicherà, innanzitutto, alle piattaforme di lavoro digitali che organizzano il lavoro svolto all’interno dell’Unione, prescindendo dal loro luogo di stabilimento.

Due gli obiettivi, poi, proposti ed emergenti dall’analisi del testo dell’accordo: migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme digitali e proteggere i loro dati personali. Ciò, ai sensi dell’art.1 della direttiva, dovrà avvenire nei seguenti modi: “a) introducendo misure volte a facilitare la corretta determinazione della situazione occupazionale delle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali; b) promuovendo la trasparenza, l’equità, la sorveglianza umana, la sicurezza e la responsabilità nella gestione algoritmica del lavoro mediante piattaforme digitali; e c) migliorando la trasparenza nel lavoro mediante piattaforme digitali, anche in situazioni transfrontaliere”.

Ai fini della corretta determinazione della situazione occupazionale dei lavoratori delle piattaforme digitali, è stabilito l’obbligo di introduzione, da parte degli Stati membri, di una presunzione legale del rapporto di lavoro subordinato nei rispettivi ordinamenti giuridici, in presenza di fatti che indichino il potere di controllo e direzione della piattaforma, conformemente al diritto nazionale e ai contratti collettivi, e tenendo conto della giurisprudenza dell’UE (art. 5). Da ciò deriverebbero per i lavoratori, dunque, diritti quali: il salario minimo, la regolamentazione dell’orario di lavoro, le ferie, i diritti alla salute e alla sicurezza sul luogo di lavoro, la parità retributiva, nonché l’accesso alla protezione sociale contro gli infortuni, la disoccupazione, la malattia e l’anzianità. Da segnalare che la presunzione è invocabile da parte di lavoratori, loro rappresentanti e autorità nazionali e al contempo spetta alla piattaforma l’onere di confutazione della stessa, dimostrando l’assenza del rapporto di lavoro.

Il testo impone alle piattaforme, in secondo luogo, una maggiore trasparenza nei confronti del lavoratore nell’utilizzo degli algoritmi per i sistemi automatizzati di monitoraggio e per i sistemi decisionali automatizzati che hanno un impatto significativo sulle condizioni di lavoro. In tal caso è, infatti, richiesta l’adozione di un documento informativo presentato al lavoratore “in forma concisa, trasparente, intelligibile e facilmente accessibile, utilizzando un linguaggio semplice e chiaro”. In coerenza con altre normative, quali il GDPR e l’IA Act (al quale abbiamo dedicato l’Editoriale N.1 QUI), alle piattaforme è, poi, fatto divieto di trattare dati personali relativi allo stato emotivo o psicologico, alla salute e a conversazioni private, nonché a qualsiasi dato relativo ai periodi in cui il lavoratore della piattaforma digitale non sta svolgendo un lavoro (art. 7). Rispetto a tali sistemi, le piattaforme di lavoro digitali dovranno inoltre effettuare una valutazione del rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori, garantendo altresì che questi non esercitino pressioni sul lavoratore o mettano a rischio la sua salute fisica e psichica (art. 12). Al lavoratore viene riconosciuto, infine, il diritto alla spiegazione umana di una decisione automatizzata e anche il suo riesame (artt. 10 e 11), nonché l’assistenza tecnica da parte di un esperto, le cui spese sono carico della piattaforma se quest’ultima conta più di 250 lavoratori in uno Stato membro.

Per il miglioramento della trasparenza nel lavoro mediante piattaforme digitali, anche in situazioni transfrontaliere, invece, la normativa prevede che le piattaforme che agiscono come datori di lavoro debbano dichiarare il lavoro svolto dai lavoratori delle piattaforme alle autorità competenti in materia di lavoro e protezione sociale in ogni Stato membro in cui il lavoro viene effettivamente svolto, rispettando le norme e procedure nazionali (art. 16). Le piattaforme, in particolare, devono obbligatoriamente rendere disponibili informazioni come: numero di persone che lavorano regolarmente tramite la piattaforma digitale, situazione contrattuale o occupazionale di tali lavoratori, termini e condizioni generali applicabili ai rapporti contrattuali (art. 17). Queste informazioni dovrebbero essere aggiornate periodicamente e fornite su richiesta.

Da rilevare, in conclusione, come la direttiva non costituisca “un motivo valido per ridurre il livello generale di protezione già riconosciuto ai lavoratori delle piattaforme digitali negli Stati membri” e come lasci in ogni caso “impregiudicata la prerogativa degli Stati membri di applicare o introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori delle piattaforme digitali o di promuovere o consentire l’applicazione di contratti collettivi più favorevoli ai lavoratori delle piattaforme digitali” (art. 26).

Entusiasta dell’accordo raggiunto la relatrice Elisabetta Gualmini, che ha dichiarato in una nota ufficiale: “Con questa direttiva, fino a 40 milioni di lavoratori delle piattaforme nell’UE avranno accesso a condizioni di lavoro eque. Questo accordo storico darà loro dignità, protezione e diritti. Correggerà il lavoro autonomo fittizio e impedirà la concorrenza sleale, proteggerà il vero lavoro autonomo e introdurrà regole rivoluzionarie sulla gestione degli algoritmi. Questo diventerà un vero e proprio punto di riferimento a livello globale. Sono orgogliosa di dire: l’Europa protegge i suoi lavoratori, il suo modello sociale e la sua economia”.

Il testo della direttiva dovrà ora essere ratificato dal Consiglio europeo. A seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, gli Stati membri avranno due anni di tempo per il recepimento della direttiva.

 

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