Giuseppe Giannelli era stato in giovinezza un patriota. Aveva rifiutato, essendo impiegato del re delle Due Sicilie a Napoli, di firmare una petizione al sovrano perché ritirasse lo Statuto concesso suo malgrado in tempi «rivoluzionari». Per questo suo atto – come avrebbe egli stesso raccontato – «fui privato della proprietà della carica e dello stipendio che mi spettava; e per questo fui notato tra gli attendibili politici. Non fui destituito, perché non si volle con qualsiasi atto governativo confermare il sospetto che già avevano i Rappresentanti delle Potenze Estere che la mentovata petizione non fosse stata spontanea». Sopraggiunta la conquista garibaldina di Napoli e la fuga del re a Gaeta, Giannelli nell’agosto 1860 fu nominato sottintendente del distretto di Vallo, dove gli fu affidata la delicata missione di provocare «la rivoluzione» (cioè il mutamento di regime): ciò che il solerte sottintendente ottenne senza alcun spargimento di sangue. Dopo di che fu nominato presidente del Comizio incaricato di organizzare il plebiscito a favore della annessione e poi vicegovernatore del circondario di Pozzuoli. Nel 1861 sarebbe stato segretario generale della provincia di Salerno. Nel novembre 1861 infine fu nominato consigliere di prefettura di prima classe nell’amministrazione italiana e destinato in servizio alla Prefettura di Novara.
Sin qui la biografia del patriota. Da quell’anno Giannelli percorse non senza incontrare ostacoli la carriera di funzionario del Ministero dell’interno, subendo – come avrebbe lui stesso scritto nelle sue memorie anonime – «una vera e non interrotta persecuzione ed aggressione politica dell’Alta Burocrazia”. A Novara s’imbatté in un prefetto, il conte Emilio Viani d’Ovrano (che mantenne quell’incarico nel periodo 1861-63), che «nelle cose di uffizio si esprimeva in dialetto piemontese» e «i Milanesi nominava [non] altrimenti che i Barabba di là ed i meridionali i Briganti di giù». Giannelli fu subito catalogato nel secondo gruppo e iniziò per lui un calvario del quale le sue memorie, scritte nel 1891 sotto lo pseudonimo di Joseph pro domo sua e intitolate «Storia di un periodo dell’amministrazione italiana» recano una testimonianza assai interessante: vi trapela infatti il pregiudizio antimeridionalistico che dovette dominare negli anni dell’unificazione nazionale l’intera burocrazia piemontese. La lingua, il «frasario ufficiale», fu per Giannelli la pietra del contendere. Egli, avvezzo alle lezioni di Basilio Puoti e dei grandi maestri dell’Ateneo napoletano, mal si adattava al lessico di impronta militaresca tipico della burocrazia piemontese. Da ciò una lunga serie di provocazioni a suo danno e addirittura un duello cui seguì il trasferimento e probabilmente una mancata promozione.
Per soprammercato aumentava fra noi la reciproca antipatia il modo di esporre le nostre idee; imperciocché essi per fare ciò si valevano di quel frasario burocratico dell’antica amministrazione piemontese, un frasario che appo i meridionali non aveva riscontro che negli atti notarili delle peggiori epoche della letteratura italiana; ed io per l’opposto che veniva dalla scuola del Puoti, mi parevano assai visibili certi modi di dire erronei e di niun sapore italiano; e mi scandalizzava quando vedeva scritto la dichiara, l’incarta ed altri simili vocaboli.
Or, il mio puritanesimo in fatto di lingua e la loro pedanteria a pretensione cagionarono un deplorevole fatto. Come tutti i napoletani nello scrivere e nel parlare io ammettevo ne’ verbi quel tempo optativo o desiderativo alla maniera de’ Greci, ed aveva imparato dal Puoti che può benissimo dirsi «desidero che tu cantassi, che si approvasse» etc. Ma quei pedanti appunto (…) cominciarono a ridersi di me, e ad insinuare presso i capi dell’amministrazione (burocratici pervenuti agli alti posti per sola ragione dei tempi) che in fatto di grammatica, come dicevasi alla scuola elementare, io rompeva la testa a Prisciano.
Ebbene! Se fosse stata solamente una maligna insinuazione, una calunnia benanche, avreila senza dubbio tollerata (…); ma il ridicolo, quando io non aveva precedenti in quella regione, quando le provincie meridionali vi erano sconosciute più che l’interno dell’Africa, quando se ne davano giudizi falsi ed ingiuriosi, mi era intollerabille: ed un giorno, per una parola dura dettami dal Guala, uomo fegatoso e pieno d’alterigia (…), fui consigliato e costretto a chiamarlo ad una partita d’onore (…).
Le conseguenze del duello furono una leggera ferita alla guancia del mio avversario ed una graffiatura alla mia mano destra; di questa non si accorsero che pochi, essendo bastato un nastro che vi avvolsi io stesso per nasconderla e guarirla; ma della piccola ferita del mio collega si fece un maledetto chiasso in tutta Italia. Proteso in letto chiamò tutta la facoltà chirurgica per farsi medicare, chiamò in Novara tutta la sua famiglia che stava a poca distanza, insomma si fece compiangere da parenti ed amici e dai nostri superiori come vittima di un matto furioso; e quell’eccellente uomo che era il prefetto Viani ne fu così spaventato che ingenuamente mi confessò che al Ministero dell’Interno, dopo quel fatto, io era considerato come una belva sitibonda di sangue e ch’egli aveva dovuto annuire alla mia traslocazione da quella residenza: ed infatti, dopo qualche mese, fui traslocato a Ravenna.
Joseph pro domo sua (Giuseppe Giannelli), Storia di un periodo dell’amministrazione italiana, Salerno, Stabilimento Tip. Fratelli Jovane, 1891, pp. 48-50.