Il 1979, l’anno successivo all’assassinio di Aldo Moro, fu per la politica italiana difficilissimo. Era allora ancora in carica il quarto governo Andreotti, quello votato, nelle ore drammatiche della strage e del rapimento di Via Fani, anche dai pur riluttanti comunisti. Quel governo seguiva quelli delle “astensioni” e si basava su una sorta di patto non scritto tra i due grandi partiti usciti quasi alla pari dalle elezioni del 1976.
Ma col trascorrere degli anni i rapporti già problematici tra i due grandi partiti-rivali erano andati via via deteriorandosi. Ci si rendeva conto, a pochi mesi dal ritrovamento tragico di via Caetani, che il filo pazientemente tessuto da Aldo Moro per realizzare una alleanza, sia pure solo temporanea, coi comunisti si era inesorabilmente spezzato. L’intesa nata all’indomani del voto del 1976 con l’insediamento del terzo governo Andreotti (detto “delle astensioni” per il benevolo atteggiamento assunto dal Pci), si era logorata.
È questo lo scenario nel quale si colloca il fortunato libro-intervista che un ottimo giornalista della carta stampata e della televisione, Emanuele Rocco, realizzò in serrato dialogo con Fernando Di Giulio (1924-1981), deputato e dirigente di spicco del Pci, uomo chiave di quella che era stata sino ad allora la “diplomazia segreta” tra i due partiti. “Ministro ombra” era una definizione mutuata da altri Paesi lontani dall’Italia, alludeva al ruolo collaborativo o quanto meno dialettico di quelle opposizioni parlamentari rispetto al governo; era inedita invece nel contesto italiano, e voleva cogliere il particolare compito svolto in quegli anni da Di Giulio, in costante stretto contatto con il segretario Enrico Berlinguer e con il gruppo dirigente del suo partito. Il suo principale interlocutore era stato il sottosegretario alla Presidenza, il fidatissimo collaboratore di Andreotti Franco Evangelisti. Tra i due, pure diversissimi (Di Giulio era un comunista vecchia maniera, silenzioso e discreto, restìo ad ogni protagonismo; Evangelisti un irruento e vociante ciociaro, non esente da una certa vena vanagloriosa) era nata – come rivela pur senza enfasi lo stesso Di Giulio nelle sue risposte a Rocco – una specie di intesa, fatta di incontri più o meno strutturati, di rapide consultazioni nei momenti clou dello scontro parlamentare, di trattative sui programmi di governo e sul loro svolgimento. I due, insomma, si parlavano e in quella reciproca loro confidenza passava il filo sotterraneo dei contatti tra i due partiti. Ufficialmente il Pci non partecipava al governo e se era il caso anzi se ne distanziava (pur senza farlo cadere); la Dc sapeva bene che – come disse Andreotti in una battuta riportata da Evangelisti a Di Giulio – senza l’assenso del Pci in Parlamento non si sarebbe potuto approvare nessun provvedimento.
Il brano qui riportato registra i primi segnali di crisi dell’intesa: la Dc – dice Di Giulio appena qualche riga sopra – persegue una tattica “basata sui tempi di attuazione di qualsiasi misura programmatica o riformatrice”. Gli impegni sono assunti, ma poi per ragioni sempre invocate come oggettive, rinviati a tempi migliori. Le difficoltà, certo, esistono e sono spesso obiettive: ma il partito di governo se ne fa scudo per non attuare gli impegni. Un po’ come era accaduto nella crisi del 1964, quando, caduto il primo governo di centro-sinistra aperto ai socialisti, Moro aveva trattato sulla ricostituzione dell’alleanza: ma in quelle trattative aveva in pratica rinviato le misure più impegnative sottoscritte nel programma del 1963.
L’elemento essenziale, all’origine delle difficoltà delle quali la Democrazia Cristiana porta, storicamente, il massimo di responsabilità, è l’inadeguatezza dell’apparato statale a compiere qualsiasi operazione riformatrice seria, in tempi rapidi. Qui però emerge una contraddizione, perché da una parte gli esponenti democristiani di governo, Evangelisti ad esempio, ma anche Pandolfi e Malfatti, rilevano questo problema come ragione decisiva che impedisce di mantenere gli impegni assunti, dall’altra parte però non si nota mai nessuna azione incisiva da parte della Democrazia Cristiana o del governo per porre rimedio a questo stato di cose e quindi a questo punti il cane si morde la coda; l’apparato statale non funziona, i dirigenti democristiani lamentano questo problema, giustificano con questo problema una serie di inadempienze, non compiono però nessuno sforzo per superare questa situazione.
Fernando Di Giulio, Emmanuele Rocco, Un ministro ombra si confessa, Milano, Rizzoli, 1979, pp. 39-40.